I ragazzi della cesta

Ph Wagner Max Leopold

Simboli dell’emarginazione e della povertà estrema, nelle foto che li ritraggono appaiono come piccoli uomini, minuti ma con l’espressione di chi ha già vissuto una lunga vita.
In prevalenza maschi, non sono altro che i figli di una città di fine Ottocento che sta cambiando, anche se ancora divisa nettamente fra zona alta e zona bassa, e che li ha visti crescere fino agli anni Trenta del Novecento, e morire naturalmente e senza troppo rumore durante gli anni Quaranta dello stesso secolo.

Orfani, figli di relazioni illegittime, o componenti delle famiglie del più misero sottoproletariato, non scelsero la via della strada, ma vi furono più probabilmente obbligati. Forse perché la vita nei vicoli era più stimolante, e i bassi e i fondaci, trasformati in luridi terranei per uso abitativo da condividere con un padre spesso ozioso o ubriaco e una madre che si ritrovava a dover crescere una nidiata di bambini, non erano abitazioni confortevoli. La strada diventava così la loro casa, e alla tristezza delle topaie preferivano la libertà e l’allegria dei compagni che non potevano contare su una famiglia, che gli aveva abbandonati o che non avevano mai avuto.

Le descrizioni dell’epoca consentono di immaginare sciami di bambini chiassosi con i piedi scalzi e i visi neri, denutriti e con pantaloni larghi con le toppe sulle ginocchia che confessavano una certa, esagerata usura. Privi di qualsiasi tutela, vivevano randagi, irrequieti e talvolta ammalati. Spesso erano dediti ai piccoli furti, cose di poco conto come pettini, legna, carbone, ceste e più spesso cibo, per i quali ogni tanto finivano in gabbia. Erano avvezzi alla promiscuità e di frequente sfruttati anche sessualmente, tanto che non era raro che concludessero la loro breve esistenza uccisi brutalmente.

Con l’aria furba, spavalda, e spesso con la sigaretta infilata in bocca, ostentavano una sicurezza che andava oltre la loro giovane età, che oscillava fra gli 8 e i 14 anni.

Ph Mario Pes

Costretti spesso a sfuggire a situazioni complicate in cui si erano cacciati, orbitavano davanti alle porte de “is bascius” oppure in prossimità  delle botteghe artigiane, nei pressi della ferrovia o nella darsena, in attesa dell’arrivo di navi e turisti, mandando in visibilio forestieri e fotografi. La turbe di bambini dalla spiccata vivacità attendevano anche le donne della nobiltà, all’ingresso del Castello oppure fuori dal grande mercato, pronti, per pochi spicci o un pezzo di pane, a trasportare la spesa dei borghesi che facevano acquisti.

Il mercato civico del largo Carlo felice, tempio pagano di ogni ben di Dio, era la meraviglia cittadina, celebrata dai residenti e magnificata dai forestieri che ne rimanevano in qualche modo sedotti.
Ogni giorno, is piccioccus de crobi, immancabilmente, sostavano nei suoi paraggi e attendevano le signore con le serve che si recavano a fare le compere. Loro, per una moneta, portavano la spesa a domicilio con l’ausilio delle ceste. Enormi, svasate, grandi quanto i loro proprietari, i ragazzini le portavano in testa in attesa della “benefattrice” di turno sembrando degli enormi funghi ambulanti.

Quel contenitore di vimini intrecciato, “sa corbula”, per la maggior parte di loro non era solo lo strumento di lavoro di giorno, ma anche una sedia, un rifugio per nascondersi, un parapioggia o parasole, un ripiano per giocare a carte, il letto per la notte ed il corpo contundente da lanciare tra i piedi di chi li offendeva, per provocarne rovinose cadute.

Dopo aver lavorato la mattina come trasportatori, forti tanto quanto sanno essere i morsi della fame, passavano il resto della giornata a ninnolare, refrattari alla scuola o all’apprendimento di una qualsiasi arte. Seduti in cerchio o sdraiati nelle piazze, giravano per strada con il viso abbronzato, cibandosi di avanzi raccolti dalle pattumiere delle bettole, talvolta contendendosi un tozzo di pane anche con i cani, e raccattando mozziconi per strada, da cui estrapolavano la rimanenza di tabacco per poi rivenderlo.

La notte, abbandonati a se stessi, la passavano avvolti in giornali e, abituati a vivere in gruppi, si riparavano in grotte o all’aperto fra le immondizie e il fango, sui gradini delle porte, sulle scalinate delle chiese o sotto il portico di Sant’Antonio.

Piccioccus de crobi

La loro fu un’infanzia sfortunata, ignorata dalle istituzioni, e sostenuta solo dall’iniziativa di alcuni religiosi o qualche buon cuore.
Le cause della condotta errante di questi giovani andavano ricercate solo nella loro misera condizione sociale, e i rimedi non si dovevano trovare nella punizione esemplare o fra le mura del riformatorio, ma nel fornire loro un concreto aiuto, strappandoli dalla strada, dotandoli di istruzione, cure mediche, alimentazione adeguata, comprensione e affetto.
Erano il frutto di una società priva di strutture e servizi sociali, dove la povertà e l’analfabetismo erano problemi endemici.

Di tutto questo se ne rese conto una signora cappellona, sopranominata in questo modo per il suo copricapo bianco, a larghe tese spioventi e rigidamente inamidate.
Suor Giuseppina Nicoli era un angelo vincenziano, che, a partire dall’estate del 1914 soccorse centinaia di ragazzini presso l’asilo della Marina dove era superiora.
Ribattezzati con il nome di “Marianelli”(i monelli di Maria), la religiosa non li estraniava dal loro habitat, ma li accoglieva nel suo istituto offrendogli un pasto caldo e insegnandogli a leggere e a scrivere.

Ph Wagner Max Leopold

C’erano quelli che speravano, imparando un mestiere, di poter aspirare a un futuro migliore. Ma quella struttura era troppo piccola per accoglierli tutti, e nonostante la buona volontà, la gran parte di loro continuava a vagare tra gli sbandati nelle sinuose vie del quartiere e in prossimità del porto.

I ragazzini più svegli, una volta cresciuti, venivano gradatamente assorbiti dalla malavita e finivano in carcere. Costituivano un gruppo piuttosto folto di diseredati, evidente testimonianza del malessere cittadino, divenendo col tempo un problema sociale.
Agli inizi del Novecento, nel convincimento di poterli tenere più facilmente sotto controllo, i giovani teppistelli furono costretti a portare al collo una medaglietta d’ottone con un numero d’ordine, che abilmente riuscivano però subito a togliere, con buona pace delle autorità che ricominciavano a soprassedere.

Oggi di loro resta poco, quasi nemmeno un ricordo. Piuttosto foto che trasudano la spensieratezza dell’età. E in quelle foto che documentano lo spaccato di una vita cagliaritana che non c’è più si legge ampiamente di quanto doveva essere forte il disagio e dura la povertà.

Is piccioccus de crobi scomparvero con il benessere, e di loro per le strade non vi è più traccia.