La ruota degli innocenti

Esposizione presso la Real Casa dell’Annunziata di Napoli

La ruota degli esposti nasce in Francia sul finire del XII secolo, e secondo una vecchia tradizione fu papa Innocenzo III a volerne una anche nell’ospedale Santo Spirito in Saxia, alle porte del Vaticano, poiché turbato da incubi ricorrenti in cui sognava cadaveri di neonati che galleggiavano nel Tevere.

Da lì, la ruota inizia a diffondersi a macchia d’olio in tutta l’Europa continentale, e a partire della metà del 1400 non esisteva in Italia un singolo ospedale che non destinasse alla gestione dei trovatelli una parte significativa delle proprie risorse.

A Cagliari, fin dai primi anni Ottanta del Cinquecento, l’attività del Padre d’Orfani, ovvero il funzionario, prima di nomina regia e poi civica, al quale era affidata la tutela dell’infanzia più debole e derelitta, cominciò a rivolgersi con intensità anche alla cura e alla tutela dei neonati abbandonati, che in città, già dal 1583, trovavano provvisorio ricovero presso l’ospedale di Sant’Antonio Abate, dove, nell’ombrosa discesa del portico che passava tra la chiesa e il nosocomio, era stata sistemata una particolare cassetta per accogliere i piccoli trovatelli.

Il meccanismo consisteva in una bussola girevole di forma cilindrica, divisa in due parti e chiusa per protezione in entrambi i lati da uno sportello. La prima apertura era collocata verso una nicchia posta nel muro esterno della chiesa, quindi tesa verso la strada, mentre la seconda era rivolta verso la dimora dell’accogliente, che, combaciando con un ingresso sul muro, permetteva di adagiare il trovatello con garanzia d’anonimato. A chi lasciava il neonato veniva data la possibilità di suonare una campanella per avvisare dell’arrivo del nuovo infelice, che di norma era nudo o fasciato con un panno, o ancora più spesso con un giornale.

Talvolta, nelle fasce venivano lasciati dei segnali di riconoscimento: un rosario, una moneta, un orecchino, oppure un’immagine sacra tagliata a metà, una carta mozzata o una medaglietta spezzata, di cui la madre conservava l’altra porzione come prova, per una futura restituzione. Altre volte veniva invece lasciata una lettera, nella gran parte dei casi con frasi sgrammaticate, che spiegavano le ragioni dell’abbandono.

Questi potenziali elementi di riconoscimento erano scrupolosamente annotati in idonei registri all’atto dell’ingresso in ospedale, poiché si riteneva, e a ragione, che gli indizi costituissero un chiaro segno della volontà, da parte delle madri, di rintracciare e di poter riabbracciare un giorno i propri figli. Con molta probabilità, buona parte degli esposti che portavano con loro questi segni particolari erano legittimi, e i genitori, pur costretti ad abbandonarli in momenti di grave difficoltà economica, si garantivano la possibilità di riaverli quando la situazione di precarietà fosse stata superata.

A tali espedienti ricorrevano anche le ragazze madri prima delle nozze, che si riprendevano il figlio abbandonato una volta che queste fossero state celebrate, evitando così lo scandalo. In altri casi, le madri legittime si presentavano invece all’ospedale offrendosi come nutrici mercenarie per ottenerli a baliatico esterno, e quindi ricevere un’indennità, benché modesta, ma talvolta indispensabile se non unica risorsa per la sussistenza della famiglia.

Nelle società d’antico regime, la mortalità tra i bambini subito dopo lo svezzamento, per denutrizione o malattie, soprattutto gastroenteriche, era elevatissima.
A questa realtà non sfuggivano neppure i bambini esposti alla ruota dell’ospedale di Sant’Antonio Abate, all’interno del quale le condizioni igieniche lasciavano alquanto a desiderare, e dove gli insetti e le blatte erano di casa e ne infestavano i muri e i pavimenti.

L’accoglienza dei trovatelli all’interno del nosocomio era pertanto temporanea e solitamente di breve durata. A prestar loro il primo soccorso era la balia maggiore (la dida resident) che per allattare un bambino percepiva un salario pari a 40 soldi al mese. Subito dopo i neonati venivano battezzati nelle vicine chiese di Sant’Antonio o di Sant’Eulalia, e per garantirne l’identità personale veniva dato loro un nome puntualmente registrato negli atti.

