Via del Fossario è un cammino antico che si trascina dietro un passato cupo fatto di storie e leggende che affascinano e certe volte spaventano. La strada, che dall’alto domina il versante orientale di Cagliari, vanta però anche di un panorama improvviso: il mare, la laguna, le pianure, i monti, il cielo e i paesi che si abbracciano con la città, da qui sembrano quasi un tutt’uno con la capitale.
Attraversando la via nel corso della giornata, non è raro rimanere abbagliati dal sole che spicca nel cielo blu, e che va a riflettersi sulle facciate dei palazzotti otto-novecenteschi, mentre dopo il tramonto la stessa strada si trasforma in un luogo ideale per scrutare il cielo. Le fiocche luci ondeggianti della sera tramutano il viottolo in una discesa romantica che scivola verso il bastione, dove è però anche possibile fare una sosta per godersi la città illuminata e avvolta nel suo magico silenzio. Via del Fossario è davvero capace di acquistare uno splendore assente durante il giorno, e di trasportare il visitatore in un’atmosfera intrigante e misteriosa allo stesso tempo.
Raggiungerla non è difficile, perché la curiosità porta l’ospite di passaggio ad infilarsi istintivamente nella breve stradina che costeggia i paramenti murari della cattedrale, a sinistra, e della chiesa della Speranza, a destra. Dopodiché, basta semplicemente un’occhiatina perché anche al meno attento diventi subito chiaro che, una volta svoltato l’angolo, la via non sembra più voler portare solo verso il bel varco di accesso laterale del duomo, ma che abbia da offrire molto di più.
La parte alta della via del Fossario è caratterizzata dall’affascinante prospetto dell’antico transetto meridionale della primaziale, risalente ai primi decenni del XIV secolo e chiamato, durante il Seicento, “Porta del Paradiso”, poiché si narra che all’epoca fosse riservato all’ingresso in chiesa dei soli uomini.
Osservandolo, un occhio esperto potrà certamente notare il progressivo passaggio dei costruttori pisani da una sensibilità di tipo romanico ad un espressione gotica, posta in evidenza dal portale ancora architravato, ma in cui gli stipiti hanno ormai assunto l’aspetto di colonne con capitelli classicheggianti, alle quali si affiancano semicolonnine bicrome composte da rocchi di marmo bianco e marmo rosso, ordinatamente alternati.
Sovrasta il tutto un acuto timpano internamente sagomato da lobi ogivali, di stile appunto gotico, decorato con un elegante assemblaggio di marmi antichi e moderni: dai sarcofagi istoriati romani, ai fregi d’ornamentazione classica, fino a una bella statuetta della Madonna con Bambino, di scultore toscano primo trecentesco.
L’eleganza e la grazia di questo primo insieme architettonico si diversifica nel suo complesso dal transetto settentrionale (visibile in questo caso nel corridoio esterno che separa la stessa cattedrale dal Palazzo Arcivescovile) oltre che per la sua composizione, anche per il fatto che, ribattezzato “Porta del Purgatorio”, quest’ultimo era invece riservato all’ingresso in chiesa delle donne.
Il transetto realizzato a nord risulta oggi coronato da archetti pensili a ghiera modanata, risalenti presumibilmente alla fine del XIII secolo, e decorato da varie lastre, originariamente intarsiate. Al centro, in alto, una piastra marmorea reca ancora l’incasso per la croce cosiddetta “pisana” (avente cioè le estremità patenti decorate a globetti), antico stemma della Repubblica dell’Arno. Il portale presenta un arco di scarico a conci bicromi, mentre all’interno della lunetta, sulla sinistra, è custodita invece una formella medio bizantina con figura di grifo del X secolo, proveniente, forse, dallo spoglio dell’antica cattedrale di Santa Igia.
Nei pressi del transetto meridionale, incastonata nell’opera in muratura esterna della primaziale, si può scorgere anche una singolare lapide funeraria pisana, appartenente ad un certo Orlando, speziale o preparatore di medicine con erbe officinali. Il popolino dell’epoca non si rese conto che l’iscrizione della lastra medievale era capovolta, e identificò quindi la falce di luna rappresentata nei versi con una mezzaluna araba, considerandola, con una buona dose di fantasia, come una pietra sepolcrale di un ipotetico San Maometto (Santu Maumma). In realtà, la lapide, finita casualmente nel paramento murario della cattedrale come materiale di spoglio risalente probabilmente al III secolo d.C., apparteneva, forse, a un nobile pisano di nome Orlando, e l’ultima parola del bel fregio, o almeno ciò che resta – Sepulcrum Orlandi Coptoriari – identifica la sua attività di coptoriarius, cioè di speziale.
Svoltando a destra, al fianco del duomo, in una data imprecisata fra il 1255 e il 1312, iniziò a sorgere quello che venne definito come il primordiale impianto dell’attuale Complesso Capitolare. Nei suoi lunghi secoli di vita, l’edificio ha subìto lavori di ampliamento e adeguamento al suo più alto ruolo, ospitando anche le antiche carceri ecclesiastiche (abolite poi nel 1849, quando fu soppresso il foro canonico).
