Quello che oggi è un quartiere del centro, in epoca romana era periferia. Il cuore di Karalis si trovava nell’odierna piazza del Carmine, mentre l’aggregato urbano di ciò che sarebbe diventato la Marina risultava vicino al confine orientale, segnato più o meno da ciò che è adesso il viale Regina Margherita. Oltre quel limite si trovavano le necropoli, che per legge dovevano stare al di fuori del perimetro abitato.
Il borgo, densamente popolato, aveva un orientamento diverso da quello della linea di costa attuale, e si caratterizzava oltre che per la presenza degli impianti termali, i balnea pubblici, anche per il suo porto, che restò in funzione almeno sino al VI secolo d.C., sebbene in realtà non ci fu mai un suo abbandono completo. In questo frangente, con il nome di Balnearia, il sito conosce una frenetica attività commerciale.

A partire dal 1216, una parte del quartiere venne verosimilmente riorganizzato dai pisani in funzione del nuovo scalo. I toscani si limitarono però alla sola realizzazione di magazzini per le merci, piccole botteghe artigiane, chiese, uffici per il notaio del porto, dei consoli, del pesatore, e umili casupole di fango, che divennero presto dimora degli addetti alle attività portuali.
Ben distinto e al di fuori delle mura della cittadella fortificata sorta nel frattempo sul colle, l’abitato portuale di “Portus Bagnarie Castelli Castri” era affidato alla custodia degli ordini monastici, e si concentrava nelle aree dove sorgevano l’ospedale di San Leonardo e la chiesa di Santa Lucia di Civita. Privo di vere e proprie banchine e moli in muratura, era circondato su due lati da una palizzata lignea disposta ad anello, formata da un migliaio di pali impiantati sul fondo del mare, legati fra loro da traverse sottoposte al continuo controllo delle guardie.
All’epoca, la fascia adiacente al mare risultava ancora pressoché disabitata, ma lo scalo portuale, che veniva impiegato per lo smistamento dei prodotti importati dal Mediterraneo e per il deposito di quelli in entrata e in uscita dall’isola, si presentava vitale e rumoroso, poiché era il fulcro della vita economica e commerciale della Sardegna meridionale, nonché principale via di collegamento con Pisa, la città madre.
Governato da un proprio statuto – il Breve Portus Kallaretani – e da proprie autorità politiche, l’appendice portuale si incardinava nel Vicus Barcinonensis (l’odierna, e in parte corrispondente, via Barcellona), che in epoca pisana doveva apparire come il prolungamento ideale della strada più importante del Castrum, con il quale però non era in comunicazione diretta.
L’asse centrale del quartiere principiava in uno sterrato brullo prospiciente la darsena, la Platea Gliapolea, si lasciava ad occidente la chiesa di Santa Lucia di Civita e il complesso ospedaliero di San Leonardo, e terminava in un viottolo pietroso e piuttosto scosceso che costeggiava il limite nord, grosso modo l’odierna via Giuseppe Manno. Il sentiero si snodava poi in un percorso che con una viuzza trasversale, attraversando la duecentesca porta della Torre del Leone, conduceva all’ingresso del Castello.
Vi erano anche altre due strade che originavano nella piazza del porto, una carreggiata oggi individuata nell’attuale via Napoli, ed un’altra intitolata a San Leonardo, parallela più vicina al confine, e corrispondente alla nostra via Lodovico Baylle, in ragione dell’omonimo complesso ospedaliero che vi affacciava, dipendente dall’ospedale pisano di San Leonardo Stagno.

Appena fu sancita la definitiva conquista del Castrum pisano, gli aragonesi non tardarono ad intervenire sulle opere di difesa toscane, e in occasione dei lavori di trasformazione dello scalo, la vecchia darsena, gravemente danneggiata nel corso della guerra per la conquista di Càlari, venne estesa livellandone il fondale. Fu quindi sostituito il pontile ligneo che la separava dal porto, e al suo posto, nel 1385, venne realizzato un lungo e stretto molo che prenderà il nome di Moll de Llevant. Poco più tardi verrà realizzato anche il Moll de Ponent, che servirà invece per l’attracco di imbarcazioni di grande stazza.
