A Cagliari, tra il XVI e il XVII secolo, si assiste al sorgere del fenomeno delle confraternite, associazioni formate perlopiù da laici che avevano lo scopo di condividere la propria fede religiosa ed esprimerla attraverso forme di assistenza in favore delle categorie più fragili.

In quest’epoca, la comunità ligure presente in città era numerosa ed economicamente attiva. Risiedeva in una lunga strada del borgo nobile del Castello, dove non c’era però stato spazio per la costruzione di una cappella nella quale potersi riunire.
Nel 1588, con un intento spirituale e sociale, alcuni cittadini genovesi decisero quindi di cercare un oratorio in uno dei villaggi sottostanti e di dare origine ad una congregazione da sottoporre a una regola comune, attraverso la quale potersi dedicare non solo alle opere religiose ed assistenziali, ma anche assicurare ai mercanti conterranei sostegno ai loro interessi e difesa in un ambiente sociale estraneo, mantenendo saldo il legame, sia culturale che affettivo, con la madrepatria.
Il requisito fondamentale per poterne fare parte era avere un legame con la nazione genovese, essere quindi liguri, o figli maschi di liguri, anche se nati altrove, avere un’età non inferiore ai 18 anni, ed appartenere per stipite ad uno dei 50 mandamenti di Genova.
Gli aderenti, che pagavano una quota associativa obbligatoria, dovevano assicurare la partecipazione alle iniziative collettive, e questo consentiva loro di accedere alle garanzie assistenziali, morali e materiali che la comunità offriva. Tra i benefici, oltre il sostegno nell’attività mercantile, vi erano anche la concessione di sussidi e il privilegio di poter amministrare l’Eucarestia agli infermi, mentre fra i doveri era inderogabile la loro presenza nell’assistenza ai confratelli moribondi, nell’organizzazione del loro funerale e della sepoltura. Inoltre, dovevano avallare l’istituzione di cappellanie a titolo di patrimoni ecclesiastici, e garantire alle ragazze povere l’assegnazione di doti maritali.

La struttura organizzativa prevedeva un’assemblea dei confratelli che aveva potere deliberativo. L’organo di governo e di indirizzo, denominato Banca, era costituito da un priore e da due guardiani. Due ufficiali erano incaricati della redenzione dei carcerati, un segretario curava gli atti e un cappellano maggiore aveva il compito di regolare l’attività e le funzioni celebrate da quelli minori. Gli obrieri di sacrestia si occupavano della gestione amministrativa e dei beni della chiesa, mentre il procuratore generale curava l’amministrazione della società, provvedendo alla riscossione delle rendite e ai vari pagamenti.
L’associazione laica, che nel 1590 fu trasformata in confraternita con decreto capitolare dell’Arcivescovo di Cagliari, e innalzata ad arciconfraternita con bolla del 26 gennaio 1591, era posta sotto la protezione dei SS.MM. Giorgio e Caterina. San Giorgio era venerato a Genova, mentre Santa Caterina d’Alessandria era particolarmente amata ad Alassio, da cui proveniva la grande maggioranza della comunità ligure presente in città.
I confratelli, non essendo stati in grado di recuperare uno spazio nel loro quartiere di appartenenza, per le riunioni si incontravano all’interno di una cappella della chiesa di Santa Maria di Gesù, officiata dai frati minori osservanti, che si trovava nell’odierno viale Regina Margherita. Sotto il pavimento marmoreo del piccolo tempietto, consacrato ai SS.MM. Giorgio e Caterina, avevano invece sepoltura i membri defunti della confraternita, a significare che il sodalizio che legava i genovesi durante la vita proseguiva anche dopo la morte.

