La Marina: il respiro del mare
Oggi è una successione continua di salite e discese, e quando si attraversa il borgo non è raro imbattersi in ripide scalette, in portici carichi di grande fascino, e in templi religiosi con il loro bagaglio di memorie e suggestioni. La scia del salino riempie l’aria, e il profumo del mare viene preannunciato dall’apparizione di viste magnifiche che danno sul porto. È un odore semplice che sa di salsedine, di acqua e di buono, e che, mescolato agli schiamazzi, alle voci e ai rumori della vita nel rione, riesce ad aprire i sensi, che hanno la capacità di riportare indietro nel tempo.
È un quartiere certamente antico, abitato fin dall’epoca romana (238 a.C. – 476 d.C.), anche se il primo nucleo dell’odierna Marina inizia a prendere forma solo intorno al 1216.
Ben distinto e al di fuori della cittadella fortificata, sorge ai piedi delle mura del Castello pisano, frapponendosi tra il mare e la parte più alta della città, con una vocazione destinata ad ospitare magazzini e dimore di quanti lavoravano presso il vicino porto. Il primordiale villaggio fungeva infatti da appendice commerciale della più ricca borgata calaritana, allora sede del potere civico, religioso e politico, costituendo il cordone ombelicale con la madre patria Pisa.
Il sobborgo toscano fu presto cinto da mura, porte e bastioni, mentre lo scalo fu difeso e reso funzionale da una palizzata realizzata con pali lignei infissi sul fondale, che impedivano irruzioni improvvise di visitatori non graditi. In seguito, le stesse opere di difesa furono risistemate, demolite, ricostruite o rafforzate dai nuovi dominatori che si sono succeduti nel tempo, e che hanno lasciato, ciascuno, un segno del proprio passaggio.
Durante la prima metà del XIV secolo, a cavallo fra il periodo pisano e quello aragonese, per raccogliere quei castellani di Bonayre che non erano riusciti a trovare posto nel borgo più alto e nobile della città, il quartiere iniziò ad estendersi verso oriente. Poi, pian piano, rassicurati dalle nuove opere di fortificazione, iniziarono a costruirvi la propria dimora anche i numerosi mercanti catalani, portoghesi, biscaglini, fiamminghi, inglesi, siciliani, veneziani, liguri, livornesi e napoletani: il luogo offriva loro ottime garanzie, mentre la vicinanza al porto facilitava le operazioni attinenti al commercio.
Le piccole comunità originarie di terre con le quali Cagliari era stretta da rapporti commerciali ha fatto sì che nel borgo della Marina convivessero pratiche e usi dei diversi territori, forgiandone nel tempo la storia e la fisionomia tanto fisica quanto sociale della sua trama urbana che ancora la caratterizza.
Fin da subito, la Marina ha presentato un preciso profilo insediativo e identitario legato al porto, al quale, anche nei secoli successivi, ha continuato ad essere spazialmente contiguo e fortemente intrecciato; e se prima vi abitavano solo le maestranze addette al suo funzionamento e vi si teneva unicamente il mercato del sale, tra il XVI e il XVII secolo, con il fervore delle attività commerciali e finanziarie, il tessuto professionale e sociale, molto variegato, ne comportò la sua progressiva espansione divenendo anche un quartiere di sarti, calzolai, barbieri, fabbri, falegnami, muratori, spaccapietre, pittori e orafi, che andarono ad aggiungersi ai chirurghi, farmacisti, agricoltori, pastori, pescatori, servi e notai, in un miscuglio eterogeneo eppure al tempo stesso riconoscibile come popolare.
La sua identità commerciale e il fermento che da sempre ha animato il borgo ha subìto una fase di decadenza e degrado solo nel secondo dopoguerra, culminando negli anni Novanta del XX secolo, e accompagnandosi in parallelo ad uno sconfortante decremento della popolazione.
Le mura della Marina hanno costituito durante i secoli un ostacolo all’espansione del quartiere, ma contemporaneamente hanno fissato anche il limite oltre al quale la città non era più tale. La barriera muraria impedì qualunque tipo di intervento, e la demolizione di porte e bastioni previste durante l’Ottocento, che permisero di collegare l’antico borgo con l’esterno, porteranno solo alla realizzazione di grandi arterie lungo i lati esterni del quartiere, e contribuiranno, al contrario, a provocare un ulteriore isolamento e la chiusura che ancora oggi la Marina subisce.
