La nascita dell’Università di Cagliari ebbe una gestazione lunga e travagliata, portata avanti con grandi difficoltà.
Il primo passo verso la sua istituzione venne fatto il 16 settembre 1543, quando, in occasione del parlamento convocato dal viceré Antonio Folch de Cardona, i delegati cagliaritani, Giovanni Antonio Arquer e Michele Barbera, rivolsero al re Carlo V d’Asburgo la richiesta di istituire uno Studium Generale nel capoluogo sardo, in maniera da permettere agli aspiranti dottori di portare avanti il loro percorso formativo senza dover abbandonare l’isola.
All’epoca, la nascita dell’università non avrebbe garantito solo la diffusione della cultura e dell’istruzione tra le élite sarde, ma avrebbe portato anche la crescita e il prestigio in una città che si espandeva ormai oltre le mura del Castello e dei suoi borghi.
I tempi per arrivare a risultati concreti furono molto lunghi, e fu solo il 15 febbraio 1607 che, dopo la terza richiesta da parte degli Stamenti, il Pontefice Paolo V promulgò la bolla di approvazione che disciplinava la costituzione de “l’Estudy y Universitat publica per als Regnicols” e dei suoi relativi organi di governo.
Il privilegio reale di fondazione fu emanato invece il 31 ottobre 1620 da Filippo II, ma l’ambasciatore sassarese presso la Corte aveva già da tempo gli stessi obiettivi per la sua città, e questa sua opposizione fu la causa dell’iniziale sospensione dei provvedimenti, che, nell’isola, contemplavano una sola università.
Giovanni Dexart, con la collaborazione di alcuni consiglieri civici, riuscì di volta in volta a limitare i contrasti e a stralciare gli impedimenti che continuavano a frapporsi all’eseguimento del progetto cagliaritano, e fu ancora lo stesso Dexart, il 1° febbraio 1626, a prendere l’iniziativa e a stilare il regolamento dell’Università che ne consentì finalmente l’apertura durante quello stesso anno.
La prima sede dell’università cagliaritana venne costruita e inaugurata nel 1625 in un’area del Castello posta di fronte alla Torre di San Pancrazio, e a far partire il progetto fu l’incipit di un legato di 10.000 lire sarde disposto il 16 agosto 1624 dal conte di Serramanna, don Antonio Brondo, che mirava ad alleggerire i costi residui che avrebbero poi gravato su una Civica Amministrazione ancora tentennante.
L’ateneo, che fu posto sotto la protezione dei santi Ilario (papa dal 461 al 468), Lucifero (vescovo di Cagliari), Eusebio (vescovo di Vercelli) e della Vergine (tutti quanti sono ancora presenti nell’attuale stemma) venne organizzato secondo il modello spagnolo che vedeva l’arcivescovo di Cagliari diventare Cancelliere dello Studio, mentre i consiglieri della città guidare il corpo elettorale che avrebbe eletto, ogni tre anni, il Rettore.
Si trattava indubbiamente di ruoli importanti poiché l’istituzione era divenuta uno strumento essenziale in una Sardegna oramai epicentro dei traffici mercantili del Mediterraneo, che comportavano per l’isola la crescita degli uffici amministrativi, e quindi degli studi necessari affinché nascessero figure professionali, come avvocati, procuratori, sollecitatori e notai, che fossero adatte a tali incarichi.
Il 1° febbraio 1626 vennero istituite le Facoltà di Teologia (di cui quattro cattedre affidate ai padri gesuiti), di Arti e Filosofia, di Legge e di Medicina, e il primo Rettore fu Cosma Escarxoni, canonico della Cattedrale di Cagliari e vicario generale.
Sebbene fosse partita con i migliori propositi, l’istituzione incontrò ben presto problemi di varia natura, e oltre ai consueti conflitti tra l’Archidiocesi e la Municipalità, furono soprattutto le difficoltà finanziarie a rallentare il decollo dello Studio Generale cagliaritano: benché validi, i docenti non venivano regolarmente retribuiti, pertanto dedicavano all’attività universitaria solo il tempo strettamente necessario alle lezioni.
Durante il 1655 la città fu inoltre colpita dalla peste, che provocò la morte di 12.000 persone, e le carestie causarono ulteriori danni all’esistenza già travagliata dell’ateneo.
Ad aggravare la situazione contribuì poi anche il governo spagnolo, che alla fine dello stesso anno impose l’incameramento delle rendite di tutte le università della Corona per far fronte alla grave crisi economica in corso.