I dissidi sorti nel frattempo con i frati francescani, ad un certo punto comportarono però uno spiacevole cambio di sede.
Con una votazione unanime, nel 1599, i membri dell’arciconfraternita decisero infatti di abbandonare il tempio di Villanova e di edificare una nuova chiesa intitolandola ai loro Santi protettori, sottoscrivendo donazioni in denaro ed offrendo la loro opera di scalpellini, muratori, fabbri e carpentieri. Altri garantirono legname, ferramenta, calce e sabbia.
Durante il mese di luglio dello stesso anno, i confratelli riuscirono finalmente ad acquistare un terreno nella strada che costeggiava il limite nord della cinta difensiva del Castello, mentre quattro mesi più tardi venne invece benedetta la posa della prima pietra del nuovo oratorio, sulla cui controfacciata venne successivamente murata anche una lastra marmorea con un’iscrizione latina a ricordo dell’evento.
D.O.M. Clemente VIII. Pont. Max. Philippo III Hisp. et Sardiniae rege catholico D. Ant. Coloma Calvillo comite Eldensi istius Regni Prorege. D. Alphonso Lasso Cedeno Archiep. Calarit. Episcopo unionum Sardiniae Primati . Doctore Michele Scarxoni Canon. Calaritano. Proctetore Jo. Ant. Martino nationis Genuen Consuli. Ambrosio Airaldo Augustino Seassaro et Pacifico Nateri liguribus prior. et guardianis archiconfraternitatis SS. Georgii et Catherinae in hac calaritana civitate erecta. Templum hoc sub invocatione eorundem SS. Georgii et Catherinae edificari coeptum est. Deputatis operae dicti Templi eiisdem Airaldo et Seassaro nec non etiam Francisco Astraldo et Prospero Parascosso et ab eodem Archiepo benedictum fuit anno MDXCIX die Mart. IX Cal. Decembr.
Per la realizzazione dell’edificio furono necessari molti anni di sacrifici, ma soprattutto parecchie donazioni.
Nel 1602, con una solenne cerimonia, si poterono però già traslare le spoglie dei genovesi sepolti nella cappella di Santa Maria di Gesù, e trasferire tutti gli arredi dell’antica sede ancora custoditi all’interno del convento dei minori osservanti.

La chiesa, senza cupola, che si presume possa essere stata ultimata intorno al 1636, constava di un’unica aula voltata a botte sulla quale si aprivano tre cappelle laterali per parte, ciascuna realizzata e arredata con le risorse personali di diversi confratelli.
La prima, a destra, era dedicata a Santa Caterina da Siena, e al suo interno era presente un quadro della Beata, svenuta fra due angeli, e Gesù che l’assiste; sopra un piedistallo vi si trovava invece un simulacro in legno che raffigurava la stessa Madre Celeste.
La cappella successiva era intitolata alla Vergine di Adamo, e nella nicchia costruita completamente in marmo erano esposti un crocifisso e un simulacro di Santa Caterina. All’interno di un tabernacolo era invece custodita una piccola statua della Vergine col Bambino, che si diceva fosse stata trovata in mare da un capitano genovese chiamato Adamo, da cui l’intitolazione del tempietto. La leggenda, che la vuole recuperata fra le onde durante il XVIII secolo, narra anche che la piccola statua fosse custodita all’interno di una conchiglia, disposta al centro di una raggiera dorata e ornata con pietre preziose.
All’interno della stessa cappella si poteva inoltre contemplare un dipinto che raffigurava un bastimento in lontananza, a memoria del fatto.
La terza edicola era infine dedicata alla Vergine delle Grazie.
Il primo tempietto sulla sinistra era intitolato a San Giuseppe, e all’interno della nicchia vi erano la Vergine, Gesù, e San Giuseppe in atto di adorazione. Sopra, una corona di Angeli con il Padre Eterno.
L’edicola centrale era dedicata alla Vergine della Misericordia, e il suo spazio conteneva il simulacro della Madonna insieme ad un altra figura in ginocchio, a grandezza naturale, che raffigurava Antonio Botta genovese.
L’ultima cappella, eretta nel 1603, era consacrata a San Bernardo, ma al suo interno veniva celebrata la Vergine della città di Genova. La grande pala, che riempiva quasi interamente la parete, ritraeva Gesù Bambino in braccio alla Madonna mentre porgeva le chiavi della città a San Bernardo di Chiaravalle, primo vescovo del capoluogo ligure e suo patrono. Sullo sfondo si intravedevano infine la lanterna e le mura della città ligure.
Il grandioso altare maggiore, realizzato completamente in marmo sopra il presbiterio, era infine sovrastato da una grande tela che raffigurava la Madonna con Bambino tra i Santi Giorgio e Caterina.
Attribuito al pennello di Giovanni Andrea de Ferrari, che lo eseguì tra il 1646 e il 1651, simboleggiava il matrimonio mistico di Santa Caterina mentre riceveva l’anello nunziale da Gesù Bambino in grembo alla Madonna. L’opera, prima di trovare definitivamente posto a Cagliari, fu rimandata al mittente perché il pittore aveva dimenticato di ritrarre San Giorgio, al quale erano profondamente devoti i genovesi.
La chiesa, ricca di arredi, di oggetti preziosi e statue, disponeva anche di un organo e di un gonfalone che veniva portato in processione nel giorno della festa del 25 novembre, e che rappresentava il martirio di Santa Alessandra.
I ricchi mercanti residenti a Cagliari erano collegati in reti di traffici con le piazze più importanti del Mediterraneo, dove fiorivano altre comunità di conterranei. Per questo, non di rado, opere e artisti giungevano in città oltre che da Genova, anche da Napoli e, probabilmente, dalla Sicilia. Ad arricchire il patrimonio artistico, contribuivano poi i dipinti provenienti dalle botteghe romane e naturalmente quelli di produzione locale.

