C’era una volta il Partenone

Prospetto principale del mercato superiore (ph Archivio Storico Comune di Cagliari)

Il mercato è forse la porta d’accesso più autentica all’anima di una città, è un gioioso caos capace di stordire con il suo allegro vociare, è un giro in un verace mondo ammantato di tradizione.

Quello di Cagliari è stato per poco meno di settant’anni l’appuntamento fisso di migliaia di cittadini che non volevano perdersi l’esposizione di gusti, sensi e forme, in un mix genuino di spontaneità e cultura popolare. Ma si sa, la storia di un territorio è anche un avvicendarsi di eventi, e con il passare dei giorni, delle stagioni e delle epoche, molte cose cambiano. Altre, invece, rimangono immutate nei secoli, e sono i colori, gli odori, i profumi, i sapori: autentiche vetrine dove ogni angolo della città prende vita; sono le storie che si tramandano da generazioni; sono le voci, i richiami, le grida, le espressioni gergali intraducibili e insostituibili che caratterizzano peculiarmente questi luoghi rendendoli oltremodo unici, perché da sempre meta di incontri e chiacchiericci, con i banchi colorati di ogni tipo di frutta e verdura e l’aria carica di frenesia.

Prospetto laterale del mercato superiore. La strada oggi è intitolata Via del Mercato Vecchio (ph Mario Pes, 1887-1963)

Durante la seconda metà del XVIII secolo, nello spazio oggi occupato dal monumento dedicato a Carlo Felice comparvero una serie di baracche realizzate in canna. Si trattava dei venditori che fin dal 1200 avevano popolato lo slargo del Balice, ora divenuto proprietà dell’Università, e nelle cui bancarelle, in mezzo agli strepitii, si potevano acquistare fiori, carne, pesce e cereali.

Quella piccola area, che aveva preso il nome di piazza San Carlo, si era però dimostrata fin da subito troppo stretta, incapace di espandersi e di accogliere i nuovi banchi che nel frattempo avevano invaso anche la radura antistante i bastioni della Zecca e dello Sperone, uno spiano successivamente circoscritto da palazzi e ribattezzato poi piazza Costituzione.

Con il trascorrere del tempo, la necessità di dare una regolata a quella fiera caotica era perciò diventata pressante, tanto che, il 14 dicembre 1806, Vittorio Emanuele I stabilì con un decreto regio di unificare e suddividere il disordinato mercato per categorie merceologiche.
Nelle semplici baracche che partivano dal punto dove ora troneggia la statua del re sabaudo doveva avvenire lo smercio della carne; il grano sarebbe stato venduto di fronte alla chiesa del Carmine; il bestiame lungo le mura del Bastione di San Francesco, mentre gli ortaggi e gli altri generi alimentari nell’odierna salita di Santa Chiara.

Per abitudine, o forse solo per pigrizia, i cagliaritani continuavano però ad affollare solo piazza San Carlo, nel frattempo soprannominata dai frequentatori con il nomignolo di piazza dei Cereali, e dunque ai banchi della carne ricominciarono pian piano ad aggiungersi anche altre bancarelle in legno caratterizzate da teloni multicolori che offrivano generi di tutti i tipi.

Nel lato opposto, prende invece avvio una teoria di modeste casette in muratura, destinate ad ospitare stallaggi e nuove attività.
L’insieme di tutti quei piccoli esercizi raggruppati agevolò anche la trasformazione della lunga e polverosa spianata, che in breve tempo diventò un luogo d’incontro esteso e popolato dove affluivano anche acquirenti e venditori dai centri vicini, che allestivano carretti con mercanzie di ogni genere.
Il protagonista del mercato continuava però ad essere il pesce, che arrivava in abbondanza e in tutte le ore del giorno, ma che insieme alla carne macellata davanti ai compratori contribuiva a creare sgradevoli olezzi.

Venditore di limoni

Ignorata la disciplina che avrebbe dovuto riorganizzare gli spazi del commercio, il bazar si era nuovamente trasformato in una fiera all’aperto confusa e maleodorante, dove tuttavia, i cagliaritani del tempo potevano trovare di tutto, dai generi alimentari agli animali da cortile, dalle stoviglie in terracotta al barbiere pronto a tagliare i capelli alle signore e a sbarbare gli uomini.

Quella concentrazione disordinata di baracchine stava però suscitando dubbi negli amministratori civici, tanto che, nel 1832, decisero di dare incarico all’ispettore Giuseppe Vallana di eseguire un’indagine igienico sanitaria.