Il suo tracciato, nonostante gli apporti di nuove costruzioni, rimane quello di impronta catalana, con strade strette dove il sole da sempre fatica ad entrare.
Non è difficile perciò individuare e circoscriverne i contorni: a nord la via Giuseppe Manno, oggi come allora, è il punto di raccordo tra i quartieri storici, Castello, Stampace e Villanova; a est e a ovest, il Largo Carlo Felice e il viale Regina Margherita sono due strade di scorrimento dove ancora si concentra buona parte del traffico cittadino, e che, insieme alla via Roma, a sud, sono sorte dove fino alla seconda metà del XIX secolo sorgevano invece i bastioni che racchiudevano l’antico borgo e ne segnavano gli antichi confini.
Nella sua planimetria, che ricorda un quadrilatero, figurano strade perpendicolari che scendono verso il mare, intersecate da altre parallele al porto. Partendo dal mare, un lieve declino segue invece un ripido innalzarsi di quote che, sia in senso longitudinale che in quello trasversale, giungono fino alle pendici del Castello. Le strade, che rispettano una certa regolarità nella parte inferiore, diventano più varie e meno lineari nella parte più alta, e originano raccordi per mezzo di gradinate, disposte ortogonalmente e in parallelo, all’asse della via Roma.
L’unica piazza dell’antico quartiere, quella del Molo, scomparve con la demolizione dei bastioni, e quelle che la toponomastica odierna designano come piazza Dettori, Savoia, Martiri d’Italia, sono in realtà degli slarghi posti per di più in pendenza in cui confluiscono le diverse strade. Soltanto piazza San Sepolcro ha la sua regolarità, ma non è altro che la trasformazione di un antico cimitero in un lastricato pubblico adornato di alberi e panchine.
Oggi la Marina è il primo approdo dei turisti che sbarcano dal porto, è il biglietto da visita della città, un quartiere commerciale e popolare con un reticolato di vie strette, abitazioni umili e palazzi nobiliari sbiaditi, trattorie locali e negozi multietnici dove il passato e il presente convivono.
Definire il quartiere è un’impresa inutile: immigrati, botteghe, negozi di kebab, ristorantini giapponesi, archeologia e cultura sono le tessere di un mosaico suggestivo, un tempo scolorito e ora rianimato grazie ai ritocchi estetici, all’apertura delle sedi dei festival letterali e altre iniziative culturali di ampio respiro che hanno favorito l’inclusione, e che lo hanno trasformato in un luogo simbolo sia per i residenti italiani che per gli immigrati extracomunitari, in particolar modo pakistani, bengalesi e senegalesi.
È dunque una popolazione ancora una volta multietnica quella che anima il quartiere della Marina, che si è ricostituito quando, prima la guerra e poi l’invecchiamento e il decremento dei suoi abitanti, hanno consentito l’arrivo di popolazioni straniere producendo il ricambio di una parte della sua componente umana. La riconfigurazione dei suoi abitanti non ne ha comunque cancellato i tratti distintivi, ma ha anzi permesso al quartiere di conservare la sua identità, pur trasformandosi e riconquistandosi. Certo, di quel vivere dei primi anni del Novecento che caratterizzava il quartiere con il profumo del soffritto e del pane appena sfornato non è rimasto niente, così come sono scomparse le vecchie bottegucce che vendevano mercanzie e prelibatezze di ogni genere. Di loro rimangono solo i ricordi. Da tempo hanno lasciato il posto a piccoli locali di ristoro e a negozietti di cianfrusaglie, che si risvegliano con l’arrivo degli avventori.
Gli elementi di richiamo nel quartiere sono molteplici anche per i turisti, che qui, oltre alle numerose attività ricettive e alle osterie, trovano in quello che può apparire un sobborgo caotico che cerca lentamente si sopravvivere, un luogo carico di storia e di edifici religiosi di diverse epoche con straordinari tesori da riscoprire.