Le forme nominali maschili e femminili risultavano rigidamente ancorate alla tradizione e si richiamavano prevalentemente ai santi venerati in città. Il nome femminile più diffuso era quello di Maria, mentre quello maschile era Antonio, poiché la gran parte dei bambini abbandonati veniva battezzato nella chiesa contigua all’omonimo ospedale. Particolarmente presente era anche il nome di Giovanni, talvolta seguito dalla parola “di Dio”, chiaro omaggio al fondatore dell’ordine dei Fatebenefratelli che gestivano il sanatorio. Fra le forme nominali femminili seguivano Anna, Giovanna, Caterina, Barbara, Francesca, Chiara ed Eulalia; fra i nomi maschili, dopo quello di Antonio risultavano dominanti Efisio, Saturnino, patrono della città, Lucifero, Cosimo, Agostino, Francesco, Giuseppe e Antioco, molto comune nella Sardegna rurale, in quanto patrono dei contadini.
Ancora oggi della ruota degli esposti ne rimane traccia in alcuni cognomi italiani: Esposito, Trovato, Degli Innocenti. Per citarne solo alcuni.

Reperire in città nutrici in numero sufficiente per l’allattamento dei trovatelli non era semplice, per cui il Padre d’Orfani era spesso costretto a rivolgersi nei paesi limitrofi.
La prestazione di servizio come balia era in ogni caso un’occupazione occasionale, poiché dipendente dalla condizione fisica della maternità, e ad offrirsi erano soprattutto donne povere che da simile condizione potevano trarre una risorsa economica, anche nei casi in cui i loro bambini fossero nati morti. Il latte materno era particolarmente ricercato, e la mancanza di queste levatrici era avvertita soprattutto nel periodo estivo, quando le donne venivano impegnate nei lavori agricoli della raccolta. La maggior parte di loro, e in genere le più apprezzate e ricercate, provenivano proprio dal mondo delle campagne.

A condizionare la disponibilità di balie sufficienti alle necessità del momento c’era poi anche l’esiguità dei fondi messi a disposizione per l’assistenza e la tutela dell’infanzia abbandonata, e per questo motivo si ricorreva spesso a nutrici a mezzo servizio (a mig llet=a metà latte), per cui era frequente che la dida allattasse placidamente con un seno il proprio figlio e con l’altro il bambino affidatole. In questi casi, il bambino esposto doveva essere allattato da più balie, correndo seri pericoli per la sua salute.

I più fortunati erano quelli affidati a levatrici con contratto a tutto latte (de tot llet), le quali venivano pagate mensilmente con 25 soldi. L’indennità mensile poteva essere anche aumentata, il che si verificava quando i trovatelli presentavano problemi di salute o malformazioni fisiche, per cui richiedevano maggiore cura ed assistenza. In questo caso era prevista anche la consegna di un modesto corredo che solitamente consisteva in un gonnellino o pantaloncino, in una camicina, in due fasce di lana e due di lino, che bisognava però andare a ritirare in ospedale. E raggiungere il Sant’Antonio era decisamente faticoso, soprattutto per le donne che provenivano dai centri rurali, in quanto solo alcune, le più fortunate, potevano permettersi di viaggiare su un carro. Per la maggior parte di loro andare a piedi era invece la norma, ma dovevano affrontare ore ed ore di camminata nella polvere, sotto la pioggia, il sole o contro vento, spesso a pancia vuota e con due neonati al collo. Questo perché ogni balia doveva mostrare all’ispettore sia la piccola bordeta (o il bort =bastardo) che il proprio figlio, in modo che, qualora il primo le fosse morto, non potesse frodare l’amministrazione civica, sostituendolo con quello naturale, sempre che fosse vivo a sua volta.

La ruota degli esposti – SS Annunziata Napoli

Molte famiglie dopo aver adottato i baliotti dichiaravano la morte del proprio figlio legittimo, sbarazzandosi in realtà del bambino esposto, oppure in caso di morte del piccolo lattante durante il periodo di baliatico, tentavano di sostituirlo con un altro della stessa età, onde evitare di dover rinunciare alla retta.

