Il 25 aprile 1673, cinque monache Cappuccine dell’Ordine di Santa Chiara lasciano il Reale Monastero di Madrid per raggiungere la Sardegna. Arrivano a Sassari, e lì, altre consorelle e novizie si aggiungono al piccolo gruppo spagnolo.
Il 19 marzo 1703, radunato il Capitolo, l’Arcivescovo di Sassari sceglie otto converse da inviare a Cagliari con l’intento di costruire un nuovo monastero di clausura. Le religiose partono alla fine dello stesso mese e giungono in città a bordo di due carrozze. Vengono ospitate presso l’ospizio della diocesi cittadina, e due mesi più tardi, il 15 maggio, ha inizio la loro vita di clausura.
Prima di estraniarsi dal mondo, le religiose visitano i santuari esistenti, e vanno in cerca di un luogo adeguato alle esigenze della vita imposte dalla loro regola.
Ispirandosi a Gregorio IX, che per edificare la grandiosa basilica di S. Francesco ad Assisi aveva scelto il Colle dell’Inferno, detto così perché destinato all’ultimo supplizio dei condannati a morte, a Cagliari le monache optano per un posto analogamente funesto, ossia l’area sottostante le mura del Castello dove venivano somministrate le pene capitali.
Lo stesso sito, secondo le cosiddette Carte d’Arborea – un insieme di documenti contraffatti messi in circolazione durante la seconda metà dell’Ottocento con lo scopo principale di colmare alcuni vuoti nella storiografia sarda -, circa un secolo prima era già stato adibito anche ad ambiente di culto, pertanto, quel terreno sembrava essere davvero l’oasi perfetta per impiantare un nuovo monastero in cui osservare l’isolamento spirituale.
Nelle Carte veniva annotato che, in seguito all’entrata dell’isola nell’impero bizantino, Gregorio Magno, pontefice dal 590 al 604, aveva inviato numerose lettere al vescovo cagliaritano Ianuarius, esponendo diversi temi. Nella prima lettera indirizzata alla Sardegna, nel 591, in merito ad una controversia patrimoniale, si menzionava anche un antico monastero fondato dalla matrona Vetuliana, dedicato a San Vito. Distrutto dai barbari, nel 793 venne restaurato da una ricca cagliaritana di nome Calmezia, che, rimasta vedova durante una terribile carestia, prese gli abiti talari e lì vi concluse i suoi giorni…
La nuova badia venne edificata nella parte più alta del borgo della Lapola, forse proprio sopra i resti del più antico edificio religioso, beneficiando delle donazioni di facoltosi cagliaritani, tra cui si distinse per generosità donna Anarda Genovés y Olives, vedova di don Salvatore Zatrillas y Vico, che alla sua morte, il 10 luglio 1737, ottenne di essere tumulata nell’ossario del monastero.
I lavori per la costruzione del complesso religioso si svolsero senza difficoltà, e dopo pochi anni di attesa, il 15 febbraio del 1711 le religiose poterono trasferirsi nelle aule dell’edificio, intitolato al Santo Sepolcro delle Monache Cappuccine.
La nuova casa spirituale venne realizzata senza fronzoli e con un’architettura disadorna. Si componeva, al primo piano, di trenta celle ripartite in due corridoi, di una stanza per il lavoro di cucito, di un guardaroba, una terrazza e un coro maggiore; vi era poi il noviziato, collegato al dormitorio delle postulanti e alla stanza per una maestra, un andito e un secondo terrazzo più piccolo.
Il centro del piano inferiore era invece caratterizzato da un minuto giardino di forma quadrata su cui si affacciavano una parte delle finestre delle celle del piano soprastante.
Due lati del chiostro portavano ai claustri, dove c’erano il coro, una rota, la porta d’ingresso e il parlatorio, unito alla sala del capitolo, all’uscita del quale si apriva una comoda e larga scala che immetteva in uno dei corridoi del piano superiore.
Il terzo lato del giardino conduceva alla lavanderia, all’infermeria e alla sacrestia. Il quarto lato dava infine alla cucina, alla dispensa, al refettorio e ai suoi ambienti attigui.
Come il monastero, anche la chiesa, dedicata alla Beata Vergine della Pietà, si presentava modesta ed essenziale, e la facciata, semplice e coronata da un cornicione aggettante, mostrava due aperture lunettate, funzionali all’illuminazione del coro di pertinenza esclusiva delle monache.
