La chiesa di Santa Maria del Monte

Prospetto esterno della Chiesa di Santa Maria del Monte

La chiesa di Santa Maria del Monte trova spazio, lontana dalla confusione, in un cantuccio della parte bassa dell’antico borgo medievale del Castello, e la si può raggiungere, da via Santa Croce, attraverso la discesa di due rampe di scale.
Al visitatore di passaggio si presenta con una facciata piatta realizzata in muratura a vista, contrassegnata da un finestrone lunettato che occupa una buona parte della porzione superiore del prospetto. Al posto del grande lucernario, in origine, si trovava un oculo circolare di dimensioni più contenute, del quale rimane ancora uno spicchio della parte del bordo al di sopra della finestra attuale.
Il portale architravato, affiancato da un minuscolo pertugio rettangolare, è invece sormontato da un arco di scarico a sesto acuto, che si ipotizza un tempo affrescato e sovrastato dallo stemma dell’antica Confraternita del Santo Monte di Pietà.

La Compagnia, istituita con bolla pontificia intorno al 1530 da Clemente VII, e aggregata dal papa Giulio III, nel 1551, all’Arciconfraternita di San Giovanni Battista Decollato di Roma, a Cagliari prese vita solo qualche anno più tardi su iniziativa di un gruppo di nobili, ai quali vennero inizialmente concessi gli spazi dell’ex sinagoga ebrea, da tempo inutilizzata. Con l’arrivo dei gesuiti, però, i confratelli del Santo Monte di Pietà dovettero sgomberare la sede, e iniziare i lavori per un nuovo fabbricato in un piccolo terreno donato loro dalla Municipalità.
La residenza fu ultimata nel 1568, ma l’edificio ebbe vita breve perché, realizzato in aderenza all’antica muraglia pisana, venne buttato giù con le operazioni di demolizione e ampliamento della nuova cortina di fortificazione.

Insieme complessivo dell’interno dell’edificio

L’edificio attuale si erge nello stesso sito della precedente chiesa demolita, e i lavori per la sua edificazione risalgono ad una data imprecisa che si orienta però attorno al 1571, anno in cui i membri dell’Arciconfraternita stipularono un contratto (tuttora conservato negli archivi) con i picapedrers cagliaritani di Stampace, per completare il cap de altar del tempio che all’epoca era già in avanzato stato di costruzione.

Affacciata su una minuscola piazzetta, l’interno della chiesa oggi si presenta sobrio, ma al tempo stesso, forse per via del suo stile e della luce soffusa, anche carico di fascino e di energia.
Varcata la soglia, ad attirare subito lo sguardo sono le otto bandiere che sovrastano la navata, e che rappresentano le antiche “Lingue” del Sovrano Militare Ordine di Malta, curatore dell’edificio.
Fin dalle prime origini, i cavalieri della corporazione erano accorsi da tutta l’Europa, e per tale ragione, erano stati raggruppati in entità corrispondenti, non a Stati nazionali, ma a zone linguistiche omogenee. Ognuna di queste “Lingue” (Alvernia, Castiglia, Alemagna, Italia, Aragona (Navarra), Francia, Provenza e Inghilterra (con Scozia e Irlanda)) comprendeva Priorati o Gran Priorati, Baliaggi e Commende, e disponeva di un edificio comune che serviva da residenza, per le riunioni e per i pasti, che, almeno in principio, era obbligatorio prendere in comune.
L’esposizione dei drappi in tutte le loro sedi simboleggia dunque l’attività diplomatica ed unitaria dell’antico Ordine, e nel caso di Cagliari, con i loro colori, fungono a dare vivacità anche ai pallidi e spogli ambienti del piccolo stabile.

