La storia, a Cagliari, la si respira negli stretti vicoli di Castello, roccaforte di antichi dominatori, dove una magica atmosfera fa da contorno ad un luogo che oggi sembra quasi fuori dal tempo. Ogni angolo di questo borgo custodisce racconti e aneddoti vecchi centinaia di anni, capaci di far rivivere ancora le vicende passate di una città proiettata ormai verso il futuro.
Camminando per le sue vie si riesce ad assaporare la dimensione della Cagliari più autentica, una sensazione che scaturisce, forse, per la presenza dei palazzi nobiliari, con gli stemmi e le iscrizioni marmoree delle antiche famiglie che li abitavano; per le chiesette nascoste, per il vento fresco di maestrale che, oggi come allora, si insinua tra gli stretti vicoli facendo sventolare i variopinti panni stesi sulle piccole verande; e poi ancora i balconcini con il parapetto in ferro battuto, le minute botteghe artigiane e gli studi artistici incastonati in un mondo che sembra ormai andato, ma che rimangono una preziosa memoria di quello che un tempo doveva certamente essere il tessuto sociale della città alta.
Questo piccolo centro storico, edificato dai pisani sulla cima della collina, è menzionato in un documento del 1217 con il nome di “Castro Novo Montis de Castro Super Bagnaria”, mentre in altre carte di poco successive è chiamato “Castro Novo Montis de Castro”. L’ultima denominazione sarà mantenuta sino al 1229, e cioè fino a quando il titolo fu sostituito dal più breve Castellum Castri. Dopodiché, il suo nome andò a modificarsi insieme ai nuovi dominatori che, di volta in volta, si stanziarono sul colle.
Rispetto alle altre città sarde, la vita urbana della contrada, oggi denomina Castello, risultava chiusa entro le mura, e per questo motivo non ha mai avuto molta disponibilità di spazio. Le strade erano anguste, e anche se alcuni slarghi prendevano il nome di piazza, in realtà l’epiteto poteva essere giustificato solo per quella attuale intitolata a Carlo Alberto.
Le tecniche costruttive erano influenzate dal ceto politico dominante, che non era mai quello locale, perché già dal periodo pisano alla popolazione sarda era proibita la residenza nell’abitato.
Le abitazioni, sviluppate nel senso della profondità, avevano almeno un piano elevato e, disposte lungo il fronte stradale, si innalzavano con una facciata stretta, comprendente al massimo due luci e un tetto spiovente.
Durante l’epoca spagnola, sotto la spinta della crescita della popolazione, la necessità di recuperare nuovi spazi abitativi favorì la diffusione di soluzioni particolari, come quella di costruire a ridosso della cinta muraria, che prima di allora, doveva essere tenuta libera per le operazioni militari di difesa.
Nel paesaggio urbano, caratterizzato da edifici elevati, si distingueva un tipo di costruzione dall’aspetto turrito, riconducibile al modello pisano definito casa-torre, ingentilito poi nel periodo aragonese.
I palazzotti erano realizzati prevalentemente in mattoni o con la pietra estratta dalle cave, ricavata alle falde del Castello, mentre gli interni, le divisioni dei piani e le scale, continuavano ad essere costruiti in legno. Erano dotati di un sistema di scolo delle acque piovane, vari accessi e portici.
In epoca spagnola si è spesso avuta anche l’annessione di altri ambienti, alcuni dei quali inseriti in origine in unità edilizie indipendenti, e per tale ragione si riusciva a disporre anche di più ingressi.
Il tessuto urbano, nel corso del Trecento, si mantenne sostanzialmente inalterato, fu infatti solo il rovinoso incendio del 7 agosto 1386, che distrusse più di un centinaio di case, a creare le condizioni per il massiccio rinnovamento dell’assetto edilizio. E in mancanza di un piano di ricostruzione, furono i privati a tentare di porre rimedio ai danni provocati dal disastro. I nuovi edifici vennero ricostruiti di dimensioni maggiori rispetto a quelli originari, spesso sottraendo anche porzioni al suolo pubblico. Si trattava di veri abusi, tollerati però dal sovrano per beneficiare i fedeli servitori della Corona.
Le case potevano così contare anche delle botteghe accanto all’ingresso delle abitazioni e figurare come dimore di pregio, perché solo le famiglie benestanti potevano permettersi una casa realizzata nel rispetto di soluzioni stilistiche ricercate, di materiali resistenti, e in particolare, di pietre finemente lavorate.
Le viuzze avevano la possibilità di qualificazione a livello privato, semipubblico e pubblico, poiché venivano considerate come proprietà privata delle istituzioni, oppure dei padroni degli edifici prospettanti, tanto che anche la manutenzione e la pavimentazione spettava ai titolari delle aree.
Questa concezione spiegherebbe i riferimenti topografici usati in numerosi documenti per individuare le abitazioni, dal momento che solo il nome del proprietario della casa, o di colui che vi risiedeva, oggi riesce a premetterci di conoscere l’ubicazione degli antichi immobili.