La sospensione delle sovvenzioni comportò anche a Cagliari la soppressione di diverse cattedre, ma per quanto la situazione potesse apparire grave, si continuò comunque a conferire lauree e altri gradi academici.
Lo svolgimento dei corsi, poiché la diminuzione della popolazione aveva implicato anche la riduzione del bacino di utenza e la conseguente impossibilità di tenere le lezioni, dopo un iniziale periodo di regolarità didattica cominciò ad essere offerto in maniera discontinua, finché, smorzata la crisi, l’ateneo riprese a popolarsi di studenti e di giovani ambiziosi che vedevano nella carica di professore un trampolino di lancio verso le magistrature.
La carriera universitaria non era appetibile per gli accademici rinomati, e oltretutto era poco retribuita.
Per sopperire a tali mancanze, la nomina alle cattedre iniziò quindi ad essere fatta anche all’interno delle famiglie altolocate, tra coloro che erano in possesso del titolo dottorale, e i professori erano tenuti ad accettare l’incarico senza rinunciarvi, se non per cause note e legalmente riconosciute.
Le cattedre vacanti venivano invece affidate per concorso agli ordinari che avessero contribuito al mantenimento dell’ateneo, poiché il bilancio, in quel momento, gravava ancora sulla sola città di Cagliari.
Quello delle scarse risorse economiche era purtroppo una costante. Gli insegnanti erano sempre pochi, per via dei compensi irregolari provenienti dallo Studio Generale, e anche poco propensi all’insegnamento, al quale preferivano esercitare la libera professione. I fondi previsti dagli Stamenti militare ed ecclesiastico non furono mai versati, e più volte i cittadini si appellarono al sovrano affinché venissero aumentate le finanze dell’ateneo.
A seguito della guerra di successione spagnola e dei conseguenti trattati di pace (Londra 1718 e l’Aia 1720), il Regno di Sardegna passò sotto il regime della dinastia dei Savoia. Una volta insediatosi, Vittorio Amedeo II dovette far fronte ad una situazione critica e a tante questioni irrisolte o passate per decenni in secondo piano.
Nonostante un’iniziale e apparente interesse, il governo piemontese rivolse la sua attenzione agli atenei sardi solo nel 1755, anno in cui Carlo Emanuele III dispose la nomina di una commissione che indagasse sullo stato dell’università cagliaritana. La risposta della commissione fu immediata, ma l’amministrazione regia tardò ad intervenire, e nel frattempo continuava ad essere solo il Municipio a sopportare i più pesanti oneri finanziari.
La situazione in cui versava lo Studio Generale cagliaritano era complesso e grave: i locali, divenuti da tempo non più idonei, erano stati adibiti a magazzino per il grano e all’alloggiamento di alcune truppe militari; il rettore Angelo Maria Carta risultava in carica da ben diciassette anni e non tre, come previsto da un articolo del vecchio statuto. Nessun docente dettava e spiegava, non c’era l’obbligo di frequenza, non veniva seguito un percorso formativo e, soprattutto, non venivano rispettati i tempi stabiliti per il conseguimento dei gradi.
La gran parte dei docenti aveva un’età tanto avanzata da avere difficoltà a parlare e a ragionare, mentre altri non avevano esperienza se non quella del foro.
Figure incapaci, quindi, di impostare l’insegnamento e di stimolare gli allievi.
Il punto di non ritorno avvenne, però, quando il barone di Saint Remy, don Filippo Guglielmo Pallavicino (primo viceré sabaudo), venne a sapere con stupore che, qualche mese prima, il nuovo rettore dell’università era stato costretto a fare il giuramento all’interno della sua abitazione, poiché erano pochi i locali all’interno dell’università che ancora resistevano senza essere stati occupati dai sacchi di grano.
La relazione della commissione, con la quale venivano illustrate le criticità generali dell’isola, giunta alla Segreteria di Stato di Torino, arrivò nelle mani del ministro Giovanni Battista Lorenzo Bogino, il quale si affrettò a riunire un secondo comitato a cui affidare il compito di formare la nuova classe dirigente del Regno di Sardegna.
Il primo segnale di rinnovamento che riguardava lo Studio Generale arrivò con l’istituzione, nel 1759, della Scuola di Chirurgia, affidata a Michele Plazza, collegiato all’Università di Torino. Ma il vero impulso alla complessa riforma si ebbe, tuttavia, e in quello stesso anno, con la nomina dello stesso Giovanni Battista Bogino alla carica di Segretario di Stato per gli Affari della Sardegna.
