Via Corte d’Appello: l’antica judería cagliaritana

Via Stretta, l’antica viae del Vy pisana

Chi passeggia in via Corte d’Appello spesso si domanda quale storia possa avere avuto la strada nei secoli passati, perché non mancano, e l’occhio acuto ne coglie in abbondanza, i segni nobilissimi dell’antica grandezza: palazzi dai prospetti in perfetto stile ai lati di stradine ombrose e profonde come trincee, piazzette armoniose che catturano lembi di cielo e di sole, e che, come finestre improvvise, offrono mille scorci paesaggistici di rara bellezza, e poi, chiese dai nomi prestigiosi, eleganti balconcini in ferro battuto, lapidi a ricordo di glorie passate.

Poco più su c’è poi un passaggio che può sembrare appena una strettoia. Umido e ombreggiato, un tempo era la viae del Vy (o Vi) perché era la strada dei depositi e delle botteghe del vino. Adesso invece si chiama via Stretta, e se si allargano le braccia si riescono quasi a toccare i palazzi che si guardano. Come è facile intuire, la strada è lunga e molto stretta, ma anche particolarmente suggestiva perché ospita numerose piante e fiori. L’ideatore di questa iniziativa è stato il professore Giorgio Durli, scomparso nel 2019, che abitava proprio in questa via e che l’ha abbellita nel corso degli anni. Dopo di lui, anche gli altri usci hanno iniziato a riempirsi di piante, di fiori e di colori, tanto che oggi, sono molti i curiosi che vengono a fotografarla. Subì la furia della Seconda Guerra Mondiale, e nel dopoguerra, così ancora negli anni ’70, quando per i ceti più bassi la condizione abitativa di Cagliari era diventata insostenibile, ci fu chi abitò nei suoi sottani: fredde e oscure stanze sotterranee che altrove erano invece già diventate locali commerciali dall’architettura suggestiva.

Via Corte d’Appello

Via Corte d’Appello in origine era solo un viottolo corto e fangoso che permetteva di raggiungere una delle fontane pubbliche del duecentesco borgo del Castrum Calari. L’area, adiacente ad una stretta percorrenza realizzata lungo le più antiche mura pisane, era povera di abitazioni ma attirava la vita quotidiana e sociale delle donne che qui si ritrovavano durante il rito dell’approvvigionamento dell’acqua e il lavaggio dei panni, tra gli schiamazzi dei figli più piccoli attaccati alle sottane, e i versi striduli degli animali da cortile che si mescolavano con la gente. In età pisana era conosciuta con il nome di viae de la Fons (via della Fontana), titolo che l’accompagnerà almeno fino al 1344.

In seguito alla conquista aragonese del Regno di Sardegna, iniziata nel 1323, alcuni ebrei catalani, aragonesi, maiorchini e valenzani, garantiti da speciali esenzioni, seguirono l’armata reale capeggiata dall’infante Alfonso e si trasferirono nell’isola. Stazionarono in un ospicium del castellum di Bonaria finché, una volta espugnato definitivamente il Castrum pisano, e abbandonata la precedente capitale dell’isola, si spostarono nel duecentesco villaggio turrito dove, a partire dal 1341 sono già attestati una piccola colonia ebraica, una sinagoga e un cimitero, individuato in un luogo prospiciente la Porta di San Guglielmo (o Porta dei Cavoli).

L’area scelta dai primi ebrei ispanici fu la strada della Fontana, un luogo che, una volta espulsi gli antichi abitanti toscani, diventò il punto di riferimento della nuova comunità.

Pochi anni dopo, forse perché attirati da nuove possibilità commerciali, o perché avevano aiutato economicamente re Giacomo II d’Aragona nell’impresa di conquista dell’Isola, altre famiglie ebree iniziarono a trasferirsi in Sardegna contribuendo a fondare le base della futura aljama della città di Caller.

Via Corte d’Appello

In poco tempo la via divenne un vero quartiere. La juharia ormai non era più solo la rua de la Fontana perché il breve viottolo pisano era cresciuto, estendendosi ora verso nord fino alle mura difensive del Castello e nelle viuzze laterali, occupando anche la più antica viae del Vy, e sviluppandosi poi a sud sino ad arrivare alla Torre del Leone e in direzione di quella dell’Elefante.