Particolari della chiesa

La chiesa, realizzata in stile gotico catalano con elementi classicisti, è costituita da una sola navata, suddivisa in due campate da un arco a sesto acuto; i due spazi, a pianta rettangolare, sono ricoperti da semplici volte a crociera con costoloni diagonali.
Nella prima campata, su un ampio arco ribassato, sorge una cantoria, costituita da un solaio in legno poggiato su un arco trasversale. Aggiunta, forse, solo successivamente, possiede interessanti capitelli dorici con abaco ed echino, utilizzati per interrompere le membrature delle volte, visivamente slegati dai piedritti sottostanti.
Nel lato sinistro della stessa campata si trova anche una pregevole edicola seicentesca che, tra il 1822 e il 1866, custodì le reliquie di San Lucifero, all’epoca esposte in una cassa dorata.
Un arco trionfale separa invece la navata dal presbiterio, più basso e più stretto dell’aula, che si distingue per la sua forma a cappella e per la volta stellare con le ogive e le cinque gemme pendule realizzate in stile gotico-aragonese.

Tre dei cinque dipinti realizzati da Giuseppe Deris che raffigurano i Misteri Gaudiosi del Santo Rosario

In una fase costruttiva successiva, rispetto alla fabbrica gotica, dietro al presbiterio venne annesso un altro ambiente a foggia di cappella, coperto da una cupola a base ottagonale con raccordi angolari a voltine nervate e gemmate. Racchiusi entro un’arcata semiellittica poggiante su peducci gotici, sono ornati con un capitello a fogliame ricco ed elaborato.
A destra della seconda campata, venne invece aggiunto un tempietto, dedicato alla Madonna del Monserrato, che, disadorno, oggi si presenta con un’arcata frontale di gusto rinascimentale e una volta a botte priva di risalti. Il suo interno accoglie due tele ottocentesche realizzate dai pittori cagliaritani Giovanni Marghinotti e Antonio Caboni.

Benché sconsacrata e racchiusa nella sua essenzialità, la chiesa custodisce anche altri cinque grandi dipinti ad olio su tela, realizzati dal pittore Giuseppe Deris, facenti parte di un ciclo di quindici opere, commissionate dai padri gesuiti, che raffigurano i Misteri del Santo Rosario. Risalenti alla seconda metà del XVII secolo, vennero trasferiti dall’antisacrestia di San Michele, per mancanza di spazio, all’attuale sede nel 2002.

Particolari dell’aula realizzata dietro il presbiterio

Le raffigurazioni dei 5 Misteri Gaudiosi, ricchi di personaggi immersi nel paesaggio e con attenzione ai particolari più minuti, sono caratterizzate da sprazzi di luce su fondi ombrosi, diventati ancora più cupi a causa dell’ossidazione dei colori e delle vernici.
Le scene rappresentate sono solitamente suddivise in due registri: quello superiore fa riferimento alle sfere celesti, mentre quello inferiore al mondo terreno. Alcuni episodi presenti nelle opere del pittore non vengono contemplati nella recita usuale della Corona del Rosario, così come alcune scene, che risultano infatti differenti. Inoltre, gli scorci e le torsioni delle figure sono spesso inverosimili, così come errate appaiono anche alcune proporzioni. Le stravaganze non bastano però a guastare l’effetto complessivo dei dipinti che, anzi, attraggono non tanto per le scene riprodotte nelle tele, ma per la dovizia dei dettagli che contengono.

Disposti tra le pareti della seconda campata, del presbiterio, e dell’ambiente più recente realizzato alle sue spalle, la prima opera, partendo da sinistra, ritrae L’Annunciazione. Un Arcangelo Gabriele, la cui figura è allungata in modo inverosimile, appare alla Madonna intenta alla lettura, mentre lo stuolo di angioletti, presenti alla scena, viene raffigurato con un differente oggetto in mano. In alto, Dio Padre, attraverso lo Spirito Santo, incarna il Figlio nel grembo di Maria.
Segue La Natività con i pastori, in una scena che si svolge all’interno di una grotta, con il Bambino, adagiato nella mangiatoia, affiancato da Maria e Giuseppe; sullo sfondo il bue, l’asino e quattro angeli adoranti. I pastori osservano dall’esterno, sovrastati da uno stuolo di altri angeli che cantano inni al Signore. Al centro, in basso, vi è invece un fanciullo che indica l’evento a coloro che si trovano fuori dal quadro.
Nella parete centrale, il Deris presenta L’Adorazione dei Magi. Un lungo corteo sfila alle spalle dei Magi, che sono già arrivati e porgono i loro doni al Bambin Gesù sorretto dalla Vergine Maria; la Madonna è seduta sotto un lungo porticato con colonne in prospettiva, che, nonostante sia intuitiva e non matematica, dà comunque profondità alla scena raffigurata. Sullo sfondo, una città e alcuni ruderi.