Con l’attribuzione delle cariche della nuova classe dirigente, firmate il 28 giugno 1764 dal sovrano Carlo Emanuele III, il Bogino si prodigò subito per ridare credibilità all’università sabauda, sostituendo prima di tutto la figura del rettore con un organismo collegiale denominato Magistrato sopra gli Studi, composto dall’Arcivescovo di Cagliari, dal Reggente la Reale Cancelleria, dal Consigliere capo della città, dai Prefetti dei quattro Collegi (gli antecedenti dei Presidenti di Facoltà), dal Censore e dal Segretario. Principale obiettivo del Magistrato sopra gli Studi era quello di vigilare sulle dottrine impartite nell’ateneo e di garantirne l’ordine.
Il nuovo corpo docente fu invece costituito tanto da volenterosi insegnanti piemontesi, quanto da giovani sardi che si erano appena specializzati presso l’Università di Torino. Per i professori la Sardegna continuava a non rappresentare una grande attrattiva, in particolar modo per la carenza di risorse finanziarie, per cui il lavoro didattico venne inizialmente affidato ad insegnanti certamente capaci, ma spesso con poca esperienza.
Il 3 novembre 1764, una solenne cerimonia, a cui presero parte tutte le maggiori autorità civili e religiose, annunciò ufficialmente l’apertura dell’Anno Accademico, le cui lezioni, in mancanza di una sede adeguata, vennero inizialmente tenute nel collegi di San Giuseppe e di Santa Croce, mentre quelle di chirurgia nelle case dei professori.
Quella boginiana fu una restaurazione attuata su un terreno ancora arretrato, e la Sardegna, entrando nell’orbita della Casata dei Savoia, assistette alla trasformazione di un ateneo che da istituzione cittadina diveniva università statale, che aveva come unico obiettivo quello di formare una nuova classe dirigente che fosse orientata agli ideali totalitari della monarchia di Carlo Emanuele III.
Secondo la riforma, le lezioni dovevano fornire allo stesso tempo una formazione di base e un’educazione soda e utile, cioè proiettata verso futuri impieghi. In relazione a questo aspetto, alla disputa doveva sostituirsi una logica elegante, nella quale l’arte del ragionare fosse finalizzato ai compiti sostanziali dell’apprendimento e della pratica.
I primi anni della ‘nuova’ università furono caratterizzati da importanti successi nel settore degli studi giuridici e matematici, mentre il Collegio di Medicina attirava poche iscrizioni, tanto da rappresentare un cruccio per il governo sabaudo, che intendeva formare nuovi medici che potessero esercitare presso le ville isolane. Furono così prese misure finalizzate all’avvio dei giovani agli studi medico-chirurgici, potenziandone anche le dotazioni didattiche.
Nel 1764, in occasione dell’apertura dell’anno accademico, si era discusso anche sull’eventualità di realizzare una nuova sede. L’idea di utilizzare il fabbricato della vecchia università era stata abbandonata fin da subito, essendo non solo da restaurare, ma anche inadatto ad ospitare nei suoi sei “cameroni” le quattro facoltà con corsi obbligatori e le attrezzature basilari. La scelta di trovare il sito sul quale sarebbe sorto il nuovo ateneo fu affidato all’ingegnere Saverio Belgrano di Famolasco, capo del Genio militare, che aveva fin da subito preso in considerazione il Bastione del Balice, dove ancora si ergeva una caserma di soldati di fanteria.
Con la Fusione Perfetta, il Magistrato sopra gli Studi venne sostituito dalla Segreteria di Stato per la Pubblica Istruzione, che divenne operativa dal 1° maggio 1848.
Durante quello stesso anno vennero prese in considerazione anche nuove riforme e miglioramenti che potessero andare incontro non solo agli studenti ma anche ai docenti. Furono quindi aumentati i redditi, fondate nuove cattedre, creati nuovi stabilimenti scientifici e migliorate le condizioni di quelli già esistenti; furono decretati nuovi ordinamenti sugli studi, sui corsi, sugli esami e sulla disciplina. L’arrivo di importanti professori dal continente era visto come un fatto stimolante da parte degli allievi, tanto che i nuovi docenti venivano accolti con ogni dimostrazione di riverenza.
Il polo accademico rimarrà concentrato per lunghi anni in quello che nel frattempo era stato battezzato Palazzo Belgrano, dopodiché, in seguito all’accrescersi delle iscrizioni, una alla volta, le diverse facoltà si trasferirono altrove.
Oggi l’antico palazzo ospita soltanto il rettorato, la biblioteca settecentesca, l’archivio, la segreteria centrale e gli uffici amministrativi e tecnici.