Entrambi i moli furono dotati di aperture, la porta de LLevant e quella de Ponent, che venivano aperte e chiuse dal guardiano del porto, che era acquartierato all’interno di un torrione realizzato nella darsena. Seguì poi la riparazione dei trabucchi (la macchina d’assedio più potente del medioevo) e dalla palizzata, che era stata ampliata in funzione del nuovo bacino di carenaggio.
In questo secolo bisogna immaginare Cagliari protesa sul mare, con un lungo pontile di legno e tanti pali affilati, che, dalla zona dell’attuale via Roma, si protendevano tra le onde.
Quando all’orizzonte spuntavano le navi, c’era chi dava l’allerta e anche chi poteva decidere se farle attraccare o bloccarle tra i flutti, davanti alla porta della città di pietra. I cattivi sarebbero stati attaccati, e se sbadati, si sarebbero incagliati finendo su pali acuminati, imbarcando acqua. Perché quei pali erano capaci di sfondare la chiglia delle imbarcazioni.
A partire dal 1300, una doppia fila di stanghe, incatramate e collegate fra loro, chiudeva il porto lasciando libera, nell’arco della giornata, solo una modesta apertura. Il corridoio durante la notte veniva chiuso con una robusta catena di ferro posizionata da una barca catenaria. La catena veniva legata tra le ultime due file di pali, e più avanti nel tempo, sulla porta del molo retrostante c’era chi (unitamente all’equipaggio a bordo della barca) faceva la guardia notturna. Persone armate dalla testa ai piedi, magari anche soggette ai malanni stagionali data l’esposizione con l’aria umida e salmastra di questo angolo di città.
Lapola, così ribattezzata in epoca aragonese, era dunque un ingegnoso sistema, che, ideato oltre che per evitare accessi non autorizzati alla città di allora, disponeva di un molo dotato di una puleggia (pola) che veniva utilizzata per il carico e lo scarico delle merci. Da ciò deriverebbe il nome dell’intero quartiere retrostante, quello di Lapola, Lappola, La Pola, Sa Pola e tutte le sue varianti.

Durante le fasi più sanguinose della conquista del Castrum pisano, le strutture difensive che subirono maggiori danni furono quelle di Stampace e della Bagnaria, indubbiamente meno robuste rispetto a quelle del Castello.
La villa di Stampace fu assalita dai soldati del governatore Ramon de Peralta; il porto di Bagnaria fu invece attaccato dall’armata di Berenguer Carros, che saccheggiò il borgo e la palizzata, catturando alcuni vascelli.
Conquistata l’appendice, gli aragonesi che si erano stanziati nella villa di Bonayre, soprannominata “Barceloneta”, iniziarono a prendere possesso dei terreni del borgo marinaro non ancora edificati, e appartenuti ai precedenti proprietari pisani.
La nuova cittadella comincia quindi a svilupparsi anche nella parte più pianeggiante e vicina al porto, dove già si era insediato il nucleo più antico della città romana, e l’area abitata va a formare un rettangolo compreso tra le odierne vie Baylle, Manno, il largo Carlo Felice e la linea di costa.
Nel gennaio del 1327, gli stessi abitanti della villa di Bonayre firmarono un accordo con il re Giacomo I. L’intesa permetteva loro di riscattare le case del Castello che avevano un valore pari a quello delle case già possedute nella cittadella di Barceloneta. I proprietari di più immobili avrebbero avuto la possibilità di acquistarne altrettanti a Stampace, mentre nella Bagnaria, il governatore Bernat de Boxadors avrebbe invece assegnato in enfiteusi lotti di terreno di dimensioni prestabilite, finalizzate alla realizzazione di botteghe e abitazioni, con l’obbligo però da parte del nuovo proprietario di occuparsi delle ricostruzioni o delle ristrutturazioni della cortina muraria del nascente borgo aragonese.
L’area iniziò a popolarsi stabilmente a partire dal secondo quarto del Trecento, quando, riqualificato il sito, gli iberici incominciarono a sfruttare la notevole disponibilità di spazio edificabile e potenziarono le strutture portuali preesistenti.
Lapola divenne in breve tempo un’area di fondamentale importanza per il suo duplice ruolo economico e difensivo, nonché unica porta di accesso alla città dal Mediterraneo.
Nel corso dei successivi due secoli, venne pertanto fortificata con nuove strutture che ne modificarono la fisionomia etnica ed urbanistica, diventando il centro propulsore di tutte le attività cittadine.