La strada della Fontana, da sempre fulcro dei molteplici eventi architettonici e sociali dalla porzione occidentale del Castrum, una volta divenuta parte integrante del quartiere della giuderia, nel tratto orientato a nord prende il nome di Vicus Iudaeorum, mentre il segmento inferiore dell’odierna via Corte D’Appello diventa rua Leofantis (Elefantis, Helefantis Neapolitareorum), che in quell’epoca andava ancora ad estendersi fino a comprendere anche l’attuale via San Giuseppe.

Lungo la via, attorno allo sterrato della fontana si era invece ricreato un sistema urbano ricco di vicoli minori, le cui denominazioni avevano assunto i nomi dei più ricchi residenti, proprietari in quel tempo di case basse con cortile e botteghe interne.

Prima del loro confinamento forzato, la comunità ebraica cresceva e proliferava in un quartiere vivace che andava continuamente ad estendersi. La loro vita gravitava attorno alla fontana pubblica, realizzata dai pisani agli inizi della seconda metà del ‘200, e da sempre elemento importantissimo nell’economia idrica di una città posta su un colle.
Realizzata in forma di pozzo al centro di un’ampia area, era probabilmente dotata di un sistema di captazione, e disponeva di tre rubinetti collegati ad una cisterna contigua all’acquaio. In seguito, alla fontana, rinominata della Juhiria, erano stati aggiunti anche un mulino e l’abbeveratoio per gli animali destinati a raggiungere il vicino macello.
Adiacente alla vasca, i pisani costruirono anche un campanile a cui diedero il nome di Torre della Fontana, mentre l’area immediatamente esterna a quella dell’Elefante, oggi via Università, veniva già indicata con la denominazione di Balig (Balice) e lì erano presenti il mattatoio e i mercati della carne e del pesce.

Nel Vicus Iudaeorum, gli ebrei, sfruttando parte dello sterrato sopra il quale era ubicata la fontana, realizzarono invece un edificio, di proprietà regia, destinato all’annona. Nella stessa strada prospettavano anche un forno, un bagno pubblico che beneficiava dell’acqua e del calore derivante dalla fornace, e l’ingresso alla sinagoga, elementi che fecero da traino alla concentrazione, al suo interno, di tutte le attività economiche, religiose e familiari della comunità gesuitica.

I nuovi abitanti in poco tempo erano divenuti autorevoli. Gli ebrei si dimostrarono fin da subito gente abile, intelligente ed intraprendente, e difatti divennero mediatori d’affari, banchieri, commercianti. Ebbero l’appalto delle dogane e di alcune saline, e tra essi vi furono anche medici piuttosto valenti. Non mancarono i conciatori di pelli, i fabbri, i sarti e i falegnami. I grossi mercanti furono coinvolti nel commercio internazionale, e molte merci prodotte a Caller venivano spesso imbarcate su grosse navi mercantili che dal porto della Lapola raggiungevano il nord Africa, Napoli, la Sicilia, la Francia e anche l’Aragona.

Via Corte d’Appello

In quegli anni gli ebrei erano sottoposti al controllo degli ufficiali regi, rappresentanti del sovrano in terra sarda, e come il resto della popolazione erano obbligati ad osservare le norme adottate dal governo cittadino, relazionandosi con le autorità locali competenti in materia di tasse e dazi, ordine pubblico e giustizia.
Godevano tuttavia del grande vantaggio di potersi appellare al re per ottenere benefici giuridici e sociali, e durante il 1335 avevano acquisito anche gli stessi privilegi posseduti dagli ebrei di Barcellona: si trattava di poche norme, ma che lasciavano piena autonomia per la gestione interna della comunità, e che andavano a sommarsi all’ulteriore provvedimento del sovrano aragonese che intimava ai consiglieri municipali di non promulgare ordinanze a loro sfavorevoli e di revocare quelle già pubblicate.