Partendo dalla statua di Carlo Felice, nel largo omonimo, il percorso scende fino ad arrivare in via Sardegna, dove, all’angolo con via Napoli, resistono ancora i pochi resti di quella che era la chiesa di Santa Lucia di Civita. Si trattava di un tempio sorto in prossimità del mare, probabilmente già un secolo prima della fondazione del Castello pisano, che si elevava forse proprio in quella che un tempo era l’antica linea di costa che separava la terra ferma dal litorale. Non si conosce con certezza la data esatta della sua costruzione, ma il nome compare in un documento datato 1119, che annoverava i possedimenti appartenuti fino a quel momento dai monaci di San Vittore di Marsiglia.
Sottoposta ad importanti lavori di ristrutturazione nel corso del Seicento, fu danneggiata non irrimediabilmente durante i bombardamenti del 1943 e demolita nel dopoguerra. Di quello che doveva essere certamente un bellissimo tempio, oggi rimangono solo le rovine delle tre cappelle del lato destro.
Risalendo la via Napoli si arriva invece alla piazza intitolata al Santo Sepolcro, dove chiesa e cripta portano lo stesso nome.
Una vecchia storia popolare racconta che il tempio, dal 1248 al 1331, fosse stato sotto la custodia dell’Ordine dei Cavalieri Templari, che lo custodirono fino alla soppressione della compagnia. Nel 1564, lo stesso edificio religioso passò alla Confraternita dell’Orazione della Morte che, attiva fino al secondo dopoguerra, aveva il compito di dare sepoltura ai meno abbienti. Lo spazio ipogeico e l’area circostante furono infatti utilizzati come cimiteri, che la memoria che si perpetua nei secoli ricorda cosparsi di zolle di terra proveniente dalla chiesa del Santo Sepolcro di Gerusalemme.
A partire dal XIX secolo, il sito iniziò a perdere gradualmente la sua funzione funeraria, per essere, a fine Ottocento, risistemato come piazza. Del cimitero ipogeico, con il tempo, se ne perse il ricordo, fino alla sua riscoperta avvenuta durante gli anni Novanta del secolo successivo.
La piazzetta realizzata in via Giovanni Maria Dettori ospita il prospetto dell’ex chiesa tardo seicentesca di Santa Teresa d’Avila, che, insieme all’ex collegio adiacente, furono di proprietà dei Padri Gesuiti fino al 1848, quando chiesa e casa professa entrarono nelle proprietà del Demanio dello Stato. Il tempio, sconsacrato e persa la sua natura religiosa, prima di essere utilizzato come sala concertistica, fino al dopoguerra ospitò, tra le altre cose, anche l’Archivio di Stato. Tra il 1982 e il 1984, l’interno venne pesantemente rimaneggiato e trasformato in Auditorium Comunale, cancellando ogni segno dei suoi giorni più gloriosi.
Sulle ceneri del Collegio Gesuitico, nel 1852, venne invece istituito il Collegio Reale di Santa Teresa, a cura della Regia Università, che ricomincia a funzionare fino alla riforma della pubblica istruzione.
Con la Legge Casati del 13 novembre 1859 n. 3725, viene istituito il Regio Ginnasio di Santa Teresa che, in base al Regio Decreto del 4 marzo 1865, prende il definitivo nome di Liceo Dettori, un’intitolazione che andava ad omaggiare un personaggio storico, Giovanni Maria Dettori, le cui idee erano state ostacolate proprio dalla Compagnia di Gesù.
Vicolo Collegio conduce in un’area in cui si trovano testimonianze archeologiche e architettoniche di grande interesse, e dove gli scavi condotti hanno riportato alla luce avanzi di epoca romana.
La collegiata di Sant’Eulalia è la storica parrocchia del quartiere e, dall’alto della scalinata che la precede, si presenta con il suo fardello di storia e di arte. Dedicata alla Santa patrona di Barcellona, venne edificata dagli aragonesi qualche anno dopo aver conquistato la città nel 1326.
Poco dopo la vittoria sui pisani, il Regno d’Aragona volle celebrare l’evento innalzando su questo sito una piccola chiesetta che intitolarono Santa Maria della Vittoria dei Catalani. L’edificio religioso rimase però in piedi giusto il tempo di vedere completato il nuovo e solenne tempio che, seppur rimaneggiato, continua a sovrastare l’edificato circostante.