La salvaguardia del borgo marinaro costituì però uno dei problemi principali per i sovrani, costantemente condizionati dall’esiguità delle risorse finanziarie disponibili. Martino il Vecchio, per esempio, istituì nel quartiere un servizio di ronda notturna per il quale si dovette ricorrere a prestiti privati, mentre nei primi mesi del 1413, Ferdinando I fece ricostruire parte delle muraglie pisane e la torre esistente direttamente a coloro che accettavano in enfiteusi i lotti di terreno sui quali ricadevano le vecchie mura danneggiate.
Giovanni II re di Aragona, che aveva sempre espresso la sua contrarietà ai progetti di edificazione nei pressi delle mura e confermato l’esigenza di preservare lo spazio più vicino alla cortina, nel 1469 dovette invece concedere il permesso di costruire nei vuoti generati dalle fortificazioni, e di caricare anche sulle mura della darsena, a patto che i richiedenti restaurassero a loro spese una parte di mura e la salina reale che rischiava di crollare.

A partire dalla fine del Quattrocento, i mutamenti avvenuti nel contesto internazionale avevano reso il Mediterraneo ancora più insicuro, con conseguente preoccupazione del sovrano per i propri domini marittimi. Diveniva pertanto ancora più urgente provvedere alla difesa del Regnum Sardiniae e della sua capitale. Anche a Caller, dunque, il timore per la minaccia turco-barbaresca indusse l’avvio di una graduale trasformazione degli apparati difensivi per renderli più adeguati alle nuove esigenze belliche.
Ingegneri e architetti militari elaborarono disegni e progetti. Sono impegnati nella ridefinizione delle forme urbane, nella progettazione di terrapieni e bastioni, nel tracciare nuove piante della città che tengano conto delle fortificazioni esistenti ritenute necessarie. Uno spazio adeguato viene invece riservato alla dogana e agli altri uffici regi.
Per la costruzione delle nuove cortine e dei bastioni, riparare la palizzata del porto e i trabucchi, e per realizzare una nuova darsena, vennero utilizzati i redditi ottenuti dalle tasse sui cereali, sul vino e sulla carne, oltre che sfruttati gli introiti provenienti dall’uso dei mulini. Fu decisa anche l’assegnazione di nuovi lotti che avrebbero reso necessario ampliare ancora il perimetro delle mura della Lapola.
Le nuove muraglie avevano un andamento geometrico indipendente rispetto a quelle già esistenti. Non si adattavano all’abitato, ma lo chiudevano seguendo regole dettate dall’esigenza di copertura dei tiri dell’artiglieria, talvolta perfino imponendo di abbattere quegli edifici che risultavano di intralcio o impedimento alle nuove opere progettate.

La riedificazione delle fortificazioni avviene in parallelo con il programma di popolamento del borgo portuale, all’interno del quale vengono tracciate una maglia di strade ortogonali che sostituirono quasi interamente anche le preesistenti, non solo medievali.
In quest’epoca, parte dell’area del porto viene demolita e su di essa verrà realizzato un reticolo di nuove arterie. La vecchia linea marittima, colmata, raggiunge il lato porticato dell’attuale via Roma, e in quei secoli, la laguna, decisamente più estesa, arriva fino all’attuale stazione delle ferrovie.
Una volta pacificato il regno, incomincia il lento processo di integrazione fra catalani e sardi, che porta ad aprire anche un dialogo sia con l’interno dell’isola che con le altre città della monarchia ispanica. Oltre ai catalani, ai valenzani e ai maiorchini, che si erano stanziati già da tempo, iniziano a stabilirsi nel borgo anche gli artigiani e i ricchi mercanti di origine castigliana, portoghese, biscaglina, fiamminga e inglese, ognuno con la sua chiesa di riferimento e con le proprie tradizioni.
I ceti privilegiati continuavano a concentrarsi nel Castello, saturando tutti gli spazi disponibili, anche a ridosso della cortina muraria interna; la nuova area orientale della Lapola nel XV secolo appariva invece ancora ricca di orti, di vigne, e di aree edificabili, pronte ad accogliere non solo i sardi, ma anche nuove genti provenienti dal mare.
L’inserimento di Caller come scalo mercantile e base d’appoggio per i traffici che avvenivano nel Mediterraneo, favorì il rifiorire dell’economia, che a sua volta determinò anche lo sviluppo del quartiere, caratterizzato dalla presenza di attività commerciali e portuali.