Il Vallana, generale di Sanità del Regno di Sardegna, durante l’ispezione trovò un mercato in stato deplorevole. L’ambiente era ingombro di spazzatura, era sparito l’ordine merceologico, e le vendite avvenivano alla rinfusa sulle tavole dei banchi sudici, gli stessi che durante la notte venivano poi utilizzati come giaciglio dai mendicanti.
Inoltre, il passaggio inizialmente destinato ai cavalli e ai carri, era ora occupato dai banchi che venivano montati e smontati tutti i giorni dai pescivendoli e dai fruttivendoli, che arrivavano direttamente con le loro ceste di vimini piene di ortaggi e di pesci appena pescati.

Prospetto principale del mercato inferiore (ph Mario Pes, 1887-1963)

Nel frattempo, Cagliari era stata cancellata dal novero delle piazzeforti militari del Regno, e all’abbattimento dei vecchi baluardi e al legittimo bisogno di rinnovamento doveva corrispondere anche l’edificazione di nuovi monumenti che tenessero alta l’immagine della città.

Il mercato, nonostante avesse ormai acquisito il carattere di punto d’incontro dove si comprava, si intrecciavano conversazioni e si cucivano i panni addosso alle persone, non era però all’altezza di quello che doveva divenire un elegante centro urbano.

Nel 1858, la grande confusione e la mancanza di igiene e di servizi indussero quindi l’architetto Gaetano Cima ad escluderlo dal piano regolatore della città, che in quel punto prevedeva anche il disegno di una nuova strada, che in seguito all’erezione nella sua sommità del monumento a Carlo Felice, durante gli anni Sessanta di quello stesso secolo verrà intitolata proprio a quel sovrano sabaudo.

Quei banchetti erano tuttavia divenuti un punto fermo per la città, erano un’attrattiva a cui i cagliaritani non potevano e non volevano rinunciare, così, quando la situazione igienico sanitaria diventò critica e non più sostenibile, l’amministrazione civica decise di bandire un concorso per la costruzione di un nuovo mercato generale, da realizzarsi in sede fissa, coperto, funzionale, e, soprattutto, capace di ospitare i rivenditori di prodotti deperibili, dotandoli di idonei magazzini nei quali conservare la merce per non compromettere la loro salubrità con i continui trasporti.

A metà gara, la commissione giudicatrice preferì però scegliere un elaborato presentato fuori concorso dall’ingegnere Enrico Melis, e per ricavare lo spazio venne rasa al suolo un’area del convento dei padri Agostiniani e una parte residua della cortina muraria della Marina rimasta ancora in piedi.

I lavori iniziarono nel 1882, e il progetto prevedeva la realizzazione di due distinti complessi divisi da una traversa che doveva collegare il nuovo largo Carlo Felice con l’antico borgo della Marina.

Interno mercato inferiore (ph Mario Pes, 1887-1963)

La struttura del mercato fu inaugurata nel 1886, dopo appena quattro anni di lavori, e la passeggiata nel gradevole e frizzante bazar diventò il nuovo rito dei cagliaritani.

L’edificio principale era caratterizzato da una visione frontale formata da tre avancorpi in trachite di Serrenti. Dalla sporgenza centrale, attraversando un ampio arco trionfale impreziosito dallo stemma cittadino, alcune scalinate consentivano di giungere all’interno, che si presentava suddiviso in tre campate, a loro volta ripartite in piccoli ambienti separati fra loro da eleganti colonne in ghisa, sormontate da capitelli di ordine corinzio.
Sorretto da un’alta elegante intelaiatura, le coperture laterali erano realizzate in lamiera, mentre quella centrale era formata da un grande lucernaio (così come il fronte arretrato rispetto all’arco di accesso) che permetteva l’ingresso della luce.

Il complesso era stato destinato principalmente alla rivendita della frutta e della verdura, ma vi erano anche molti banchi per la carne bovina e per i salumi.

Oltre che dal largo Carlo Felice, dove si trovava l’ingresso principale, vi si poteva accedere anche dalla traversa che all’epoca separava i due edifici del mercato.

Il settore inferiore del grande emporio si presentava invece con un porticato a “L”, caratterizzato da quattro colonne realizzate in pietra sarda che davano sul largo Carlo Felice, e ventiquattro colonne in dodici coppie sul lato dell’attuale via del Mercato Vecchio. Realizzate in stile dorico, erano sormontate da un fregio decorato con metope e triglifi che davano all’edificio le sembianze di un tempio greco, e che per questo motivo era stato ribattezzato “Il Partenone”.