Quando lo scandalo venne alla luce, l’amministrazione civica prese la decisione di dare ai trovatelli un segno distintivo: un orecchino d’argento (il sarcilló) sul quale veniva inciso un numero e lo stemma della città. L’orecchino, da quel momento andrà a costituire l’unico elemento comprovante la nuova identità dello sfortunato bambino.

Frequenti erano poi i casi in cui volontariamente, o perché costrette, le balie restituivano all’ospedale i trovatelli a loro affidati. Le motivazioni erano le più diverse, solitamente per mancanza di latte, ma spesso anche perché il Padre d’Orfani si rendeva conto che non prestavano ai piccoli le dovute attenzioni.

Col tempo il Padre d’Orfani iniziò a rendersi conto che molti abbandoni erano frutto della miseria, e questa realtà veniva fuori delle numerose “riconsegne” e “ritiri” dei neonati, temporaneamente affidati alla ruota dell’ospedale dai genitori naturali. L’abbandono momentaneo dovuto a particolari periodi di disagio economico saltava alla luce anche davanti al rifiuto delle balie di far applicare l’orecchino al baliotto. Non era inusuale inoltre che una madre pentita si riprendesse la sua creatura abbandonata subito dopo il parto, come non erano rari neanche i casi in cui alle nutrici venissero sospesi i pagamenti dei baliatici perché riconosciute madri naturali.

L’adozione del sistema dell’orecchino non aveva comunque risolto il problema della sostituzione dei bambini, poiché continuavano ad essere troppi gli esposti trovati privi dell’ingombrante segno distintivo.

Per evitare questi ed altri abusi, venne allora stabilito l’obbligo, per le nutrici che avevano in affidamento un esposto e per il cui sostentamento percepivano un sussidio, di presentarsi, entro una data stabilita, presso l’ispettore con due testimoni “qualificati e degni di fede che fossero in grado di deporre con giuramento e con appaganti ragioni di scienza sull’identità dello spurio”. Chi non si presentava, o non era in grado di giustificare l’identità del bambino, veniva cancellata dal registro delle balie e, di conseguenza, privata del sussidio. Chi giurava il falso veniva invece punita “con quei castighi proporzionati al delitto”.

Anche se molto raramente, si poteva verificare il caso in cui la balia presentasse richiesta d’adozione come “figlio d’anima” (così venivano chiamati per distinguerli dai figli naturali), con la rinuncia al sussidio e la restituzione dell’orecchino. Ma rappresentava un fatto inusuale, poiché per una diffusa cultura del tempo, i trovatelli venivano definiti esseri inferiori, inclini alla delinquenza e alla violenza, per cui difficilmente venivano richiesti. Chi lo faceva era spinto per lo più dalla necessità di poter disporre di due braccia forti da lavoro, e non infrequenti erano anche i casi di ripensamento da parte dei genitori naturali, che dopo il parto, per motivi economici o per mascherare il frutto di una gravidanza avvenuta fuori dal matrimonio, affidavano il neonato alla ruota, per poi supplicare il Padre d’Orfani alla restituzione del bambino o a richiederne l’adozione.


Sebbene l’attività del Padre d’Orfani si rivolgesse prevalentemente alla tutela e alla cura dell’infanzia abbandonata, le sue competenze si estendevano anche alla sorveglianza e al controllo dell’operato delle mammane, alle quali ricorrevano molte donne senza marito per impedire al nascituro di vedere la luce, oppure per liberarsene evitando l’esposizione del figlio indesiderato. Gestanti che non erano però solo meretrici, ma anche donne in gravidanza spesso a seguito di violenze subite, o ragazze nubili con il frutto del peccato che vivevano ancora con la loro famiglia d’origine.

Per svolgere la loro professione, le mammane dovevano essere in possesso di un certificato da lui rilasciato, e dopodiché, fino al momento del parto e a spese della cassa comunale, potevano accogliere nelle loro case donne nubili incinte residenti in città. Poiché non era raro il caso in cui alcune donne si installavano nelle abitazioni delle levatrici con falsi certificati di gravidanze inesistenti, o provenienti dai villaggi, il controllo era assai rigoroso.