Per riuscire a vedere terminato l’esterno della chiesa si dovette aspettare il 1672, quando fu sistemato il portale in marmo bianco, scolpito dai due fratelli liguri Carlo e Francesco Rosso.
L’imponente ed elaborato ingresso era costituito da due colonne tortili, che, affiancate da due cariatidi, sostenevano una vistosa trabeazione sormontata da un timpano spezzato e sagomato a volute, al centro del quale campeggiava lo stemma coronato di Genova. Lo scudo della Serenissima Repubblica, con la Croce rossa di San Giorgio su sfondo bianco, era sorretto da due grifi alati, metà aquile e metà leoni; alla base, su una striscia di marmo forgiata a nastro, era invece inciso il motto della repubblica ligure: LIBERTAS.
A primeggiare sul portale centrale, al di sopra delle volute sovrastanti la trabeazione, erano presenti anche due cherubini col braccio teso al cielo.
I due portali laterali erano infine riquadrati da fasce in bugnato che rimarcavano i conci delle piattebande, oltre le quali si aprivano delle finestre a lunetta coronate da una robusta cornice modanata.

Negli ultimi anni del Settecento la confraternita iniziò una lenta decadenza, e, solcata da divisioni interne, cessò il suo funzionamento nel 1807. Il temperamento dei genovesi però era forte, avevano necessità di una comunità che li rappresentasse, e nel 1826 deliberarono per la ricostituzione.
A seguito degli sconvolgimenti causati dalla rivoluzione napoleonica, che ebbe ripercussioni in tutta Europa, anche la chiesa subì dei contraccolpi, e rimase chiusa al culto dal 1805 al 1826.
Alla fine dell’Ottocento, l’arciconfraternita fu riconosciuta ente pubblico di beneficenza ed incardinata nel sistema amministrativo previsto per le Opere Pie. La comunità però non si uniformò alle limitazioni disposte dal provvedimento, e nel 1907 incorse nelle sanzioni previste per i trasgressori e allo scioglimento dell’amministrazione, che fu sottoposta ad un commissario straordinario per la gestione temporanea.
Gli accordi tra Stato e Chiesa dell’11 febbraio 1929, prevedevano invece il passaggio delle congregazioni al regime del diritto canonico, ma l’istituto della confraternita genovese fu dichiarato ente ecclesiastico civilmente riconosciuto solo con il decreto del Presidente della Repubblica del 12 gennaio 1958.

