Piazzetta La Marmora e il portone senza palazzo

Portico delle Grazie

Quando ancora Palazzo Boyl non esisteva, al suo posto correva dritta la cortina pisana, che, dall’antica Torre dell’Elefante a quella della Manayra, era affiancata da un lungo viottolo che ne seguiva lo stesso andamento. Nel punto in cui si erge la Torre del Leone, la massiccia opera muraria veniva interrotta da una delle tre porte che consentivano l’accesso alla cittadella fortificata del XIII secolo, e per tale ragione, lo spiazzo naturale che si era ricreato fungeva da cardine tra le vecchie stradine dell’antico borgo.

Oggi, seppur in un contesto completamente stravolto, quello stesso spiazzo dedicato ad Alberto La Marmora continua ad essere un punto di intersezione fondamentale tra le diverse strade del centro storico del quartiere Castello, anche se, al di là della sua intitolazione, non si è mai posto come luogo di incontro e di socializzazione. Il piccolo slargo non ha aree verdi, non ha panchine e nemmeno punti di sosta, ma è circondato unicamente da palazzi che formano una ridotta corte rettangolare, e che un occhio poco attento quasi nulla può cogliere della storia che si trascinano dietro.

Lo sguardo del passante che attraversa il suggestivo imbocco voltato, che da piazzetta La Marmora consente l’uscita verso via Mario de Candia, viene abitualmente attirato dall’altarino votivo dedicato alla Madonna delle Grazie, senza però soffermarsi sui dettagli, poiché spesso considerati un fenomeno religioso popolare, con scarso valore architettonico o artistico.
Suscitano invece un’ancora più fioca reazione il timpano con lo stemma del marchese di Villacidro, Francesco Lussorio Brondo, e la lastra marmorea dedicata a suo padre Antonio, probabilmente perché la bellezza del portale, unico segno degno veramente di nota di tutta la piazzetta, contrasta con l’essenzialità dell’edificio che lo accoglie, tanto da renderlo, benché nella sua maestosità, meno sensibile alla vista.

Palazzo Zapata

I Brondo appartenevano ad una famiglia di origine maiorchina, presente a Cagliari sin dal XVI secolo.

Il capostipite, Giovanni Gerolamo Brondo, divenne Consigliere Civico nel 1578 e, abile mercante, poté vantare di un cospicuo credito verso alti funzionari del regno che gli consentì di acquisire le ville di Serramanna e di Villacidro, ricevendole in feudo secondo la consuetudine italiana dell’epoca. Morì il 2 novembre 1592 dando inizio ad una dinastia che, attraverso intrecci fra casati e manovre di opportunità, si legherà indissolubilmente con le discendenze dei Ruecas, dei Castelvì e degli Zapata.

Antonio Brondo y de Ruecas, figlio di Tommaso Brondo e di Caterina de Ruecas, alla morte del padre fu riconosciuto nei feudi di Villacidro e di Serramanna, del quale di quest’ultimo, nel 1613, fu fatto conte. Il 5 settembre 1629 Filippo IV innalzò invece la contea di Villacidro a marchesato, e don Antonio Brondo ne diventò il primo marchese.

Sposò donna Francesca Zapata y Zapata, figlia di don Giuseppe Zapata y Cisneros e di donna Eleonora Zapata y de Castelvì, baroni di Las Plassas. Antonio e Francesca ebbero una figlia, alla cui nascita non sopravvisse però donna Francesca, che morì il 17 gennaio 1605.
Il 18 novembre 1612 Antonio sposò in seconde nozze Elena Gualbes y Zuñiga, e morì presumibilmente durante i primi anni Trenta del Seicento, assicurando un destino al marchesato di Villacidro fino alla quinta generazione.

Antonio, nel suo testamento, nominò come unico erede il suo primo figlio maschio, Francesco Lussorio Brondo y Gualbes, nato dalle nozze con Elena. Francesco Lussorio ebbe a sua volta, da donna Faustina di Castelvì de Hijar (figlia di don Paolo de Castelvì e donna Marianna Deyar, marchesi di Cea), diversi figli, ma fu il primogenito Felice ad ereditare i feudi e gli altri beni fino a quel  momento in possesso dei Brondo.

Alla morte di Francesco Lussorio, nel 1646, Felice era ancora troppo piccolo per amministrare le proprietà di famiglia, tanto che fu sua madre a tutelare le ricchezze fino ad allora accumulate dal prestigioso casato. Ma raggiunta finalmente l’età dei sedici anni, e nel frattempo divenuto anche terzo marchese di Villacidro, don Felice Antonio Brondo y de Castelvì, sposò donna Giovanna Crespi di Valdaura, e insieme ebbero una sola figlia, Maria Lodovica.