Il borgo accoglieva una realtà multiforme aperta verso l’esterno, dinamica e in espansione, fatta di mercanti, professionisti, religiosi, artigiani, artisti, marinai e pescatori. L’attività artigianale, inizialmente svolta per lo più da catalani e organizzatasi secondo modelli iberici in confrarías, vede la progressiva partecipazione di soci locali, talvolta provenienti anche dal circondario e stabilitisi nelle vitali e permeabili aree limitrofe. Pur non accedendo alle cariche consiliari, gli artigiani riuscivano comunque a far sentire la loro voce nelle riunioni delle appendici, giungendo talvolta ad occupare la carica di rappresentante o sindich del sobborgo della Lapola.
Gli artigiani in genere, ma in particolare i muratori, contribuirono notevolmente a trasformare Caller in una vera e propria capitale. E se la città di pietra veniva modificata da scalpellini, muratori e imprenditori, che sbancavano emergenze rocciose, costruivano bastioni difensivi seguendo i progetti degli architetti e lavoravano negli edifici chiesastici e privati, la città vivente riusciva invece a relazionarsi con il territorio del regno e con l’esterno dell’isola.

È una città composita, e il fervore delle attività commerciali e finanziarie stimolò il progressivo espandersi del borgo. I mercanti, in funzione della prosperità economica che avevano raggiunto, continuarono a costruire abitazioni e botteghe.
Lo sviluppo edilizio di questo periodo trasformò l’aspetto del quartiere, che divenne l’appendice più importante della città. Le strade di tracciato regolare scendevano verso il mare, intersecate da altre parallele alla nuova darsena; di fronte alle mura e alle fortificazioni portuali era andato a ricrearsi un ampio spazio pubblico, la piazza della Lapola, in cui confluivano le principali strade del quartiere: il carrer de Barcelona, il centro economico della Marina; il carrer de Sanct Olaire, sede della chiesa catalana dedicata a Sant’Eulalia, nonché parrocchia del borgo; il carrer Moras, corrispondente alla via Napoli; il carrer de Sanct Leonard, con il nome che derivava dall’antico tempio pisano di San Leonardo, a cui era annesso l’ospedaletto per i lebbrosi.
Il centro di aggregazione sociale era la chiesa di Sant’Eulalia, in cui aveva sede il sindacato della Lapola: un’associazione sorta nel periodo in cui gli abitanti delle appendici vivevano ancora in stato di sudditanza ed emarginazione rispetto a quelli del Castello. Era formato da tre sindaci per ciascun quartiere basso: Lapola, Stampace e Villanova. Servivano per un anno, e venivano scelti dalla classe dei nobili, dall’ordine dei notai e dalla classe degli artigiani.
La Lapola era anche sede dell’organizzazione sanitaria cittadina poiché nei pressi dell’attuale via Giuseppe Manno vi si trovava quello che all’epoca era ancora l’unica casa di cura funzionante della città.
In questi anni, la città portuale attraversa una fase di trasformazione, e si avvia ad un assestamento sempre più evidente e più chiaro. Ospitava una popolazione fatta di uomini e donne che vivevano pienamente il borgo, che costituiva anche un punto di attrazione notevole per gli abitati dei dintorni o dell’interno dell’Isola. In alcuni casi doveva essere occasione di formazione per i giovani, provenienti anche da altre località, disposti a svolgere il loro apprendistato nella bottega di un maestro per imparare l’arte dello scalpellino, del fabbro ferraio, del carpentiere, del calzolaio oppure del sarto.
Il quartiere, vivace ambiente di mercanti e artigiani, continua ad accogliere un numero sempre più consistente di abitanti provenienti anche dagli altri regni della monarchia ispanica. Emerge infatti la presenza di commercianti liguri, ma anche di affaristi provenienti da Levanto, e poi nizzardi, veneziani e napoletani, rappresentati soprattutto dalle figure dei bottai e dai calafati.
Alla fine del XV secolo la Lapola diventa l’unico porto caricatoio della Sardegna meridionale. In questo luogo si stoccavano le merci, in entrata e in uscita, si trovavano fondachi e magazzini, si accoglievano le navi in arrivo, si procedeva alla vendita dei prodotti dell’interno e all’acquisto di quelli di importazione. Ed era qui che aveva sede anche il mercato degli schiavi.