Le disposizioni reali di Alfonso IV non ebbero però lungo seguito. Malgrado avessero ancora la protezione della Corona, contraccambiata con il sostegno economico, nei primi anni del Quattrocento i giudei iniziarono ad essere oggetto di provvedimenti ostili: improvvisamente erano stati obbligati ad indossare segni visibili sulle vesti (una rotella di colore diverso dall’abito della grandezza di un coronato d’argento), senza i quali non potevano più circolare all’interno del Castello. Ma si trattava solo di un’ammonizione, perché sarà poi a partire dal 1412, col cambio di dinastia e l’ascesa al trono della casata reale dei Trastamara, che la politica nei confronti degli ebrei residenti nel Regno di Sardegna incomincerà a mutare davvero in maniera radicale.

I territori d’oltremare della Corona d’Aragona, sull’onda delle conversioni forzate divampate in tutta la penisola iberica nel 1391, erano infatti nel pieno della tempesta antigiudaica scatenata dal predicatore Vicent Ferrer, che aveva trovato pieno sostegno da parte dell’antipapa Benedetto XIII e dal nuovo sovrano Ferdinando I detto di el d’Antequera.

Basilica di Santa Croce

Il primo provvedimento che sconvolse la felice esistenza della comunità fu, nel 1413, la creazione della Procurazione reale del Regno di Sardegna, alla cui giurisdizione furono sottoposti tutti gli ebrei dell’isola. Considerati, ora, schiavi del re e proprietà del patrimonio regio, la loro vita iniziò ad essere regolata anche dalle norme dettate dai consiglieri del Castello che, espressione di una classe di ricchi commercianti e trafficanti, non vedevano di buon occhio l’affermarsi delle iniziative commerciali dei temibili ebrei, motivazione ritenuta a suo tempo sufficiente per giustificarne i continui soprusi tesi essenzialmente a limitare la libertà della colonia e a frenarne l’espansione. Il motivo del contrasto, pur mascherandosi dietro le differenze di religione, era invece di natura puramente economica.

Ferdinando d’Antequera emanò le prime 17 ordinanze che prevedevano pesanti limitazioni. Agli ebrei di Caller arrivò il divieto di eseguire pubblicamente lavori durante la domenica o nelle feste di precetto, se non dentro casa e a porte chiuse, e la proibizione di portare qualsiasi merce nei sobborghi, o al contrario, di introdurla all’interno delle mura del Castello. Le nuove norme impedivano il commercio con i cristiani, e non consentivano più di poter abitare al di fuori dalla judaria.
Le donne ebree dovettero rinunciare agli abiti ornati d’oro e di seta, e all’abbigliamento in panno scarlatto o di colore rosso. Per non essere confuse con le cristiane vennero obbligate ad indossare anche lunghi mantelli e a non portare perle, gioielli o altri preziosi.

La chiesa vietò invece ai suoi diocesani di conversare, mangiare, bere e contrarre amicizia con gli ebrei, e di fare coi medesimi contratti di compravendita.

Le imposizioni nei confronti della comunità giudaica testimoniano l’ostentata e, forse per tanti, fastidiosa agiatezza che avevano raggiunto da tempo. La ricchezza delle vesti delle donne era un modo per mostrare la loro forza economica, e poiché non potevano più acquistare case fuori dal ghetto, né tanto meno impiantare botteghe, il denaro finiva nell’acquisto di gioielli e di altri preziosi che gli ebrei sfoggiavano per rivalsa.

Al divieto imposto ai cristiani di frequentare gli ebrei e di non poter più rimanere al loro servizio, seguì, nel 1485, anche un decreto viceregio che impediva agli stessi ebrei di uscire dall’isola, se non per recarsi negli stati della Corona e con la garanzia di rientro in Sardegna.
La motivazione del provvedimento si basava sul fatto che i giudei uscivano dall’isola, senza licenza, per recarsi a Napoli e nelle altre terre che non erano sotto la signoria spagnola, esportando i loro beni con evidente danno per la Corte.
In questa occasione furono tante le famiglie abbienti dell’aljama cagliaritana che abbandonarono Caller, e molte altre avrebbero anticipato la propria partenza nel 1488, a seguito di ulteriori restrizioni, chiaro segno premonitore della tempesta che stava per abbattersi sugli ebrei di tutti i domini spagnoli.