Alla mammana si raccomandava che le donne in attesa venissero trattate con il massimo riguardo, rispetto e segretezza, e che fossero esentate dallo svolgere lavori faticosi tali da compromettere la salute del nascituro. Una volta avvenuto il parto, la stessa mammana aveva anche il compito di lavare e fasciare il neonato “rifiutato”, e di consegnarlo personalmente alla balia maggiore in modo da evitare che venisse deposto in una delle due ruote esistenti in città, quella dell’ospedale di Sant’Antonio e quella collocata, nel corso del Settecento, nella Chiesa di Santa Croce in Castello, dove avrebbe corso il rischio di morire.
La balia maggiore, a sua volta, avrebbe proceduto a far battezzare il bambino nella parrocchia di Sant’Eulalia o nella chiesa di S. Antonio Abate, a fargli apporre l’orecchino per l’identificazione, inserirlo nel registro degli esposti e ad affidarlo ad una nutrice.

I bambini più fortunati venivano adottati dalla stessa famiglia alla quale erano stati affidati in origine. In questo caso, nell’atto di adozione gli adottanti dichiaravano sempre di assumersi l’impegno, se maschio, di insegnargli un mestiere, e se femmina, di provvedere a darle una dote al compimento del diciottesimo anno di età e di farla maritare, crescendoli comunque entrambi con un’educazione cristiana e attiva presso le parrocchie di appartenenza.

I trovatelli che non si riusciva a far adottare, al compimento dei 7 anni venivano invece affidati a famiglie rispettabili. Dopodiché, una volta raggiunto il dodicesimo anno d’età, i maschi erano collocati presso la bottega di un artigiano per l’apprendimento di un mestiere, mentre le femmine venivano messe  a servizio presso case di persone di fiducia o avviate alla monacazione.


Nel 1719, a Torino venne istituita una congregazione generale per la direzione e la sorveglianza di tutto l’apparato assistenziale, a cui venne naturalmente affidata anche la cura degli esposti.

A partire da quella data, in numerosi centri iniziarono a sorgere i primi orfanotrofi, che in alcuni casi accudivano direttamente i piccoli orfani stipendiando balie interne, mentre in altri ci si preoccupava di affidarli a baliatico esterno, a famiglie che dovevano rispondere a rigorosi requisiti di moralità e religiosità, le quali in tal modo potevano contare su un nuovo cespite di guadagno che sarebbe andato ad integrare i loro magri redditi.

La Sardegna, nonostante facesse ormai parte dello stato sabaudo, rimase però fuori dalle riforme volute da Vittorio Amedeo II in materia socio-assistenziale. Il pretesto ufficiale era che l’antico regno sardo godeva ancora di ampia autonomia, ma di fatto le motivazioni erano in realtà ben altre, e riconducibili comunque, e soprattutto, a quelle di carattere politico e di natura economico-finanziaria, poiché il bilancio del regno, a motivo della sua struttura produttiva, basata essenzialmente su un’agricoltura di sussistenza e su una pastorizia brada e transumante, veniva a trovarsi in perenne asfissia. Secondo i nuovi dominatori, non vi erano nemmeno affinità tra le popolazioni isolane e quelle degli stati di terraferma, così come erano diverse le istituzioni, la cultura, la lingua, i costumi, e persino il modo di vestire.

Le clausole del trattato di cessione imponevano inoltre, e in modo perentorio, di non innovare nulla in Sardegna per non irritare l’animo di quella non piccola parte della popolazione, che, dopo il secolare dominio spagnolo e la breve parentesi del governo austriaco, non aveva visto volentieri il passaggio sotto i Savoia.

Allo stato delle cose, onde evitare malumori, ma soprattutto per sottrarsi all’esborso di denari da impegnare in un’isola povera e infruttuosa, con sprezzante superiorità, i piemontesi avevano ritenuto più saggio ostentare disinteresse e indifferenza  verso il problema degli esposti dell’isola.

Il 7 maggio 1765, Carlo Emanuele III emanò però un editto con il quale sopprimeva la precedente direzione ospedaliera del Sant’Antonio, che vedeva la continua ingerenza ed alternanza della municipalità cagliaritana e dei religiosi nella vita del nosocomio, sostituendola con una Congregazione di Carità composta dall’Arcivescovo, dal Giudice della Reale Udienza, da quattro nobili, da due canonici capitolari, dal padre provinciale degli Spedalieri, e da quattro benestanti.