La pubblicazione di due prammatiche, che proibivano ai forestieri di acquistare merci nel regno, incoraggiò invece i matrimoni misti, con il conseguente primo e notevole rimescolamento sociale.

Giunto a Callari nel 1534, il viceré Antonio Folch de Cardona intuì immediatamente l’inadeguatezza delle strutture di difesa del porto, e per potenziare il controllo dell’avamposto della cittadella del Castello promosse la realizzazione di una serie di bastioni che circondarono l’intero borgo marinaro.
Un via vai di uomini, pietre, fumi e polvere rincominciarono pertanto a caratterizzare il quartiere.
In difesa dell’area sud ovest, che oggi corrisponde alla parte più meridionale del largo Carlo Felice, venne realizzato il Bastione di Sant’Agostino. Presso la darsena, nell’area sud ovest tra le odierne via Roma e viale Regina Margherita, venne invece innalzato il Bastione di Jesus.
La notizia delle imprese dei turchi nel Mediterraneo cementarono però la preoccupazione per la capitale sarda, tanto che Petrus Pons Barcinonensis fu incaricato ed esortato a completare in maniera celere le opere di difesa. L’architetto progettò una cortina muraria, che, correndo lungo le banchine del porto, avrebbe congiunto i due bastioni esistenti. A lavori ultimati, e a protezione dei due moli, poterono poi sorgere, a oriente, il bastione di San Vincenzo (detto all’epoca anche de la Reyna e di Castel Rodrigo), mentre a occidente quello del Molo (o di Sant’Elmo).
I bastioni de la Reyna e di Sant’Elmo vennero successivamente uniti a quelli di San Agostino e di Jesus per mezzo di grandi muraglie.
Nella parte nord ovest del borgo si realizzò invece il bastione, detto più tardi, di San Francesco, che comunicava con il nuovo e ampliato Bastione di Sant’Agostino per mezzo di una cortina muraria che scendeva verso il mare.
Nella parte opposta, una cinta terrapienata univa il Bastione di Jesus al nuovo Bastione di San Giacomo, noto anche come Bastione di N.S. di Montserrat, a sua volta congiunto a nord, al vertice del Bastione dello Sperone.

Il viceré Diego Hieronimo de Aragall, arrivato a Callari nel 1550, mise al corrente il sovrano della dubbiosa situazione che caratterizzava il sistema delle fortificazioni della capitale sarda, evidenziandone ancora una volta la debolezza di fronte ad un eventuale attacco delle flotte turche o francesi.
Il borgo della Lapola era protetto da porte e bastioni ma da nessuna artiglieria, e ciò che emergeva dal suo resoconto era l’inadeguatezza della città a rispondere alle esigenze di difesa dalle armi da fuoco.
Erano necessari nuovi e urgenti lavori di ammodernamento, consistenti soprattutto nel rafforzamento della zona portuale, in modo da consentire la migliore difesa del versante orientale e di quello meridionale del Castello. Era ritenuta fondamenta anche l’ultimazione dei restauri delle cortine, che versavano in cattive condizioni, così come la muraglia impiantata dal viceré de Cardona.
I primi interventi dell’ingegnere cremonese Rocco Capellino furono condotti sul fronte meridionale del Castello, dove, tra le altre cose, fu modificata e rafforzata la Porta del Mare, poi mascherata dalla nuova sporgenza del Bastione del Balice. L’accesso rinnovato fu impreziosito da due protomi leonine, scolpite nel marmo, e la loro presenza fece sì che prendesse il nome di Porta Duorum Leonum.
Il Capellino ultimò anche la scarpa, il cordone e il parapetto del Bastione di San Giacomo, che era stato realizzato lungo le mura orientali della Lapola, in corrispondenza di un’antica area funeraria, dove, molto più tardi, sorgerà l’albergo ottocentesco “La Scala di Ferro”.
La nuova opera fu ricollegata al Bastione dello Sperone tramite una cortina esterna a quella medievale, in cui venne aperto anche un passaggio, in seguito denominato Porta Villanova (del Lesques).
Lo stesso Bastione di Jesus fu invece interessato da interventi correttivi, così come parte delle mura che lo collegavano al Bastione di San Giacomo.
Successivamente intervenne nel settore attraversato dal vico de Sancti Anthoni, che collegava la via Barcelona, principale strada del quartiere portuale, con l’area rocciosa antistante il Castello.