Porticato di raccordo fra i due nuclei dell’ex collegio dei gesuiti

Anticipato di pochi giorni da un discutibile provvedimento con cui l’inquisitore generale Tomás de Torquemada allontanava la comunità giudaica dalla città di Gerona, il decreto del 31 marzo 1492 di Ferdinando II il Cattolico sanciva l’espulsione degli ebrei da tutti i territori della Corona entro la fine del mese di luglio.

Nel Regno di Sardegna il compito di mettere in esecuzione il decreto venne assegnato al viceré Juan Dusay, e fra i motivi addotti per l’espulsione viene contemplata l’usura, considerata la vera causa della distruzione delle attività cristiane.
Il Dusay diede anche l’immediato ordine di apporre alle porte delle case ebraiche le armi reali, affinché un pubblico notaio potesse fare un esatto inventario degli oggetti che i giudei  avevano accumulato. Tutto doveva essere chiuso e sigillato in casse, tranne l’oro, l’argento, i gioielli e i tessuti preziosi. I cristiani avrebbero dovuto invece rendere noti i loro crediti ed essere rimborsati. Quanto restava doveva poi essere restituito agli ebrei che, se non si fosse trattato di beni per i quali la legge vietava l’uscita dal regno, avrebbero potuto caricarli nella stiva delle navi e portarli via dall’isola.

Non tutti gli ebrei sardi scelsero però l’esilio. Molti di loro si convertirono e si trattennero a Caller dove, col tempo, si integrarono col resto della popolazione.

Chiostro del nucleo seicentesco dell’ex collegio dei gesuiti

Nei primissimi anni del 1500, nell’attuale area di Santa Croce, il viceré Juan Dusay realizza un primo intervento a protezione del settore ovest del Castello e le opere che seguiranno, promosse dai gesuiti, sconvolgeranno completamente la trama urbana di tutta la judaria.

Il primo gesuita inviato a Caller dopo la cacciata degli ebrei è identificato nella figura di padre Pietro Spiga, che giunge nel 1557 su richiesta del viceré don Alvaro de Madrigal, dei giudici della Reale Udienza e dei consiglieri della città, che mettono a disposizione della Compagnia di Gesù anche una rendita annua perpetua per la realizzazione di un collegio, fortemente voluto dall’arcivescovo monsignor Antonio Parragues de Castillejo.
Nel 1564 fa seguito una comunità gesuitica che contava di dieci religiosi, ai quali vengono invece affidate le case e gli isolati che erano stati fino al 1492 il cuore pulsante della juharia. Al momento del passaggio, almeno parte delle aree, probabilmente disabitate, risultano infatti già essere di pertinenza della città e dell’arcivescovo, e questo faciliterà certamente il processo di insediamento del primo nucleo gesuita.

I padri loyoliti, in breve tempo, grazie anche ai cospicui lasciti dei numerosi benefattori, riescono ad accrescere il loro patrimonio e pian piano stravolgono l’intera l’area. L’estesa azione di demolizione delle preesistenti proprietà interne alla giuderia si applicherà in più fasi, e l’attuazione del disegno porterà quello spazio ad essere oggetto di un consistente cambio di quota, a imponenti strati di riempimento, e al ri-tracciamento delle strade.
Ad essere cancellata non sarà, quindi, solo la vivacità dell’operosa comunità ebraica, ma anche la sua storia.

Particolare della volta dell’Aula Magna della Facoltà di Architettura

Della juharia, che si caratterizzava per la presenza di numerose stradine che si diramavano intorno alla sinagoga, oggi non esiste più niente. I tracciati odierni non corrispondono infatti più ai sinuosi viottoli e alle traverse disegnate dai pisani nel XIII secolo, o alle rue vissute principalmente dagli aragonesi e dai cagliaritani di origine iberica tra il XIV e il XVI secolo.
Già agli albori del 1500, erano nel frattempo cambiati anche i nomi. La rua Leofantis aveva preso il titolo di ruga de l’Orifany (Heleofantis e poi carrer de Orifanti), il tratto corrispondente alla parte alta dell’odierna via Corte d’Appello diventava Carrer de Santa Creu (nome assegnato poi alla lunga strada creata sui nuovi bastioni occidentali), mentre la rua del Vy prendeva l’intestazione di carrer dels Boters.