L’esterno, ad intonaco liscio, era infine caratterizzato da una copertura estradossata a tegole e coppi, e da un piccolo campanile a vela con una sola campana. Sobrie note che la definiscono ancora oggi.
Attualmente, l’interno della chiesa, ribassato rispetto al livello del piano stradale, si presenta a pianta rettangolare e diviso in due parti, ciascuna con copertura di tipo diverso. La più vicina all’ingresso ha due volte a crociera che sorreggono una cantoria schermata da una robusta grata di ferro, mentre la restante parte, voltata a botte, è scandita da sottarchi che scaricano su paraste dai capitelli scomposti.
A metà della lunghezza della navata sono presenti due cappelle affrontate con due semplici altari laterali dedicati al Cristo Nazareno e alla Pietà. Il secondo gruppo scultoreo, di fattura lignea policroma, è risalente al XVIII secolo, e vuole immortalare una Madonna, che, con lo sguardo rivolto verso l’alto, rassegnata e pervasa da un profondo dolore, tiene fra le sue braccia il Cristo morto. Entrambe le sculture sono custodite in una piccola nicchia, valorizzata ed esaltata da due colonne tortili in legno dorato unite da una elaborata trabeazione.
Il presbiterio, rialzato lievemente per la presenza di un gradino, è realizzato in stile barocco con mensole in marmi policromi intarsiati, e custodisce, nella nicchia centrale a forma di edicola, il Santissimo.
Al di sopra, un finestrone reniforme fornisce luce all’ambiente.
Attraverso due aperture simmetriche ai lati della parete, si accede invece al vano della sagrestia, che mostra sulla sinistra un corridoio comunicante con un piccolo stanzino.
La decorazione interna è in stucco, mentre i pavimenti sono marmorei.
Una lapide di marmo, posta all’ingresso sotto una piccola acquasantiera, ricorda il giorno della consacrazione della chiesa, avvenuta il 23 novembre 1806 con la benedizione dell’Arcivescovo di Oristano, Franciscus M. Sisternes de Oblitis.
L’11 settembre 1714, dopo una richiesta inviata dalla badessa Maddalena Amat, Carlo III d’Asburgo, imperatore d’Austria, per eccitare gli animi dei sudditi alla devozione, mise l’edificio religioso sotto la sua protezione, dichiarandolo Monastero Reale.
Quando la Sardegna passò sotto lo scettro di casa Savoia, le religiose rinnovarono l’istanza, che fu accolta da Carlo Emanuele III con diploma del 24 giugno 1733.
Nonostante l’esistenza dei due attestati, nel 1855 il monastero subì ugualmente le disposizioni della legge Rattazzi (n.878 del 29 maggio), e passò in parte all’amministrazione del Fondo per il Culto e in parte al Demanio. Le religiose ottennero però una dispensa che consentiva loro di continuare ad abitare il monastero fin tanto che fossero rimaste in numero pari o superiori a sei unità, diversamente, avrebbero dovuto abbandonare l’edificio e trovare un’altra sistemazione, o ritornare alla vita privata in seno alle loro famiglie.
In seguito alle leggi eversive del 1866 e 1867, con le quali si imponeva alla chiesa la vendita dei propri beni immobili, il Municipio, data l’ampiezza del casamento religioso, fece richiesta di poterlo trasformare in una scuola popolare. Nel 1895 però, il numero delle monache residenti al suo interno era ancora sufficientemente alto da scongiurarne l’allontanamento dall’edificio.
Quando invece, nel 1920, le monache riconosciute per legge si ridussero a due, fu la Santa Sede ad intervenire, concedendo un nulla osta affinché altre 18 monache di voti semplici potessero confermare la solennità di obbedienza alla clausura.
Le buone intenzioni servirono a poco, poiché, due anni dopo, l’Amministrazione provinciale decise di instaurare un nuovo organo di controllo a cui conferire l’incarico di evadere tutte le pendenze insolute fino ad allora. Tra queste rientrava anche l’incartamento del Monastero del Santo Sepolcro delle Clarisse Cappuccine, che, una volta cacciate via le religiose, entrò a far parte del patrimonio immobiliare della Provincia.