Alla morte di don Felice, avvenuta nel 1667, Antonio Isidoro Brondo y de Castelvì, fratello del defunto terzo marchese di Villacidro, chiese l’immissione nei feudi e l’attribuzione dei marchesati come più prossimo erede, delegittimando Maria Lodovica. Il Procuratore Reale del Regno di Sardegna, che era allora don Jacopo Artaldo de Castelvì, marchese di Cea, nonché zio di Felice e di Antonio, accolse, senza battere ciglio, la disonesta richiesta, e don Antonio rientrò nel possesso delle proprietà e dei titoli nobiliari della famiglia.

Poco tempo dopo, lo stesso don Antonio Isidoro si ritrovò coinvolto, e poi travolto, dalle vicende legate al duplice omicidio del viceré Camarassa e del marchese di Laconi, don Agostino de Castelvì, e fu costretto a fuggire da Cagliari. Durante la sua latitanza venne colpito dalla proscrizione voluta dal duca di San Germano, don Francesco Tuttavilla, nuovo viceré inviato da Madrid con il compito di fare, se non piena luce su i due delitti, almeno piazza pulita dei congiurati.

Il 23 marzo 1669 venne emesso un bando che invitava i cospiratori a presentarsi davanti al viceré per giustificare il proprio operato, e poiché dopo tre mesi nessuno si fece vivo, il duca emanò la sentenza di morte con la confisca dei beni per tutti i condannati. La sentenza contemplava anche la distruzione delle dimore dei congiurati, sopra le quasi si sarebbe dovuto spargere il sale e apporre lapidi infami.

Epigrafe “a perpetua memoria di infamia” collocata oggi in Via Nicolò Canelles n. 32

Don Antonio Isidoro Brondo y de Castelvì fu condannato a morte con la requisizione di tutti i beni e la demolizione della sua casa.

A salvare il palazzo che era stato fatto costruire nel 1622 da Antonio Brondo y de Ruecas, fu il tempestivo intervento di donna Giovanna Crespi di Valldaura e di Maria Ludovica Brondo y Crespi, rispettivamente moglie e figlia di don Felice Brondo, che ancora ne reclamavano il possesso.

Per far cosa gradita al vicecancelliere d’Aragona, nonno materno di donna Maria Ludovica, il duca di San Germano cancellò l’ordine di demolizione, e trasferì il possesso di tutti i beni feudali e immobiliari legati ai marchesati dei Brondo alla sua erede legittima.

Ma per donna Maria Ludovica la pace non era ancora arrivata, poiché dovette lottare anche contro il fisco che ne contestava i diritti successori e la stessa possibilità di farli propri perché di ramo femminile.

Alla sua morte, avvenuta il 30 ottobre 1697, riuscì ugualmente a succederle il figlio don Cristoforo Crespi Brondo, mentre la casa di famiglia che Maria Ludovica aveva salvato dalla demolizione, passerà in dote a donna Giuseppa Floriana Brondo y de Castelvì (figlia di don Francesco Lussorio Brondo, marchese di Villacidro), maritata l’11 ottobre 1665 a don Giovanni Battista Ignazio Zapata y Tison, sesto barone di Las Plassas e Alcade del Castello di Cagliari.


I baroni Zapata, abili mercanti giunti in Sardegna da Valencia durante il XIV secolo, godettero per lungo tempo del titolo e della preminenza di Cavalieri e Ricos Hombres. La loro storia si intreccia con quella di molte dinastie feudali, grazie alle quali poterono costruire le basi della loro potenza.

La casata nobiliare, a Cagliari, si estinguerà con Lorenzo nel 1946, che fu uomo di spirito e tipico rappresentante di una nobiltà ormai decaduta ed impoverita, e con un titolo che con l’abolizione del sistema feudale ricordava ormai solo una tradizione di famiglia ed eventi passati.

Agli inizi del XVII secolo, Antonio Brondo y de Ruecas fece ristrutturare una vecchia abitazione che si affacciava sull’attuale piazzetta La Marmora, e che era stata realizzata sfruttando un tratto delle vecchie mura pisane. L’edificio venne edificato a sviluppo lineare e senza nessun elemento decorativo o minuzia che potesse renderlo interessante alla vista, apparendo perciò povero e sguarnito. Rendendosi conto di ciò, per supplire alla modestia architettonica dell’esterno, i Brondo commissionarono un imponente portale di marmo sul quale fecero apporre lo stemma di famiglia.

Congegnato come una quinta architettonica la cui fuga prospettica dà ancora particolare risalto anche all’attuale via dei Genovesi, il grandioso ingresso arrivò da Genova nel 1633 e venne fatto incastonare nel palazzo per volontà di Elena Gualbes y Zuñiga poco dopo la morte di Antonio.