Il vico costituì uno dei fulcri fondamentali nello sviluppo dell’abitato di Lapola, caratterizzato nel basso medioevo da una crescente attività edilizia, forse dovuta anche alla forza attrattiva esercitata dall’ospedale e dalla chiesa di Sant’Antonio.
La concentrazione di edifici costrinse il Capellino a richiedere l’abbattimento di alcune abitazioni private ubicate attorno alla chiesa, e probabilmente, anche per questa ragione, nell’agosto 1559 il viceré Alvaro de Madrigal richiese alla corte l’invio di un nuovo architetto, giustificandolo con il precario stato di salute dell’ingegnere cremonese.
Il sovrano, pur non disponendone la rimozione immediata, a partire dal 1563 gli affiancò per circa un decennio altri colleghi, tra i quali figuravano i fratelli ticinesi Giovan Giacomo e Giorgio Paleari Fratino, che furono poi gli artefici delle grandi trasformazioni che interessarono le piazzeforti isolane nella seconda metà del Cinquecento, nonché i progettisti del nuovo circuito fortificato della Lapola.

Assecondando la conformità della città, l’ingegnere militare Giorgio Paleari lavorò per cinque anni al potenziamento dei bastioni e alla realizzazione di fossati e terrapieni, opere che richiedevano grandi spazi ed una visuale libera tutt’intorno, in maniera che ogni bastione potesse essere visto dagli altri. Lavorò anche sul Bastione di Sant’Agostino, conferendogli un assetto più moderno con due facce e due fianchi, uno dei quali restaurato inserendo un orecchione quadrato posto a protezione della porta di accesso al borgo marinaro.
Le mura occidentali della cittadella portuale furono invece sostituite da una cortina terrapienata, protetta con strade coperte.
I lavori di ampliamento comportarono purtroppo l’abbattimento del monastero omonimo, ma non della cappella nella quale era conservato il corpo del Santo proveniente da Ippona. La supplica dei padri agostiniani rivolta al re di Sardegna Filippo II era riuscita a preservare il piccolo tempio, che rimase fuori dalle mura, e a strappare la promessa di ricevere un’area interna alle nuove fortificazioni, sulla quale, con i finanziamenti della Corona, venne costruito un altro convento e un nuova chiesa che presero il posto del tempio e dell’ospedaletto pisano di San Leonardo.
Alla fine dei lavori la fisionomia del borgo era cambiata radicalmente. L’espansione edilizia del quartiere, con gli abitanti che ora cercavano soluzioni per convivere con le strutture fortificate, invece non si era mai fermata.
Tra il XVI e il XVII secolo la Marina è il sobborgo di Callari più intensamente e densamente popolato, dove ormai non vi risiedevano più solo i portuali, i mercanti e gli artigiani, ma vi si era riversata anche quella parte del ceto dirigente che non riusciva più a collocarsi nel Castello. Gli abitanti continuavano a richiedere in concessione terreni ed edifici anche attigui alle strutture difensive, impegnandosi a mantenerle in buono stato, ad apportarvi miglioramenti e a mantenerne liberi gli accessi in caso di necessità, consapevoli del ruolo importantissimo che tali opere rivestivano per la difesa dell’intera città.
Le fortificazioni medievali non ancora demolite, o inglobate nelle nuove cortine, ormai prive della loro originaria funzione militare, vennero spesso concesse in enfiteusi, e lentamente incorporate nei fabbricati civili e religiosi con il consenso delle autorità.

Durante la seconda metà del Seicento, in conseguenza agli abusi del viceré sui diritti per le esportazioni, le tasse troppo elevate costrinsero le navi a fermarsi al largo del Mediterraneo, un mare sempre stato poco sicuro a causa dei continui attacchi, con il conseguente primo collasso della vita economica cagliaritana.
Ad aggravare la situazione contribuì poi anche la diffusione di una pestilenza che toccò l’sola nel 1652.
Sul finire del secolo ci fu una seconda interruzione dei traffici, dovuta questa volta ad un’altra carestia che fece ridimensionare di un terzo gli abitanti. Tra il 1690 e il 1691, il commercio rimasi invece quasi del tutto paralizzato a causa dei blocchi effettuati intorno alla Sardegna da una squadra navale francese.