Particolari della cupola a base ottagonale

Il dipinto successivo illustra l’episodio de La Presentazione di Gesù al Tempio, che si svolge all’interno della sinagoga: un’ampia sala con colonne in fuga prospettica verso il centro della scena. La parte superiore è abitata da uno stuolo numeroso di putti alati, mentre in basso, sulla destra, Giuseppe e Maria presentano il Bambino portando due colombe, che vengono offerte, secondo la tradizione ebraica, come riscatto da pagare per il primogenito maschio. Numerosi personaggi assistono alla scena, gesticolando e dialogando fra loro.
L’ultima opera raffigura La Circoncisione di Gesù, e qui l’autore della tela dipinge Maria e Giuseppe posti a sinistra mentre osservano il rabbino, che, aiutato da un altro personaggio, sta procedendo a circoncidere Gesù, come prescrive la religione ebraica. In primo piano, due giovinetti portano dell’acqua, e i loro abiti appaiono mossi da una leggera brezza. Al centro lo stemma gesuitico, IHS, dentro un sole raggiato sorretto da due angeli, che ne sovrasta l’intera raffigurazione.

Particolari

L’Arciconfraternita del Santo Monte di Pietà nasce in un periodo sprovvisto di entità preposte all’assistenza delle persone che vivevano in stato di disagio sociale. Si proponeva come fine quello di raccogliere offerte da utilizzare per l’acquisto di erbe medicinali, di dare assistenza medica all’interno del piccolo ospedale annesso alla chiesa, di dare una dote alle ragazze orfane, di nutrire chiunque fosse caduto in miseria.
Il loro compito principale era però quello di soccorrere e recuperare i carcerati, dotandoli di un vestiario decoroso una volta liberati, o di confortare i prigionieri destinati al patibolo. In quest’ultimo caso, dal momento in cui la sentenza di morte da parte della Reale Udienza diventava esecutiva, la Suprema Magistratura del Regno affidava il condannato ai confratelli e alle consorelle del Santo Monte di Pietà che, dalla Torre di San Pancrazio, conducevano il malcapitato nella Cappella del Confortatorio. La nuda sala, dalle volte a costoloni in stile gotico aragonese, era situata presso i locali dell’attuale Sovrintendenza alle Antichità, e lì, durante l’attesa, il povero condannato passava le ultime ore rinchiuso a pregare di fronte ad un grande crocifisso ligneo, lo stesso che oggi si trova sopra l’altare della chiesa di Santa Lucia.
Alcuni confratelli si preoccupavano di preparargli un ultimo ricco pasto, che il prigioniero riceveva sopra dei piatti d’argento, mentre gli altri andavano per le vie della città a questuare per i suffragi della sua anima.
Dopo la refezione, lo sfortunato veniva vestito con una tunica bianca e, sotto i rintocchi de sa campana mala, si dava inizio alla conclusione del macabro rito che sanciva l’epilogo di una vita umana.
Il corteo era aperto da due confratelli elemosinieri, abbigliati in maniera simile, ma con una buffa, con due fori per gli occhi, che ne copriva i volti. Seguiva poi un picchetto armato e un folto gruppo di altri confratelli incappucciati, che portavano il grande crocifisso e, nel caso si trattasse di impiccagione, una fune adagiata sullo stesso piatto d’argento usato dal condannato durante l’ultimo pasto, che sarebbe servita per il “grande finale”. Veniva quindi il condannato, affiancato e confortato da un sacerdote e da un altro confratello, seguiti da una schiera di militi, grancasse e trombe, dal boia e dai ministri della cosiddetta giustizia.