Particolare dell’imponente portale marmoreo

Concepito da Francesco Pinna, lo stemma araldico che lo sovrasta è quello del figlio di Elena, Francesco Lussorio, ed è composto dalle armi paterne (Brondo -in alto a sinistra, un albero a due teste, anche se nel palazzo se ne riproduce una sola con benda sulla fronte e Zapata -in basso a sinistra, la loro arma portava 5 stivaletti scaccati d’argento e di nero. In alcuni casi gli stivaletti erano tre, posti due e uno.
Il motto araldico “Huellas Honradas” (orme onorate) si riferiva invece alle orme di tutto rispetto lasciate nella storia degli stivaletti scaccat
i..-
/Ruecas l’ufficialità prevedeva su campo d’argento cinque pallini disposti a croce di Sant’Andrea, mentre nell’effige appaiono 5 teste di moro al posto dei pallini, questo probabilmente in ossequio alla Corona d’Aragona) unite a quelle materne (Gualbes, in alto a destra, e Zuñiga, in basso a destra).

Inserito fra due eleganti e alte colonne doriche rifasciate, attorniate da dadi quadrangolari e terminanti in mascheroni a protomi leonine, il portale è sormontato da un architrave e da un cartiglio recante una lunga iscrizione commemorativa in latino che ne onora Antonio Brondo y de Ruecas:

ANTONIUS BRONDO ET RUECAS / COMES SERRAEMANNAE VETERES ET / ANGUSTAS AEDES IN PALATIU(M) PRODUXIT / ET EREXIT ANNO DOMINI MDCXXII.

Al centro del timpano triangolare spezzato si trova quindi lo stemma marmoreo della famiglia. Ai lati del fregio del portale, sopra le colonne bugnate, risaltano anche due bassorilievi di teste leonine splendidamente intagliate nel marmo, e un leone addormentato in cima allo stemma, a sostegno della corona che oggi appare spezzata.

 

Stemma araldico della famiglia di Francesco Lussorio

Nel 1755, la notizia dell’esclusione dal progetto di un teatro che si sarebbe dovuto realizzare nel nuovo complesso che avrebbe compreso l’Università, il Seminario e nel mezzo un centro culturale (ancora inesistente in città), catturò l’attenzione di Francesco Zapata.

Non ci volle molto perché il barone prendesse la decisione di farlo costruire a sue spese sopra un terreno di sua proprietà, chiuso da un lato dal costone roccioso del Castello e dall’atro dall’appena nata via Università.
Il complesso, che prese inizialmente il nome di “Teatro Las Plassas”, località di provenienza della nobile casata, era contiguo al palazzo dove risiedeva lo stesso Zapata, e divenne in breve tempo il cuore della vita culturale e mondana della città, prima di decadere rapidamente dopo il rientro dei Savoia a Torino.

La gestione e la manutenzione dell’edificio erano però divenuti nel tempo un costo economico notevole da sostenere con i soli fondi privati del barone, pertanto, nel 1831, per volere di Carlo Felice, venne incamerato dal Municipio.
Denominato “Il Civico”, diventò nuovamente protagonista delle serate cagliaritane con gli appuntamenti delle sue stagioni ad alto livello.
Il lungo periodo di abbandono aveva però lasciato il segno, e l’antico teatro fu demolito e ricostruito in tempi brevissimi nel 1836, inglobando altri locali contigui appartenenti alla famiglia Zapata.

Sventrato dalle bombe durante la Seconda Guerra Mondiale, gli spezzoni mortali rasero al suolo anche buona parte dell’attiguo palazzo di proprietà dell’antica famiglia Brondo Zapata, risparmiando provvidenzialmente il bel portale marmoreo.

Ricavato sotto l’antica dimora, vi era anche un lungo cunicolo che, realizzato a ridosso delle scale dell’edificio, in prossimità dell’inizio di via dei Genovesi, giungeva fin sotto il teatro comunale.

Quando risuonò l’allarme, in quella drammatica domenica del 28 febbraio 1943, tutti gli abitanti del palazzo scesero di corsa nel rifugio. Alcuni riuscirono a sistemarsi nel ricovero, altri rimasero nei pressi dei locali sotterranei, sperando che proprio quel giorno le bombe graziassero l’edificio.
Invece gli spezzoni caddero proprio sopra il palazzo, distruggendone un’ala intera, altre seppellirono il teatro. Una bomba fece crollare il muro della cantina, imprigionando gli sfortunati. Rimasero sepolti lì per tre giorni. Le squadre di soccorso, avvisate da altre persone che avevano trovato ricovero nel cunicolo, e che erano potute uscire alla luce, li ritrovarono il mercoledì nel primo pomeriggio.