Le carceri divennero famose soprattutto perché al loro interno, oltre ai religiosi, venivano rinchiusi, in attesa della celebrazione del matrimonio, coloro che non sottostavano alle nozze combinate, e i giovani fuggiti da casa che non avevano ottenuto dai genitori il consenso ai matrimoni d’amore.
Il vescovo, fin dall’epoca pisana, nell’esercizio delle sue funzioni veniva coadiuvato dal Capitolo Metropolitano, un organismo che caratterizzava la vita della cattedrale, e i cui membri, che in questi locali avevano la loro sede e vi alloggiavano, partecipavano alle cerimonie e cantavano l’ufficio divino. Il Capitolo Metropolitano, chiamato anche “senato del vescovo”, poiché i componenti, 12 ecclesiastici e 6 beneficianti, in diversi casi previsti dal diritto canonico, ieri come oggi, fungevano da consiglieri del capo diocesi.
Nella fiancata meridionale della chiesa della Speranza poggiava invece l’antico Seminario Arcivescovile (istituito con un decreto da mons. Francesco Perez il 9 dicembre 1576), che era collegato all’edificio del Capitolo mediante un passaggio sospeso che ne scavalcava la via.
L’istituto, dedicato all’istruzione dei religiosi, era conosciuto anche con il nome di Seminario Tridentino, poiché fondato in osservanza delle prescrizioni del Concilio di Trento. Rimase attivo in questo stabile fin quando, nel 1778, il semenzaio (o “vivaio”, nella tradizione della chiesa indica la casa dove si formano i candidati alla vita presbiterale) venne trasferito nell’ambizioso progetto sabaudo realizzato nell’attuale via Università.
All’interno dell’antica struttura integrata nel Capitolo, a partire dal 1834, verrà poi trasferito l’Ospedale di San Francesco di Seles, originariamente sito nell’odierna via Nicolò Canelles.
Si trattava di un modesto ricovero per donne anziane, povere e affette da malattie croniche, e per questo motivo detto anche “Spedaletto delle Incurabili”. L’ammissione era gratuita per le donne nate o domiciliate a Cagliari da almeno dieci anni, tutte le altre avrebbero dovuto corrispondere una mensile anticipata pensione. Retto alcuni anni più tardi da un’apposita commissione nominata con regio decreto del 13 gennaio 1851, rimase in attività fino ai primi anni del Novecento. Sgomberato progressivamente durante gli anni Settanta, gli edifici che oggi affiancano l’antica chiesa della Speranza vennero ceduti a privati, mentre a partire dal 1998, il corpo di fabbrica che aveva invece ospitato il Complesso Capitolare e le carceri, venne recuperato e gradualmente ristrutturato in funzione dell’allestimento di un museo, inaugurato nel 2003, e conosciuto con il nome di “Museo Diocesano del Duomo”.
Il palazzo si eleva su cinque livelli. Il piano superiore presenta un ambiente chiamato “sala delle volte”, e al suo interno è conservata una parete risalente all’impianto trecentesco della cattedrale. La copertura è scandita da una sequenza di volte a crociera costolonate da gemme pendule, dove sono scolpite le figure di alcuni santi e della Vergine. Il piano risulta architettonicamente gemello alla sottostante Sacrestia dei Beneficianti, risalente invece al XVI secolo.
Il museo ospita all’interno delle proprie sale importanti manufatti sacri, oltre che, tra le altre cose, il capolavoro d’arte intitolato “Retablo dei Beneficianti” e il prezioso “Trittico di Clemente VII”, trafugato dalla camera della stessa Sua Santità dal soldato di Barcellona Giovanni Borsena nel 1527.
Nei sotterranei è presente anche una cisterna medievale perfettamente restaurata che custodisce frammenti di antichi fregi, alcuni dei quali di fattura bizantina.
Oggi si sbuca nell’odierna via del Fossario dopo aver attraversato uno scuro porticato che si sviluppa sul lato destro di chi guarda verso la cattedrale. Una volta percorso, ci si ritrova improvvisamente abbagliati dalla luce e catapultati in una strada investita spesso dai venti che le turbano attorno. La via ha l’andamento di un sentiero di montagna, e corre lungo il ciglio della scarpata sovrastante il Terrapieno. Suggestiva, misteriosa e carica di storia, è capace di sorprende chiunque la percorra. Attraversarla in discesa conduce rapidamente verso la terrazza Umberto I del Bastione di Saint Remy, ma durante il suo breve tragitto, riesce a regalare ai passanti anche panorami mozzafiato che contrastano con le evidenti tracce di rovine e di ferite non ancora rimarginate, conseguenza dei bombardamenti americani del 1943.