Furono anni molto difficili, ma nonostante l’economia fosse giunta più volte alla paralisi, i progetti edilizi relativi alle aree ancora disponibili della Lapola vennero comunque realizzati. Nel XVII secolo non mancarono infatti gli interventi di perfezionamento e di manutenzione del costruito, così come si provvide a progettare e a realizzare nuove opere di fortificazione.
Di una certa importanza, i lavori voluti intorno al 1658 dal viceré Francisco de Moyra de Moura y Corte Real Melo, Marchese di Castel Rodrigo, che ordinò il rafforzamento del fronte mare e dello scalo cagliaritano.
La necessità di accogliere la squadra di galere del Regno di Sardegna orientò verso la scelta di evitare le parti del porto con i fondali più bassi. Fu quindi costruita una nuova darsena sul versante orientale del molo della Reyna. Al fine di realizzare un approdo ancora più ad est, venne prolungato il promontorio esistente collegando alla terraferma una secca che stava all’interno della porzione del porto posta frontalmente al Bastione di Jesus. Il molo fu regolarizzato con grossi blocchi litici provenienti da antiche strutture romane ancora presenti in città.
Il Bastione della Reyna (o di San Vincenzo) fu rinforzato, e da allora prese il nome di Baluarte del Castel Rodrigo. Vennero rivoluzionati anche gli altri fortilizi del porto, ampliando il Bastione del Mollet e realizzando una nuova darsena, ingrandita nel 1670 dal viceré duca di San Germano, che utilizzò il materiale di cava ottenuto demolendo con le mine l’antica necropoli di Bonaria.
Nel primo Settecento il molo venne prolungato e fu realizzato il cosiddetto Fortino di San Giacomo.
La nuova palizzata seguì grossomodo lo stesso profilo del nuovo molo, e non è inverosimile che i pali fossero stati piantati nel tratto compreso tra la secca e la riva. In questo modo, lo sbarramento medievale, oltre a difendere l’area del porto, avrebbe segnalato anche il pericolo costituito dal tratto di fondo marino quasi affiorante.

Agli inizi del Settecento, Carlo II di Spagna muore senza lasciare discendenti. L’erede designato è Filippo V, duca d’Angiò di Borbone, nipote di sua sorella Maria Teresa di Spagna, andata in sposa a Luigi XIV di Francia.
Le grandi potenze europee, Inghilterra, Olanda e Austria, per evitare la nascita di un regno franco-spagnolo di dimensioni sterminate, appoggiano invece la candidatura di Carlo d’Asburgo, figlio dell’imperatore Leopoldo I, sposato con un’altra sorella di Carlo II.
Con l’ascesa al trono di Filippo V prende avvio la cosiddetta Guerra di Successione spagnola che vede contrapposte Spagna e Francia alla coalizione formata da Austria, Prussia, Inghilterra, Olanda, Portogallo, Ducato di Savoia e Principato di Piemonte. Il conflitto porta alla fine del lungo periodo di dominio iberico in Sardegna.

Nel 1708 Callari viene bombardata da una grande flotta anglo-olandese e, dopo la resa, Carlo d’Asburgo, con il titolo di Carlo III, insedia un suo viceré, aprendo le porte alla conquista dell’isola.
Nulla vale la controffensiva a favore di Filippo V, la Sardegna rimane sotto il controllo asburgico.
I trattati di Utrecht (1713) e di Rastadt (1714) riconobbero Filippo V quale legittimo sovrano di Spagna e delle Indie, ma con la controparte di Minorca e Gibilterra a favore della Gran Bretagna; i Paesi Bassi, Napoli, il ducato di Milano e della Sardegna vanno agli Asburgo, mentre la Sicilia e una parte del milanese alla Savoia.
Nel mese di agosto del 1717, il favorito della regina di Spagna, l’abate Giulio alberoni, salpa da Barcellona alla volta di Callari per riconquistare l’isola. La città asburgica si arrende dopo essere stata nuovamente cannoneggiata. A fare le spese del violento attacco furono il convento di Nostra Signora di Gesù, pesantemente danneggiato, e i bastioni di N.S. di Montserrat e dello Sperone.
Le potenze europee, ora riunite in una quadruplice alleanza, decidono, con l’accordo di Londra del 1718, di restituire la Sardegna a Carlo III d’Asburgo, che ottiene di scambiarla con la Sicilia già in mano ai savoia, in maniera da avere una continuità con i territori napoletani già sotto il suo dominio.