Nel frattempo, l’8 settembre 1926, il vicario dell’Arcidiocesi di Cagliari, mons. Giovanni Ligas, con l’intento di promuovere opere di educazione, istruzione e assistenza sociale, costituì la Società Immobiliare Cagliaritana e, sfruttando il nome dell’ente, fece istanza per ricomprare il monastero. La proposta fu accolta e la società del religioso ne divenne proprietaria il 20 agosto del 1929. Dal contratto rimase esclusa la chiesa, perché aperta al culto, così come il mobilio e gli oggetti sacri, che restarono sotto la tutela della Provincia.
Le monache, grazie a questa manovra, da quella data poterono rientrare nella casa religiosa e avere nuovamente una regolare vita monastica, anche se dovettero aspettare il 3 aprile 1962 per effettuare l’atto di donazione per il passaggio del monastero dalla Società Immobiliare Cagliaritana alla Provincia Sarda dei Frati Minori Cappuccini, e l’8 maggio 1969 per vedersi restituire formalmente il Monastero del Santo Sepolcro delle Clarisse Cappuccine, che nel mentre si erano costituite come personalità giuridica.
La chiesa e il monastero subirono un primo importante restauro a cavallo fra il 1718 e il 1722, in seguito ai bombardamenti da parte della flotta del cardinale Giulio Alberoni, ministro di Filippo V, intento a riconquistare l’isola sottratta alla Spagna. Un ampliamento fu invece necessario nel 1738, mentre un ulteriore restauro avvenne in un periodo compreso fra il 1793 e il 1806. Durante l’assedio francese del 1793, la casa religiosa venne più volte colpita dalle palle di cannone, e tra le varie devastazioni, vide cadere in frantumi anche parte dell’antico portico laterale che lo connetteva nelle prossimità di quello che all’epoca era ancora l’unico ospedale della città. Il portico, così come parte dell’edificio abbattuto, non fu mai ricostruito, e l’area già tracciata dalla sua distruzione divenne occasione per la realizzazione di un vicolo pubblico che avrebbe permesso di avvicinare fisicamente la parte più alta del colle con l’ente assistenziale de Sant Antoni.
Certamente, intorno al 1935 la chiesa fu nuovamente ristrutturata e le due lunette, precedentemente esistenti sulla parete destra in fondo all’aula, vennero mutate in un’apertura rettangolare e in un’ulteriore finestra, di maggiori dimensioni, al fine di accrescere la luminosità dell’interno. Il portale oggi risulta ancora appena impreziosito dallo stemma marmoreo di Casa Savoia, croce piana argentea in campo rosso, tipologia che per volontà di Carlo Emanuele III di Savoia sostituì i quattro pali d’Aragona su fondo oro del governo spagnolo. L’emblema apposto potrebbe essere stato incassato nel paramento murario quando il sovrano confermò alla badia il titolo reale.
Il monastero, che continua ad essere organizzato intorno al chiostro interno, oggi conserva solo qualche pavimentazione originale e un pozzo.
All’interno dell’edificio sono sopravvissuti alcuni ambienti voltati, specie al piano terreno in prossimità del cortile e della chiesa, ma anche nei locali di maggior rappresentanza, come nel refettorio e, seppur modificata, nella cucina.
Oltre al chiostro esiste anche un’altra area esterna, con ingresso carraio da via Giovanni Spano, che consente l’accesso al magazzino e alla legnaia, sopra i quali insiste ancora l’infermeria, recentemente restaurata per un cedimento del vecchio solaio.
Del complesso fanno parte anche gli ambienti con imbocco dai civici 4, 6 e 8 delle Scalette Monache Cappuccine, un tempo rispettivamente utilizzate dal guardiano, dal cappellano e dal sacrestano. I locali non vengono più usati, e non hanno nemmeno alcun collegamento fisico con il monastero benché ne facciano storicamente parte così come quelli con accesso dalla via Manno, trasformati a destinazione commerciale e magazzino.
Oggi è possibile, per le persone esterne in cerca di conforto spirituale e consigli, recarsi a parlare con le monache nel parlatorio. Il vano a sinistra della chiesa custodisce infatti una finestrella in legno, e suonando un campanello, al giro della ruota si può udire la vocina di una monaca che afferma, senza mai mostrarsi, che da qui non sono mai passati bambini, ma solo offerte e opere di carità.
Oltre alla preghiera comunitaria e personale, alla contemplazione e all’adorazione di Dio, le suore di clausura adempiono ai compiti e alle mansioni necessarie al benessere comune delle consorelle, come la cura dell’orto e il cucito. In alcuni casi si prestano anche alla realizzazione di prodotti che vengono venduti fuori dal monastero.