Il borgo si articolava in tre strade principali, chiamate rughe, che ora corrispondono a via Alberto La Marmora, via Nicolò Canelles e alla parte bassa di via Santa Croce (all’epoca la strada confluiva nelle attuali via Corte d’Appello e via Stretta, per andare poi a fondersi con via San Giuseppe).
Il Castel de Caller aragonese ha ereditato le strade e la toponomastica del Castellum Castri a cui i tecnici pisani conferirono la tipica conformazione a fuso.
Al momento dell’impianto i percorsi erano lunghi, stretti, volti dal settentrione verso il meridione, e la strada principale, che oggi corrisponde a via La Marmora, era tesa tra le porte nord e sud dell’abitato, ma non ancora tra le due torri di San Pancrazio e del Leone, che nel XIII secolo non avevano ancora assunto le forme trecentesche conferite loro da Giovanni Capula e da un ignoto magister.
I due architetti furono abilissimi nel ricreare anche un perfetto punto di intersezione tra la via La Marmora pisana e le due chiese di San Giovanni (a Villanova) e di Sant’Efisio (a Stampace); tale linea di congiunzione, determinata con precisa ortogonalità, intercettava, nella parte centrale, il cuore della città, rappresentato dalla cattedrale, dando in questo modo vita ad uno stretto legame anche simbolico tra il Castro Novo e le sue due appendici di impianto pisano, documentate, però, soltanto dalla seconda metà del Duecento, quindi molto più tardi rispetto alla realizzazione della strada nella rocca.
L’attuale via Santa Croce corrisponde solo al primo segmento dell’antico percorso, e nel tempo ha subìto forti rimaneggiamenti; il tracciato delle altre strade è rimasto invece quasi invariato, così come la loro larghezza, che tuttora è una delle caratteristiche di questo quartiere, e che continua infatti ad apparire con percorsi molto stretti, impostati in origine con una ampiezza ridotta per motivi sia di spazio che di difesa.
Oltre alle tre rughe principali, esisteva anche una viabilità minore denominata Chiassatello (Classatello publico o Classum communale), la quale, con molta probabilità, indicava tutti quei brevi tragitti che mettevano in comunicazione tra loro le vie principali, e che quindi svolgevano una funzione molto simile a quella di una traversa.
Le biforcazioni prendevano ancora una volta il nome dalle istituzioni o dalle ricche famiglie che dimoravano nell’angolo tra il vicolo e la ruga, e raccordavano dunque le maggiori strade tra loro, così come hanno fatto in epoca moderna il portico La Marmora, il portico Vivaldi Pasqua e il portico Laconi, quest’ultimo realizzato nel palazzo della famiglia degli Aymerich proprio nel punto dove era già presente una diramazione.
Come già accennato, l’unico vero slargo del borgo si trovava al centro del Castellum Castri e, attestato a partire dal 1217, corrispondeva all’attuale piazza Carlo Alberto. La platea era però differente da come si presenta nel nostro tempo, poiché allora risultava un tutt’uno con l’area che ancora oggi è antistante alla cattedrale di Santa Maria e al Palazzo di Città.
Ciascuna delle rughe di Castellum Castri, che erano raggruppate per associazioni mercantili e di mestiere, era rappresentata dai propri abitanti nel Consiglio Maggiore e Minore della Municipalità cittadina. L’anzianato aveva la durata di un bimestre ed era assegnato a due cittadini scelti tra coloro che componevano una compagnia o una societas rugae, che a sua volta aveva una propria effigie, di solito un santo o un animale che simboleggiava la forza. La stessa effigie rappresentava anche la strada dove aveva sede la compagnia.
Oggi il quartiere è caratterizzato anche da altre vie (via Pietro Martini, via Duomo, via del Fossario, via de Candia, via Università, via Genovesi – che inizia a prendere forma solo nel XIV secolo) che già in origine comunicavano tra loro attraverso calle e portici aperti nelle parti più basse delle case, erano collegate da altri vicoli, si fondevano con altre strade o proseguivano ciascuna verso una direzione distinta che rimaneva comunque circoscritta fra le mura del borgo medievale.
Oltre ai palazzi nobiliari e ai monumenti, tutte le vie offrono ancora adesso spunti per soste a botteghe di antiquari e artigiani, prospettive panoramiche sul mare e sugli altri quartieri storici, e ospitano localini allestiti in quelle che erano le vecchie cantine di un tempo ma che oggi sono diventate meta ambita per una cena o un aperitivo caratteristico.
Queste ultime vie hanno subìto forti rimaneggiamenti nella loro rete stradale, per cui è complesso trovare un perfetto parallelismo con i vecchi tracciati. Percorrerle è però una passeggiata a cielo aperto in una magica atmosfera che fa rivivere la storia della città dalle origini pisane fino ai giorni nostri, attraverso antichi avanzi testimoni della vita politica, economica e sociale di ciò che una volta era Cagliari.