Negli anni seguenti, gli architetti Gian Domenico de Verdina e Gavino Crisostomo Cayna, entrambi padri gesuiti, si avvicendarono nell’opera di costruzione del collegio, e contemporaneamente ai lavori del de Verdina, l’ingegnere militare Rocco Capellino procedeva invece a quelli di trasformazione e rafforzamento delle mura pisano-aragonesi, avviate nel 1566 con l’erezione del poderoso bastione di San Giovanni (intitolato poco tempo dopo a Santa Croce). La cinta muraria risultò in quel tratto spostata a valle di una sessantina di metri, e il dislivello fu colmato mediante un imponente terrapieno che ricreava un’area piuttosto ampia proprio in adiacenza alla nascente Casa gesuitica, offrendo ai padri un’insperata possibilità di ampliamento.

Nel 1530 l’antica sinagoga venne inizialmente concessa all’appena istituita Arciconfraternita del Santo Monte di Pietà, i cui membri, esclusivamente di nobile estrazione, avevano non solo il compito di prestare conforto ai condannati a morte, ma anche quello di supplire alle attività di prestito svolte in precedenza dalla comunità ebraica. Il tempio, riconvertito al culto cristiano, divenne parte integrante della struttura ospedaliere della congregazione, ricreata in sostituzione alle competenze sanitarie gesuitiche.

L’Arciconfraternita, agli inizi della seconda metà del ‘500, diede avvio ai lavori per la costruzione di una nuova chiesa che vide però la demolizione appena pochi anni dopo la consacrazione, avvenuta nel 1568. Il tempio aveva inizialmente trovato spazio in un’area addossata alla cortina muraria di fortificazione, e per tale motivo subì l’abbattimento al pari di tante altre proprietà immobiliari presenti in quello spazio.

Colonne dell’atrio loggiato dell’espansione settecentesca dell’ex collegio dei gesuiti

Demolite quindi le vecchie mura difensive, e fedeli al progetto monarchico, la costruzione della terza chiesa di Santa Maria del Santo Monte di Pietà e del primo impianto del collegio gesuitico inaugurano il programma di risistemazione edilizia lungo il versante occidentale del Castello.

Nel 1578 a Callari arrivò padre Giovanni Maria Berbardoni. L’architetto gesuita lavorò al corpo di fabbrica più antico dell’istituto, innalzandolo sull’area precedentemente occupata dalle abitazioni della comunità ebraica, racchiuse in uno stretto isolato rettangolare.
Databile intorno al 1661 e privo di una vera facciata, è attualmente compreso tra la basilica di Santa Croce e il margine orientale della chiesa di Santa Maria del Santo Monte di Pietà. Nel primo piano sono ancora presenti lunghi ambienti voltati a botte, e di particolare interesse riveste l’ampia sala che custodisce alcune pitture novecentesche raffiguranti le allegorie delle arti.

I gesuiti, da sempre impegnati nel campo dell’educazione della gioventù, attraverso i padri Pietro Spiga prima e Baldassarre Pinna poi, organizzarono una rosa di percorsi di studio frequentata da numerosi alunni, specie delle classi più elevate, che sarebbero diventati i leader della società sarda.
La scuola gesuitica stimolò anche la fondazione della prima università di Cagliari, nata con l’intento di permettere ai giovani di completare gli studi in Sardegna. E quando dopo un iter lungo e tormentoso l’ateneo voluto da Filippo IV di Spagna nel 1626 iniziò la sua attività, le prime cattedre furono proprio quelle del collegio di Santa Croce: quattro di teologia e due di filosofia che i padri vi avevano trasferito.