La congregazione si sarebbe dovuta occupare anche degli esposti e vigilare sulle nutrici, che oltre ad avere un’educazione cristiana, dovevano essere controllate sanitariamente per non cagionare i lattanti a loro affidati.

Il nuovo regolamento regio stabiliva inoltre il trasferimento degli esposti dell’età di dodici anni nell’Isola dell’Asinara, poiché avrebbero dovuto guadagnarsi il vitto e l’alloggio con i lavori di cui erano capaci, quindi impiegandoli nella coltura delle terre o nell’esercizio delle manifatture.
Si trattava di una disposizione inaspettata, innanzitutto perché colpiva unicamente i bambini sardi, e poi perché gli stessi fanciulli venivano bollati a priori dalla casa sabauda come dei potenziali delinquenti, portatori di disordini, individui che portavano in sé, proprio per le loro origini, il gene del peccato che inevitabilmente gli avrebbe portati a rinsaldare le file di quegl’individui che sono per le innate attitudini portati al furto, all’omicidio e alla prostituzione, ossia a tutti quei mali che la società civile rifugiava.


A Cagliari, come in tutte le città dell’Isola, per la mancanza di ospedali e di medici preparati, l’assistenza sanitaria continuerà per lungo tempo ad accusare pesanti ritardi nei confronti degli altri paesi europei.

Ben diversa si presentava invece la situazione nel mondo delle campagne, dove al soccorso dell’infanzia abbandonata provvedeva la solidarietà comunitaria, la chiesa o lo stesso ceto feudale.

Nel frattempo, l’amministrazione dell’ospedale di Sant’Antonio Abate era stata nuovamente affidata ai religiosi di San Giovanni di Dio, e con la nuova gestione, la situazione del nosocomio era migliorata sensibilmente sia dal punto di vista della dotazione finanziaria che da quella igienico-sanitaria.

Il precedente allontanamento del Padre d’Orfani, deciso dal governo sabaudo, aveva invece reso più difficile la vita degli orfani, e la mortalità tra i neonati esposti continuava ad essere drammaticamente elevata, poiché difficilmente il trovatello riusciva a trascorrere il periodo di baliatico in affidamento presso la stessa dida.
Nel primo mese di vita poteva infatti passare tra più nutrici, per poi spesso morire senza giungere nemmeno al secondo mese di vita. Questo continuo passaggio da una balia all’altra era dovuto proprio alla gracilità dell’esposto, per cui le levatrici lo abbandonavano quando si rendevano conto che le spese necessarie per curarlo erano superiori al sussidio percepito.

In molti casi, inoltre, le balie provenivano da ambienti poverissimi e degradati, abitando in tuguri malsani, umidi e bui, dove sovente persone e animali convivevano promiscuamente, e pertanto anche la situazione igienica risultava particolarmente pregiudizievole per la salute dei piccoli.
Quando poi la nutrice lavorava nei campi, il baliotto veniva spesso affidato per molte ore della giornata alle donne anziane o a delle bambine, le quali, per attutirne le grida e la fame lo saziavano con delle zuppe, con pezzi di pane, frutta e legumi, e nel corso della giornata raramente lo lavavano e lo ripulivano.
Inoltre, nei casi in cui le balie allattavano contemporaneamente anche il proprio bambino, ai trovatelli veniva riservata una quantità di latte del tutto insufficiente per una crescita sana, per cui non era raro vederli macilenti, con il ventre rigonfio, con la pelle secca e piena di eruzioni eritematose.
Altre volte per ottenere un contratto di baliatico si ricorreva all’inganno: capitava infatti che donne floride, una volta ottenuto l’affidamento del trovatello, lo cedessero a balie in condizioni fisiche precarie, spartendosi il salario percepito.

Appare quindi evidente il motivo per il quale i bambini non ricevessero cure adeguate: da una parte perché venivano affidati a donne povere, ignoranti e spesso gravate da molte maternità, dall’altra perché, in una società ad economia di sussistenza come quella della Sardegna del periodo, il baliotto non veniva accolto per spirito caritatevole, ma perché rappresentava sovente l’unica fonte di guadagno per un’intera famiglia.