Tra la chiesa e l’attiguo campanile, oggi più che mai, ci si accorge della diversità nello stile, perché diversa è anche la loro origine. Il bel campanile, maestoso, slanciato, a più piani, e con la guglia finale, è il risultato di un’antica torre di guardia, costruita a difesa dell’antico borgo; la chiesa mantiene invece l’antico stile gotico catalano solo negli ambienti interni, poiché, dopo un intervento piuttosto invasivo effettuato durante i primissimi anni del Novecento, oggi presenta solo un semplice prospetto a capanna, con un portale strombato e un rosone in asse non coevi all’epoca della sua edificazione.
Sotto la chiesa si sviluppa un’area archeologica individuata casualmente in occasione dei lavori di riadattamento della sagrestia. Gli scavi, iniziati nel 1990, si sono estesi a coprire tutta l’area sottostante, riportando alla luce un pozzo profondo sedici metri e i resti di un quartiere dell’antica Karalis che all’epoca ebbe grande importanza per la sua vicinanza con il porto. L’elemento di rilievo è una strada lastricata riconducibile al IV secolo d.C., oltre che l’avanzo di un tempietto di chiara età repubblicana.
Via Concezione confluisce nell’ultimo tratto della via Roma, dove trovano affaccio una serie di palazzi porticati che ospitano caffè all’aperto e negozi che si distinguono da quelli interni per il luccichio delle vetrine e la raffinatezza dei prodotti in vendita. Il tratto fronte porto venne inaugurato solo durante la seconda metà dell’Ottocento, poiché l’area attraversata dall’attuale strada era precedentemente occupata dalle mura e dai bastioni del borgo, smantellati in seguito alle disposizioni del Regio Decreto del 31 dicembre 1866, con il quale la città di Cagliari perdeva la sua funzione di piazzaforte militare.
La chiesa di San Francesco di Paola, dedicata al santo compatrono della città, si trova quasi alla fine di questo lungo viale e appartiene all’Ordine dei Minimi, approvato nel 1474 con il nome di Congregazione Eremitica Paolana di San Francesco d’Assisi. Si tratta di un edificio a navata unica, con cappelle laterali, muri in pietrame, volta a botte e copertura a tetto semplice a due falde.
Il suo ingresso è stato realizzato all’interno di un portico, quando, dopo l’abbattimento dei bastioni, anche la chiesa subì onerosi lavori che ne trasformarono l’aspetto. In origine, il tempio si trovava infatti all’interno delle mura fortificate dell’antico borgo marinaro, e una volta cadute le alte muraglie, si riscoprì indietro rispetto alla scenografia che stava ridefinendo la nuova strada. Per tale ragione, si rese opportuna la demolizione del vecchio prospetto seicentesco per ricostruirne uno nuovo, dodici metri più avanti, allungando quindi la chiesa e sistemando un porticato in linea con quello dei nuovi palazzi. Oggi, quella che una volta era stata battezzata con il nome di chiesa di San Francesco al Molo, si ritrova sul limitare inferiore del più moderno quartiere, a pochi metri dal mare.
Poco più avanti si innalza invece il Palazzo del Consiglio Regionale, controversa e contestata architettura risalente agli anni Ottanta del XX secolo. L’imponente struttura occupa un’area ricavata dalla demolizione di un isolato di antiche case del vecchio borgo della Marina.
In via Torino, passando da via Vittorio Porcile, resiste il bel portale d’ingresso dell’ex Albergo la Scala di Ferro, edificato durante la seconda metà dell’Ottocento in stile neogotico sopra lo zoccolo del Bastione di N.S. del Montserrat. Durante i lavori di restauro hanno rivisto la luce numerosi reperti archeologici, e in particolare sono riemerse le vecchie mura di una torre e parte della struttura fortificata conosciuta anche come Bastione dei Morti. Il sito, oltre che essere stato utilizzato come luogo di sepoltura durante il periodo imperiale del dominio di Roma, nel 1850 venne frequentato dalla Compagnia di Artiglieria della Guardia Nazionale per esercitarsi nei pezzi da piazza.