Nel frattempo, le attività culturali all’interno dell’istituto religioso si moltiplicavano e accumulavano ogni giorno nuovi consensi, determinando l’esigenza di strutture più spaziose. Per tale ragione, e per poter ottenere anche la separazione tra le aule scolastiche e la zona di residenza dei padri, poco alla volta, il collegio iniziò ad essere ampliato con l’edificazione di un secondo edificio.

Chiesa di Santa Maria del Santo Monte di Pietà

E fu proprio lo sviluppo del complesso a far apparire piccolo e modesto anche il primitivo tempio di Santa Croce, tanto che ad un certo punto nacque la volontà di una chiesa più grande che andò a sostituire quelli che ancora erano gli ambienti della sinagoga. L’opera fu possibile grazie alla generosità di un’insigne benefattrice del collegio, la nobildonna Anna Brondo dei marchesi di Villacidro.

La nuova chiesa che si era insediata sopra l’antico tempio ebraico, e che ora aveva finalmente anche gli spazi per permettere la sepoltura dei ricchi benefattori, venne realizzata secondo gli schemi propri dell’architettura gesuitica, cominciando dall’orientamento. Dalla direzione est-ovest della sinagoga, la cui entrata principale si affacciava sull’antica via giudaica, si passò a quella sud-nord, con affaccio sull’attuale piazzetta Santa Croce, nata in concomitanza con il nuovo tempio.
L’area intorno allo spiazzo, avrebbe dovuto rappresentare ancora una volta il fulcro per la realizzazione di un sistema di relazioni sociali e architettoniche, partendo proprio dalla nuova chiesa e dall’antica fontana.

Il secondo nucleo del collegio venne invece realizzato dall’architetto piemontese Antonio Felice De Vincenti in un periodo compreso fra il 1725 e il 1773, e fu unito al primo mediante la costruzione di un porticato, quando, nel 1776, si volle creare un corpo edilizio di raccordo tra la stamperia e le sedi giudiziarie sabaude.

Col tempo, i gesuiti riuscirono ad acquisire anche una serie di case e magazzini, con i quali si assicurano gli introiti degli affitti, regolari e duraturi, fino al 1773, data che vede l’espulsione della Compagnia di Gesù dai territori del Regno di Sardegna.

Nell’isolato, oltre alle proprietà private e religiose, non mancavano nemmeno quelle pubbliche, e una fra tante, è certamente la prima sede del Conservatorio delle Orfanelle, un edificio decadente acquistato nel 1764 e ricostruito nel 1776, con il fine di accogliere le povere orfane senza dote. La proprietà assicurava un alloggio alle signorine, il cui sostentamento era garantito dai finanziamenti delle amministrazioni di quartiere e dai lasciti privati.

Durante il Settecento l’area ospitò anche altri istituti di pertinenza municipale, un grande Magazzino di Città, e vari lotti appartenenti all’associazione dei beneficianti del convento mercedario di Bonaria e all’Ospedale Civile.

Particolari in via Corte d’Appello

Colpiti aspramente da un’ondata antigesuitica (sotto accusa per la loro indiscussa potenza acquisita nel tempo, i troppi beni concentrati nelle loro mani, e l’attività di noviziato che toglieva al mondo lavorativo manodopera utile), il 21 luglio 1773 papa Clemente XIV sopprime la Compagnia di Gesù.
Più tardi, tra il 1812 e il 1814, l’ordine viene ricostituito da papa Pio VII, ma la fama dei padri loyoliti aveva ormai perso prestigio, e durante il 1848 vengono nuovamente cacciati via da Cagliari.

La demanializzazione del patrimonio gesuita e la confisca di tutti i loro beni cancellano anche la distribuzione immobiliare che si era ricreata dopo l’abbandono degli ebrei.
Nel 1861, il canonico Giovanni Spano assiste all’obliterazione della duecentesca fontana di Santa Croce, inglobata insieme a parte della piazza e del palazzo dell’annona in un più moderno edificio.
Una cessione a privati di due beni pubblici che porterà alla scomparsa dell’antica fonte e alla riduzione nella sua dimensione della piazza, oggi assolutamente minima e sproporzionata rispetto alla imponente facciata della chiesa. Altre famiglie, appartenenti alle più abbienti casate nobiliari dell’epoca, negli stessi anni promuovono invece il rimodernamento dei rispettivi palazzi, e numerose demolizioni e ricostruzioni portano alla rettifica delle originarie particelle catastali. A vantaggio del palazzo dei conti di Quirra (Palazzo Nieddu), andrà per esempio anche un segmento dell’antica viae del Vy, la cui parte terminale, durante l’Ottocento, verrà inglobata nella proprietà e chiusa da un portale.

