Su Carilloni: l’antica via dell’amore

Su Carilloni: la via dell’amore

La spettrale quinta dell’intero lato nord dell’attuale piazza Palazzo, un tempo era caratterizzata da due isolati che accoglievano palazzine sobrie ed eleganti che si aprivano, con il loro prospetto signorile, verso le vie Canelles e Martini.

I due blocchi erano separati fra loro da un percorso coperto e piuttosto stretto di origine trecentesca, chiamato all’epoca arco de Callejon, ma più comunemente detto vicus de na Bada (vicolo del male), all’interno del quale erano sorte in maniera spontanea piccole e anguste bicocche che ospitavano uomini di malaffare.

La stradina, buia e umida, aveva il suo principio nell’odierna piazza Palazzo, all’altezza delle scalette che da via Canelles oggi conducono al Palazzo Reale, ma che all’epoca, prima della demolizione del Palazzo dei Marchesi di Sedilo della Planargia, altro non erano che il proseguimento dell’attuale vico II La Marmora.

Il viottolo proseguiva fino a sfociare in ciò che oggi è piazzetta Mafalda di Savoia, superando il vico Pietro Martini e costeggiando a destra il nucleo secentesco del convento di Santa Lucia.

L’ampliamento del Palazzo Manconi-Ballero, porzione che peraltro è ancora visibile, ne chiuse dapprima lo sbocco sul vico Pietro Martini (dove si può tuttora notare la differenza strutturale tra le murature dei due edifici presenti) riducendolo ad una stradina occlusa nel suo lato superiore, mentre nel 1796, la realizzazione della nuova sede delle Regie Poste (Palazzo d’Olives) ne accorciò invece la sua lunghezza a meridione.

La guerra rase al suolo entrambi gli isolati che prospettavano sulla parte alta dell’attuale piazza Palazzo, e la distruzione fu tale che non fu possibile ricostruirne gli edifici. I bombardamenti tagliarono anche gran parte della strada, aprendo in questo modo al sole una grossa fetta di quel “vicolo del male”, che oggi riposa tra i ruderi di alcuni palazzi signorili, e che è conosciuto con il nome di “su Carilloni”, ovvero l’antica calle de Calabraga: la via dove risiedevano, pare, le donne dell’amore felice e a poco prezzo.

Quando si parla dei sobborghi dei quartieri dell’epoca, si deve pensare ad un agglomerato di case che accoglievano principalmente la gente povera, una categoria di indigenti dai compensi spesso non sufficienti a mantenere la famiglia, e che viveva in piccole abitazioni buie e malsane.

Di questo ambiente, caratterizzato dal censo bassissimo, faceva parte anche la donna del popolo, che viveva con un unico intento fin da giovanissima: riuscire a maritarsi per migliorare le sue condizioni di vita. Per tale motivo, fin da quando era piccola, doveva iniziare a mettere insieme una dote, seppure modesta, perché senza quella non poteva sposarsi.

Questo gravame portava al fatto che, fin dalla più tenera età, le bambine del popolo dovessero guadagnarsi da vivere andando a lavorare, e il mestiere di domestica era certamente il più ambito, poiché se si aveva una simile fortuna, il tenore di vita migliorava fin da subito notevolmente.

A volte le fanciulle venivano offerte direttamente dalla famiglia di origine, che non riusciva a provvedere al loro sostentamento. Fin da piccolissime, quindi, erano affidate ai padroni che le accoglievano prima di metterle a lavorare a servizio, le vestivano (seppure con la roba smessa dalle signore della casa), e le nutrivano allo scopo di poter iniziare, verso gli 8 anni, a svolgere le prime mansioni.
Lo stipendio delle bambine veniva versato ai genitori, che ne mettevano via una parte per la futura dote. Andare a servire significava però anche riuscire a farsi il corredo, poiché se la ragazza aveva la fortuna di finire in una famiglia benestante, dove la padrona era solita acquistare vestiti e biancheria di frequente, poteva ricevere in dono la roba usata che era considerata vecchia, ma che di fatto non lo era.

Purtroppo, raggiunta l’adolescenza, le serve erano spesso soggette alle attenzioni dei loro padroni, indistintamente padri e anche figli, e in questo caso, tante volte, le conseguenze erano delle gravidanze indesiderate.

Cacciate dalle case in cui lavoravano come domestiche, e ripudiate dalle famiglie d’origine, se non avevano la fortuna di essere accudite da una mammana o essere accolte all’interno di un’Opera di misericordia,  a molte “peccatrici” non rimaneva che andare a risiedere nel vicus de na Bada, che al tempo iniziava ad essere noto anche come calle dels Bequiters, poiché alle giovani sfortunate, pian piano, si aggiunsero le dee dell’amore, le quali, povere, sole, e spesso con una prole da sfamare, si dedicavano al mestiere più antico del mondo.

Secondo le ordinanze cagliaritane vigenti durante il periodo medievale, qualunque donna libera o peccatrice che, per un motivo o per un altro, avesse consegnato il suo corpo ad un uomo al di fuori del matrimonio, avrebbe dovuto abitare ed esercitare in questa strada in maniera da non sfuggire al controllo civico. Per questo motivo il vicolo iniziò a diventare anche la sede di alcune case di tolleranza, dove gli uomini potevano trovare l’amore facile e a poco prezzo. Un carruggio marchiato di infamia insomma, che con questa ignominia tale rimase almeno fino al ‘700 inoltrato.

Oggi in pochi sembra conoscano questa via, forse perché di lei sono rimasti appena pochi metri, e perché agli occhi di chi si ritrova a camminare per piazza Palazzo c’è solo un ampio spazio vuoto sul quale affacciano i pochi resti degli edifici salvatisi dai bombardamenti, oltre che una desolante rovina.