Con il ritorno dei religiosi, ad occuparsi dell’assistenza e della cura dei bambini abbandonati sarà dunque, di nuovo, ancora, e per tutto il Settecento, il Padre d’Orfani, coadiuvato dal suo vice, dalla balia maggiore, e dall’assistenza dei medici dei poveri.
Oltre che del primario affidamento a una nutrice, il funzionario ricomincerà a svolgere anche una meritoria azione per il loro affidamento a bottega, una volta raggiunti i 12 anni, in modo che potessero apprendere un mestiere.
Gli affidatari erano invece per lo più artigiani e professionisti della città, che si impegnavano a provvedere anche alle loro necessità e al loro mantenimento.

L’atto con il quale venivano precisati i rapporti tra le due parti contraenti non poteva essere rescisso, se non in casi eccezionali o di maltrattamento dell’orfano, previo comunque il coinvolgimento del Padre d’Orfani. Il documento doveva ad ogni modo contenere necessariamente l’indicazione del tipo di contratto, quindi se il ragazzo veniva preso come mosso de casa (cioè domiciliato nella casa del maestro che gli insegnava il mestiere come se fosse un figlio), o come mosso de respecto, nel qual caso gli si sarebbe dovuto corrispondere un salario alla scadenza del contratto di apprendistato.

Il mosso si impegnava innanzitutto ad apprendere il mestiere e, contemporaneamente, a servire il maestro, la sua casa e la sua famiglia, giorno e notte, sottoponendosi totalmente ai suoi comandi e alla sua disciplina. Prometteva inoltre di non rubare in bottega né in casa, di non fuggire e di non allontanarsi dal servizio neppure per breve periodo, se non con il consenso del maestro.

Il maestro, a sua volta, si obbligava ad istruire il giovane secondo coscienza, ad accoglierlo nella sua casa e a dargli da dormire, a vestirlo, calzarlo e nutrirlo secondo la propria condizione economica e sociale, a tenerlo presso di sé, sano o malato, senza dovergli corrispondere nessun compenso monetario.
Se si trattava di un mosso de respecto, era suo diritto catturarlo in caso di fuga e ricondurlo al suo servizio, come anche, alla fine del contratto, pretendere la prestazione delle ore e dei giorni non lavorati per malattia, fuga o assenza non autorizzata, o defalcarne l’importo dal compenso finale.

Apertura esterna della ruota degli esposti della SS Annunziata di Napoli. Il 1875 indica l’anno in cui smise il suo funzionamento

I servizi delle giovanette, la cui età oscillava tra i dieci e i sedici anni, venivano invece retribuiti piuttosto miseramente. Oltre al vitto e all’alloggio, allo scadere del contratto di affidamento venivano assegnate loro 50 lire, di cui 25 in denaro e la restante somma in un corrispettivo in stoffe, vestiario e biancheria che avrebbero dovuto costituire la dote maritale.

Di fronte ad abusi e violenze, per gli apprendisti l’unica soluzione era quella della fuga o della ribellione, anche se le conseguenze sarebbero state estremamente penalizzanti, poiché rompere il contratto prima dei termini di scadenza era considerato una grave violazione, punita con una multa pecuniaria e, quel che è peggio, con la conseguente interdizione all’esercizio dei mestieri.

La severità di tali norme induceva pertanto, e il più delle volte, i malcapitati a rinunciarvi, in parte per salvaguardare il proprio avvenire, in parte per rispetto e devozione, ma soprattutto per convenienza economica, poiché non sempre avevano garantiti un tozzo di pane, un vestito o un pagliericcio per riposare.

La figura del Padre d’Orfani, nonostante incominciassero finalmente  a sorgere i primi istituti di accoglienza per gli esposti e per i bambini poveri, continuerà ad operare fino al 1849, anche se la sua azione, specialmente sul piano dell’affidamento a bottega, tenderà ad affievolirsi.

Il permanere di un diffuso disagio sociale, che non risparmiava neppure i ceti popolari urbani, costringerà la città di Cagliari a mantenere in funzione la ruota degli esposti del Sant’Antonio Abate ancora per un lungo tempo. Per la sua abolizione occorrerà infatti attendere il 1883, quando la giunta comunale, con apposita delibera del 30 giugno, ne decreterà l’abolizione.

In Sardegna invece, ultima fra le regioni italiane, la ruota della vergogna verrà definitivamente abolita soltanto nel 1923.