Particolari in via Corte d’Appello

Con il passaggio delle proprietà gesuitiche allo stato sabaudo, nel 1809 la chiesa di Santa Croce viene concessa dal re Vittorio Emanuele I all’Ordine Mauriziano.
Il piano terra del nucleo più antico del convento, nel 1776 accoglie invece la Stamperia Reale, che, attiva fino al 1848, deteneva la privativa per la stampa di tutti quei documenti di carattere pubblico con i quali era in uso a quei tempi tenere informata la popolazione.
Andavano quindi in stampa piegoni, editti, manifesti e notifiche. Conseguì anche l’esclusiva per la riproduzione dei libri scolastici, per le circolari universitarie, e negli anni a venire, ottenne perfino una notevole mole di altri lavori tra i quali figuravano le stampe di romanzi, dei libri di poesie, guide e saggi di ogni genere.
Nello stesso luogo si trovava anche la fonderia per la fabbricazione dei caratteri di stampa.

La stamperia rimase in funzione fino al 1848, mentre tra il 1782 e il 1888 i locali ospitarono anche la Cassa di Risparmio e il Monte di Pietà.

La parte più recente dell’istituto accolse invece il Regio Archivio (1776-1849) e il Supremo Magistrato della Reale Udienza, divenendo poi sede della Corte d’Appello che qui vi rimase fino al trasferimento, nel 1940, nel nuovo Palazzo di Giustizia.

Oggi l’ex complesso gesuitico ospita la scuola di Architettura. È ancora suddiviso in due porzioni, unite dal portico settecentesco che copre la parte alta della via Corte d’Appello nel punto in cui sono situati gli ingressi. Nella parte superiore del portale del primo fabbricato, che dà accesso ai locali retrostanti la Basilica di Santa Croce e all’antico chiostro della comunità gesuitica, resiste una epigrafe che ricorda la presenza della Commenda dei Cavalieri dei S.S. Maurizio e Lazzaro. L’antico giardino, dove gravitavano gli spazi di vita e di studio, venne lastricato in tempi più recenti, ma al centro è ancora visibile una botola attraverso la quale si accede ai sottostanti antichi locali mai restaurati.

Via Corte d’Appello

Dalla parte opposta, un antico portale caratterizzato dal trigramma della Compagnia (IHS, sciolta secondo la tradizione latina come Iesus Hominis Salvator) invita invece ad entrare nei luoghi che ospitano la porzione più recente del collegio gesuitico. 
Se si riesce a sbirciare dalla strada, si ha la possibilità di scoprire un chiostro che sembra voler mantenere intatta l’antica suggestione e i silenzi dei suoi tempi più remoti, ma se si ha la fortuna di superare la soglia, il collegio al suo interno custodisce un bellissimo atrio a due livelli che si apre su un cortile definito architettonicamente da campate voltate a crociera, e separate da sottarchi che poggiano su colonne scanalate e fasciate, terminanti con capitelli pensili. Attraverso una porta di semplice fattura, sovrastata da una finestra, si accede ad un altro luminoso cortile adibito a giardino. Due rampe di scale oggi conducono alle aule universitarie, là dove un tempo trovavano invece spazio lo scriptorium, il dormitorio, il refettorio e la sagrestia dei gesuiti.
Di pregio certamente l’Aula Magna, forse un tempo la sala capitolare dei religiosi, con una volta ariosa affrescata con motivi ornamentali e dipinta con monocromie. In prossimità della volta, tre lati del perimetro della sala sono circondati da una antica balaustra. Ma l’ambiente più importante è, forse, l’antico refettorio del collegio, una vasta sala rettangolare con coperture a botte.