Parzialmente abbattuto e opportunamente adattato, il suo residuato, nel 1869, venne inaugurato come stabilimento di bagni d’acqua calda dall’imprenditore Antonio Cerruti, e nel 1877, completato dall’albergo La Scala di Ferro.
L’ex struttura ricettiva oggi è conosciuta anche con l’epiteto di Castello Setti, dal cognome del suo successivo proprietario, e per via delle due torrette merlate costruite qualche anno più tardi.
Sempre in via Torino, si trova anche il prospetto della chiesa settecentesca di Santa Rosalia, che custodisce le spoglie di San Salvatore da Horta, giunto a Cagliari per sfuggire all’inquisizione spagnola.
Le sacre funzioni vengono officiate dai Frati Minori Osservanti, che ancora adesso risiedono in una parte dell’adiacente convento.
La seconda porzione del cenobio, nel 1867, venne incamerata dal Comando Militare della Sardegna, che ha ancora qui la sua sede principale, mentre il portico confinante, che immette nella via Principe Amedeo, in passato aveva la funzione di collegare le due parti dell’edificio religioso. Caratterizzato da un arco a tutto sesto e da una bella balconata con ringhiera in ferro battuto, accoglie la statua della Vergine Immacolata Concezione, ricordata anche con una scritta che corre lungo la volta che sovrasta il sottopasso. Sul pilastro destro della breve galleria è inserita anche una lapide che invita il passante a rivolgere una preghiera alla Madonna, promettendo, in cambio, un cammino felice.
Nella parte opposta dello stesso portico, all’interno della nicchia collocata al centro, vi è un’altra statua scolpita in pietra che riproduce la Madonna del Porto con il suo Bambinello.
La terza fetta del convento, parzialmente distrutta dagli spezzoni durante la Seconda Guerra Mondiale, negli anni Sessanta del Novecento venne ceduta a privati che vi realizzarono inizialmente un locale commerciale, poi sopraelevato e ridestinato a residenze abitative.
Alla fine della strada, le scalette di Santa Teresa riportano in via Giuseppe Manno, e i pochi passi in discesa conducono alla chiesa dedicata a Sant’Antonio Abate, un piccolo gioiello d’arte sacra incastonato nel cuore di una delle più note passeggiate cagliaritane.
Nel XIV secolo il primitivo tempio fungeva da cappella degli adiacenti ospedaletto e convento, retti allora dai padri agostiniani, mentre l’attuale chiesa eretta durante il XVIII secolo, era parte integrante di un più complesso edificio sanitario che funzionò fino agli anni Cinquanta dell’Ottocento. L’antica casa di cura e l’adiacente convento vennero successivamente ceduti ai privati che riadattano la struttura ricavandone abitazioni e una scuola, poi trasformata in Ostello, mentre il portico che collegava le due zone dell’edificio oggi è una strada pubblica di passaggio.
Le successive scalette che si incontrano in questa strada conducono di nuovo all’interno dell’antico borgo della Marina. La parte destra di via Lodovico Baylle custodisce il piccolo portale della cinquecentesca chiesa di Sant’Agostino nuovo, per la quale, più recentemente, è stato realizzato un ingresso che si affaccia nel largo Carlo Felice. Nell’area sottostante sono ancora presenti i resti di ambienti riferibili a un edificio termale di epoca romana.
Di fianco si innalza infine la facciata della piccola cappella dell’Asilo Marina e Stampace che, nella memoria dei cagliaritani, è ancora il simbolo della città più povera.
Dal 1864 i piani alti dell’edificio accolgono le Figlie di San Vincenzo, ma per oltre un secolo le mura hanno ospitato anche una Scuola dell’Infanzia, accogliendo i bambini della Cagliari più bisognosa del secondo dopoguerra. Il luogo è legato anche al ricordo della venerabile Giuseppina Nicoli, le cui ceneri riposano all’interno della piccola chiesetta.
La traversa sul lato destro della strada, che conduce nel largo Carlo Felice, è intitolata al vecchio mercato civico, demolito completamente durante gli anni Cinquanta del XX secolo.