Durante i rifacimenti di inizio Novecento, il prospetto originale del tempio, di tipo dorico tuscanico, venne sostituito da un altro di gusto barocco. Nella parte inferiore fu suddiviso in tre spicchi da lesene ioniche, sormontato da un ordine superiore con una grande lunetta, e concluso dal tipico coronamento a lucerna di carabiniere.
A seguito del distacco improvviso dell’angelo destro, per questioni cautelative e di simmetria, i cherubini un tempo presenti scomparvero invece durante gli anni Venti del Novecento.
Le lesene vennero private della modanatura che correva lungo il fusto, mentre i capitelli furono modificati in stile ionico; le cornici bugnate che attorniavano i portali laterali vennero sostituite da semplici fasce lisce, più simili alle nuove lesene, e le lunette soprastanti furono infine ingrandite con la conseguente riduzione dello spessore della cornice che ne segnava il bordo.
La volta interna della chiesa venne decorata a cassettoni. Ciascun riquadro centrale fu attorniato da dieci medaglioni, mentre le cornici vennero adornate con motivi a girali e borchie a rosette su ogni angolo.
La volta interna della chiesa venne decorata a cassettoni. Ciascun riquadro centrale fu attorniato da dieci medaglioni, mentre le cornici vennero adornate con motivi a girali e borchie a rosette su ogni angolo.
I lavori si conclusero presumibilmente durante il 1929, anno in cui venne fusa anche la nuova campana per il torrino a vela, non visibile dalla strada, ma posto al di sopra della parete di fondo e accessibile solo dall’interno della chiesa.

Altri restauri minori proseguirono invece fino a poco prima che i bombardamenti del 13 maggio 1943 rasero al suolo il tempio genovese.
In un attimo furono cancellati per sempre i sacrifici che la popolazione ligure aveva sostenuto nei secoli per la sua edificazione. La conseguenza più inaspettata dell’evento bellico fu però il rinvenimento di una vasta cripta, una cavità sotterranea che si era deciso di chiudere nel lontano 1827 e della quale non era rimasta traccia neppure nella tradizione orale.
L’inattesa scoperta diede nuova linfa ai confratelli genovesi, che, trovato il coraggio per ricominciare, presero a recuperare dalle macerie tutto ciò che si era miracolosamente salvato dalla distruzione.
Dopo aver fatto abbattere le tre cappelle laterali di sinistra, fortemente danneggiate ma rimaste ancora in piedi, vennero fatti invece dei nuovi progetti per recuperare l’area e, soprattutto, per ricostruire un tempio in linea con i tempi ormai cambiati.
Lo spazio in cui giacevano le macerie della chiesa era nel frattempo divenuto molto appetibile e faceva presagire vantaggi di ordine economico. Nulla però si muoveva, e dovettero trascorrere ben quindici anni dall’evento drammatico dei bombardamenti prima che potesse essere approvata una complessa operazione di permuta con la cessione del diritto di ricostruire il tempio genovese alle pendici del Monte Urpinu. Il terreno dell’attuale via Manno venne quindi venduto al gruppo La Rinascente che vi costruì il grande magazzino Upim, poi ceduto a Zara, e che, nelle sue viscere, custodisce ancora l’antica cripta ormai sepolta per sempre.
Oggi, nella facciata del nuovo palazzo sorto nella via Manno rimangono solo una lastra che ricorda la chiesa, e poco più avanti, una piccola edicola all’interno della quale è custodito un dipinto della Vergine delle Grazie appartenuto al tempio dei SS.MM. Giorgio e Caterina dei Genovesi che non esiste più.