L’interno, che era suddiviso in minuscoli chioschi sostenuti da colonnine in ghisa, analoghe a quelle dell’altro edificio, consentiva la vendita di freschissimo pesce, ordinatamente sistemato nei lunghissimi ed ampi banconi di marmo bianco. Era il settore più assortito e pittoresco.
All’esterno, invece, erano in bella mostra le carni ovine ed equine, la cacciagione, i conigli, il pollame, le uova, i formaggi, il pane e i dolci sardi.

Nel sottopiano dell’edificio principale era stata costruita anche una fabbrica del ghiaccio, uno stabilimento di circa 2000 mq che consentiva di evitare le mille difficoltà che ne comportava invece l’importazione. Ne si poteva acquistate un pezzo da portare a casa, ed evitare quindi di riporre i recipienti con gli alimenti sui davanzali delle finestre, un sistema che non sempre funzionava, soprattutto durante l’estate.
Un supporto essenziale fu poi la creazione delle celle frigorifere, di cui si servivano tutti i rivenditori per riporre le merci avanzate al termine della mattinata.

Il mercato mantenne questo ordine solo nella fase iniziale, dopodiché entrambi i fabbricati furono riadattati, e in ciascuno si poteva vendere e acquistare indifferentemente ogni sorta di abbondanza.

Interno mercato inferiore

Fare la spesa quotidiana era una precisa incombenza, quasi una questione d’onore, di cui si facevano carico con orgoglio addirittura i capi famiglia. Quelli abbienti lo frequentavano più generalmente durante le prime ore della mattina, quando vi era più scelta tra i prodotti, a prescindere dai costi. Quelli che intendevano risparmiare si affrettavano invece al momento della chiusura, perché le merci più deperibili venivano vendute a basso costo.

Oltre ai distinti signori, seguiti dalle donne di servizio che camminavano con degli enormi panieri, le più assidue frequentatrici del mercato erano le massaie, munite di sporte all’interno delle quali riponevano gli acquisti.

Le signore della Cagliari più abbiente andavano a fare la spesa accompagnate delle serve, ma si facevano seguire anche dai vispi ragazzini che ciondolavano attorno al mercato portando sul capo delle grandi ceste di paglia intrecciata. Gli enormi piatti venivano riempiti dalle serve con pane, uova, formaggi, prosciutti, verdura, pollame, olive e anche burro fresco. I giovani aiutanti seguivano le signore per tutto il mercato, tra i pescivendoli e le contadine che sedevano dietro la loro merce, rigide nei loro corpetti e nelle voluminose sottane variopinte; tra il verde cupo degli spinaci e i monumentali cavoli bianchi e viola scuro; tra i cesti di mandorle, tra le uova, i peperoni scarlatti e le lunghe cipolle messe in mostra come se fossero delle opere d’arte, fino ad accompagnarle a casa per avere in cambio appena un tozzo di pane o qualche spiccio.

In quella spumeggiante fiera si andava anche solo per chiacchierare, per farsi notare in pubblico con teatrali saluti e frequenti scappellate, perché nella gran folla si potevano incontrare persone d’ogni ceto sociale, oppure si varcava quella soglia semplicemente per gustare i dolci o i saporitissimi frutti di mare.

Per decenni fu un vociare, un pesare, valutare e anche litigare, in un andirivieni indaffarato e incessante, che vide affaccendarsi generazioni di famiglie.

Esterno mercato inferiore

Il mercato sopravvisse alle due guerre mondiali, ma non alla città che cresceva, che si estendeva oltre i quartieri tradizionali e si trasformava.
D’improvviso la struttura sembrava infatti non andare più di pari passo con l’espansione della città, perché dal servizio rimanevano escluse le zone abitate più lontane dal centro storico, e quindi anche i cittadini delle periferie.

A spezzare l’idillio fu però, e in realtà, l’insediamento delle banche nella via, che, secondo alcuni, mal si conciliavano con il pittoresco mercato.

Sorda alle richieste dei cagliaritani, che ne chiedevano una riqualificazione invece che la demolizione, e forte delle necessità logistiche ed economiche, nel 1954 l’amministrazione civica decise senza remore di cedere la superficie dove sorgevano le strutture del brioso mercato a due istituti di credito, da tempo interessati a quell’area per la costruzione delle loro sedi.

Il tempio del commercio al dettaglio, con grande sconcerto per la popolazione, venne quindi velocemente smantellato e demolito lasciando davvero poche tracce, oltre a quelle stampate nella memoria dei cagliaritani, e oggi a ricordarlo è rimasta solo l’intitolazione di via del Mercato Vecchio, un tempo una trafficatissima traversa che separava i due complessi del grande bazar cittadino, ridotta ora ad essere invece solo una strada che dal largo Carlo Felice conduce alla pullulante via Lodovico Baylle.