Il 16 luglio 1720, a bordo di una nave inglese, arriva a Cagliari il primo viceré piemontese: Guglielmo Pallavicino Barone di St. Remy. La città, da questo momento, dopo quattro secoli di cultura iberica entra definitivamente nell’orbita italiana, diventando inconsapevolmente anche la prima capitale storica del futuro Regno d’Italia.
Gli spagnoli lasciarono l’isola portandosi via le armi e i progetti delle fortificazioni, costringendo i piemontesi a ridisegnare e ad attuare un nuovo piano organico di difesa. Vittorio Amedeo II incaricò dello studio l’ingegnere militare Antonio Felice de Vincenti, che mise in pratica le teorie sviluppate nei decenni precedenti da Sebastien Le Preste, marchese di Vauban e maresciallo di Francia, esperto costruttore di fortificazioni.
I lavori furono completati dai diversi tecnici che si susseguirono durante l’epoca sabauda, che si occuparono soprattutto della creazione del rivellino di Porta di Jesus, del rafforzamento degli ingressi nei borghi ancora fortificati, e della realizzazione dei tenaglioni, in corrispondenza dei bastioni spagnoli.
Durante il 1746 le fortificazioni di Cagliari raggiunsero la loro massima espansione.

Il progresso che nell’Ottocento interessò il settore degli armamenti rese però inutili anche i rafforzamenti progettati dal de Vincenti. Le autorità militari iniziarono ad avere meno cura della loro manutenzione, e negli anni successivi, gli architetti sabaudi che si avvicendarono nell’isola, tra i quali Saverio Belgrano di Famolasco e Giuseppe Viana, si dedicarono principalmente alle opere di carattere civile e religioso.
A ciò si aggiunsero le nuove teorie urbanistiche francesi, che prevedevano un vasto piano di ristrutturazione delle città con la sostituzione delle cinte bastionate con grandi viali, lunghe strade, piazze e parchi che avrebbero dovuto conferire un aspetto moderno e grandioso. L’interesse riposto nel rinnovamento edilizio e nell’ammodernamento delle infrastrutture rispondeva a esigenze di ordine pubblico e di natura igienica, ma rivestiva anche una grande importanza sotto l’aspetto politico.
In poco tempo quello francese divenne un esempio per tutti i centri europei che ambivano a liberarsi dell’abbraccio soffocante delle fortificazioni di età medievale e moderna.
Quando Cagliari fu cancellata dall’elenco delle piazzeforti e dal novero delle fortificazioni del Regno d’Italia, Regi Decreti n. 3467 del 31 dicembre 1866 e n. 3786 del 23 aprile 1867, si intensificò l’opera di eliminazione di parte delle fortificazioni, in particolare di quelle che delimitavano il quartiere della Marina. Con la pubblicazione delle delibere, le mura, i baluardi, le torri, le porte e tutte le opere a carattere difensivo dismesse passarono prima al Regio Demanio e poi, dal 1876, all’amministrazione municipale.

Tra il 1844 e il 1846 era già stato eliminato il Bastione di San Francesco. Negli anni Sessanta dell’Ottocento si abbatterono la Porta di Jesus, la Porta Sant’Agostino, i rispettivi bastioni e le vicine cortine. Fu rasa al suolo la gran parte della mura che congiungevano i moli, i bastioni sul fronte mare e la Porta di Castel Rodrigo. Alcune strutture, come il Bastione di N.S. del Montserrat, furono invece cedute a privati.
Negli anni Settanta sparirono Porta Villanova e la cortina della Porta del Molo. Nei primi anni Ottanta vennero invece demolite le ultime fortificazioni sul mare e le mura occidentali della Marina.
Si registrò l’apertura di varchi, che misero in comunicazione la vecchia città fortificata con il territorio circostante, che assorbì completamente il quartiere, non cancellando però il suo tipico tracciato storico. I fossati e le strade coperte presenti nei settori occidentale e orientale delle mura della Marina furono trasformati in bellissimi assi viari e passeggiate, che ne modificarono l’andamento del terreno e il paesaggio, aprendo alle sistemazioni avviate nell’Ottocento e concluse nella prima metà degli anni Venti del Novecento.
NOTE: il Breve Portus Kallaretani è l’esemplare di statuto portuale noto più antico. È conservato presso l’Archivio di Stato di Pisa, all’interno del fondo della famiglia Roncioni.