Dopo la guerra, nonostante i notevoli danni, il palazzo venne rimesso in sesto, ma della struttura originaria rimase purtroppo ben poco. Sulla facciata, a lato della colonna sinistra del portale, venne lasciato, ad imperterrita memoria, un simbolo particolare che voleva ricordare proprio la Seconda Guerra Mondiale.

Lastra marmorea che segnalava l’ingresso del vecchio ambulatorio dei tracomatosi

Si trattava della lettera “I” dell’alfabeto italiano, e indicava la presenza di un piccolo tombino metallico a pavimento, situato sulla strada, appena fuori dal palazzo, che conteneva l’attacco per la manichetta dell’idrante da utilizzarsi in caso di incendio. La figura rappresentava un semplice cerchio pieno di colore bianco con all’interno una “i” di colore nero.
Cagliari è stata pesantemente bombardata dagli aerei anglo-americani, e gli idranti erano quindi indispensabili perché i bombardamenti, effettuati anche sganciando a “grappoli” migliaia di spezzoni incendiari, causavano decine di roghi talvolta difficili da spegnere in un colpo solo.

Nel 2017 Palazzo Zapata subì un nuovo restauro. La facciata continua a ripetere l’essenzialità di un tempo, tanto da continuare ad essere soprannominato con l’epiteto “il portone senza palazzo”.
Il suo interno si presenta invece moderno ma con una chiara povertà compositiva; dell’antico carattere si sono salvati solo pochi muri e alcuni pilastri che non riescono però a far emergere il vissuto di un palazzo che ha alle spalle ben quattro secoli di storia.

E se oramai non rimane più nemmeno il simbolo dell’idrante, nell’ingresso posto a destra dell’antico portale, resiste invece la lastra marmorea che segnalava il vecchio ambulatorio dei tracomatosi, realizzato con i fondi del Regio decreto-legge n. 2202 del 23 ottobre 1919.


A Cagliari sono numerosi i palazzi che hanno dato vita a storie di fantasmi, spiriti e presenze inquietanti che sembrano aggirarsi anche nelle soffitte o nei vecchi sotterranei.

Non meno curiosa delle altre è certamente la leggenda di Palazzo Zapata, storico edificio dove pare che al suo interno abbia vissuto una ragazzina con un’immaginazione incredibile, o almeno così si pensava che fosse.
Secondo una storiella, la fanciulla giurava con frequenza ai genitori di assistere a fenomeno inspiegabili, e di trascorrere il suo tempo in soffitta poiché ai suoi amici era stato impedito di scendere ai piani inferiori dell’edificio.
La giovane era stata vista più volte intrattenersi con compagni di gioco invisibili, ma la cosa non parve strana ai genitori, nonostante il ripetersi continuo di piccoli fenomeni. Il fulcro di tutti gli avvenimenti che accadevano all’interno della casa culminarono però con l’apparizione di un’anziana signora vestita con abiti settecenteschi, che parlò alla ragazzina di un tesoro sepolto sotto il palazzo Zapata.
Alla giovane, la signora affidò il compito di recuperare un baule, nascosto nei sotterranei dell’edificio, che conteneva oggetti preziosi appartenuti alla casata della vecchia.
La ragazzina, spaventata, raccontò della vicenda al padre, che non sembrò mostrare interesse alle parole della figlia. Confidò però l’assurda storia ad un vicino di casa, riferendogli nei particolari la serie di fatti.

Piazzetta La Marmora in una foto scattata durante la seconda metà degli anni Settanta del Novecento dove è ancora presente anche il simbolo dell’idrante

Dal momento della visita dell’anziana signora le apparizioni sembravano essere cessate, finché una notte, in pieno inverno, gli strani fenomeni ripresero con spostamenti di oggetti e tonfi sordi che provenivano dall’interno della camera della fanciulla. La vecchia era tornata, e si manifestava deridendo e urlando che il tesoro ormai aveva preso il volo.
Dopo l’ennesima notte insonne, la ragazzina venne accompagnata dai genitori nel sotterraneo della casa, e attraverso una piccola porta, si incamminarono per lo stretto corridoio fino ad arrivare al posto segnalato.
Nella penombra videro, là dove prima c’era un muro, una nicchia aperta di recente, e tutto intorno i pezzi di tufo della copertura del nascondiglio.
La sorpresa durò poco. La parete era vuota e sul pavimento c’erano i segni di un baule che sembrava essere stato trascinato fino all’ingresso del sotterraneo.
La conclusione amara della storia ebbe un finale ancora più curioso: l’amico del genitore della ragazzina si trasferì, dopo poche settimane, in un più accogliente e ospitale palazzo di Castello. Un tenore di vita che con le poche entrate, non poteva certo essere mantenuto…