Sullo sfondo, l’edicola seicentesca che custodì le reliquie di San Lucifero

La confraternita, dopo ogni esecuzione, si impossessava di nuovo della fune del capestro, sottraendola così al popolo che l’avrebbe utilizzata per amuleti e sortilegi. Dopodiché celebrava il funerale del malcapitato e, seguiti da un mesto corteo in preghiera, accompagnava la salma fino al luogo di sepoltura in terra consacrata.

Ogni 24 giugno, nel giorno di San Giovanni Battista Decollato, il protocollo richiedeva ancora un ultimo rituale, ed il cerimoniale, che serviva sia come atto di purificazione, che, e soprattutto, per rassicurare i giudici timorosi che i castigati non sarebbero tornati dal regno dei morti, prevedeva che i confratelli si riunissero in preghiera davanti ad un falò, organizzato nella piazzetta antistante la chiesa, che veniva alimentato, fino ad esaurimento, con le funi utilizzate nell’anno precedente per le impiccagioni avvenute in città.

A questi rituali fecero eccezione le povere spoglie di don Jaime Artal de Calstelvì. Del nobile marchese, giustiziato con decollazione, venne ritirata solo la testa, portata dapprima in corteo per le vie della città, e poi appesa, a monito per tutta la popolazione, prima sopra la Torre di San Pancrazio, e poi su quella dell’Elefante. Venne rimossa solo diciassette anni dopo per grazia sovrana su petizione del Parlamento.
Il suo corpo, invece, fu lasciato marcire sul palco per alcuni giorni, e solo successivamente, recuperato dall’Arciconfraternita che ebbe anche l’autorizzazione di tumularlo all’interno della chiesa di Santa Maria del Monte.

Volta stellare con le ogive e le cinque gemme pendule realizzate in stile gotico-aragonese

Nel 1866, con il sequestro di tutti i beni del clero avviato dal governo sabaudo, l’Arciconfraternita dovette abbandonare la chiesa di Santa Maria del Monte, trovando sistemazione, dopo una permuta concordata con il Municipio, all’interno di alcuni locali di pertinenza della chiesa di San Giuseppe Calasanzio, sede in cui rimasero fino agli inizi del XX secolo, ovvero fin quando la loro attività iniziò a rallentare progressivamente.

L’antico tempio venne sconsacrato, e adattato a nuove destinazioni d’uso. Nello stesso 1866 diventa seconda sede della Corte D’Appello e assegnata alla corte D’Assise di Oristano, dopodiché, nel 1872 i suoi spazi vengono sgomberati e adibiti a deposito di oggetti e materiali di proprietà comunale.
Nel 1879 vi si insedia la Scuola Civica di Musica, che vi rimane fino al 1921, anno in cui si trasforma in refettorio e dormitorio della Piccola Casa della Provvidenza, ancora attiva in via San Benedetto.
Pietosamente risparmiata dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, nel 1969 viene affidata al C.U.S. (Centro Sportivo Universitario) che riesce a trasformarla in una palestra.

Particolare della navata. Sullo sfondo, la cantoria

Abbandonata e lasciata in uno stato di assoluto degrado, dopo anni di restauri, nel 1999, il Comune la affida, con una convenzione, al Sovrano Militare Ordine di Malta, che ancora oggi svolge al suo interno attività sociali, religiose e assistenziali.

L’Ordine ebbe origine nel XI secolo, quando un gruppo di monaci e cavalieri, provenienti probabilmente da Amalfi, ottengono, dal Sultano di Gerusalemme, il permesso di costruire una chiesa, un convento  ed un ospedale per assistere, sotto la protezione di San Giovanni Battista, pellegrini e malati di qualsiasi fede e razza. Passati quindi a Cipro (1291) e poi a Rodi (1310), i cavalieri si stabilirono infine a Malta (1530), da dove diressero le campagne di difesa del Mediterraneo infestato dai barbareschi.
A Cagliari l’ordine conta di una dozzina di membri coadiuvati da volontari, e la loro sede è spesso anche teatro di eventi, incontri e manifestazioni culturali.