Durante il periodo della dominazione pisana, protetta naturalmente dal costone roccioso, la strada non fu interessata dalla costruzione di strutture difensive e, priva di edifici e abitazioni, oggi sorti invece su tutto il versante destro della via, e l’uno dirimpetto all’altro nel tratto del primo segmento, aveva la funzione di cimitero. All’interno dello spiazzo in prossimità della casa madre e del primordiale complesso del Capitolo, la terra scura era infatti destinata ad accogliere le fosse dello strato sociale meno abbiente della popolazione. I defunti, interrati all’interno di una cassa, venivano disseminati in maniera disordinata, e poi ricordati con una semplice lapide con ornamenti ridotti all’essenziale per non associare fasto all’austerità della morte.
Il nome della via ha però origini più tarde, e si rifà ad alcune voragini – fossar, in catalano – che si aprivano nella zona oggi compresa fra il portico e il precipizio. Fosse comuni scavate nella dura pietra durante i periodi di peste, avvenuti in particolar modo tra il 1652 e il 1657, quando il morbo falcidiò la popolazione di Cagliari.
Durante il “castigo divino” la gente continuava a morire ogni giorno di più, senza fare distinzione tra donne, uomini e bambini che, data la furia assassina della peste, morivano a pochi giorni di distanza dal contagio. Tra il maggio e il giugno del 1656, i cadaveri delle persone che avevano abitato o difeso l’antica borgata erano diventati talmente numerosi che i monatti a stento riuscirono a seppellirli tutti, ma non più nelle fosse con le bare, bensì cosparsi semplicemente di calce e gettati all’interno di questi enormi pozzi attraverso delle caditoie poste a distanza nella parte superiore della pavimentazione stradale. E fra di loro ci finirono anche numerosi agonizzanti, caricati sui carri ancora prima del decesso.
Adesso quelle fosse sono un luogo di malinconica evocazione, scavate anticamente nella roccia e riscoperte solo di recente, quando di loro si era quasi persa la memoria, poiché chiuse appena sature di terra mista a centinaia di ossa. E se per il timore di un eventuale contagio di peste gli abitanti più scaramantici del XVII secolo evitavano di passare in prossimità della loro imboccatura, adesso i piedi dei passanti le calpestano, spesso ignari, e senza nemmeno sapere che, da una porticina che si trova a sinistra uscendo dal portico (facilmente individuabile in quanto contraddistinta dallo stemma di Francisco d’Esquivel) è ancora possibile accedere ai sotterranei che ospitarono le antiche carceri ecclesiastiche, e soffermarsi dinnanzi a una delle antiche fosse comuni che hanno accolto l’ultimo sonno di migliaia di infelici. Cavità dove sono ancora presenti i resti delle ossa umane, conservate in una sequenza stratigrafica di spoglie, deposte l’una sopra l’altra ben cinque secoli fa.
In epoca più vicina a noi le rimanenti cinque buche sono state ripulite e ricoperte, e sulla la loro superficie è stata realizzata una terrazza dalla quale si può ammirare una vista incredibile sulla città. Nella loggia sopravvive ancora l’apertura di uno dei pozzi dal quale venivano buttati giù i corpi dei cagliaritani morti di peste.
Usciti definitivamente dal buio portico, la via è ancora stretta, ma la luce abbagliante invita il passante ad avvicinarsi in quella che è certamente un’area vittima di un evento drammatico.
Fino al 1943, un altro fabbricato scavalcava la via del Fossario mediante una sottovia che doveva essere una sorta di continuazione del passaggio coperto tuttora esistente. Si trattava del palazzo dei Pes di Villamarina, un edificio con un loggiato a sei archi che con il suo colonnato andava a poggiarsi anche sui resti delle vecchie mura pisane. Il palazzo venne sventrato dalle bombe americane durante la Seconda Guerra Mondiale, e oggi, al suo posto, sono state realizzate una piazzetta dedicata, nel 2019, all’artista ulassese Maria Lai, e un belvedere.
Questo fianco della rocca ha suscitato da sempre paura e superstizione tra gli abitanti del vecchio borgo del Castello, da una parte per via delle leggende e dei racconti che continuano ad essere tramandati, dall’altra, invece, per la storia funesta che la strada ancora si porta dietro. Alcune volte, però, può anche succedere che non tutto quello che si narra nelle leggende è opera di fantasia, e difatti, la “fama nera” di questo viottolo fu confermata da una sciagura avvenuta nel 1747.
All’altra estremità del cammino, cioè nel punto in cui oggi la via del Fossario si affaccia sul Bastione di Santa Caterina, negli anni attorno al 1641 fu eretto un vasto monastero che ospitava le monache domenicane. All’epoca la fabbrica religiosa si estendeva sino alla scarpata e scavalcava la via per mezzo di maliose ampie arcate.
Purtroppo, nel costruire il monastero, non si era tenuto conto di un possibile cedimento della parte rocciosa che affacciava verso il dirupo, e ciò che avvenne nella notte del 27 dicembre 1747, in seguito a un violento temporale, fu una vera disgrazia. Una crepa apertasi nella muraglia rocciosa provocò il crollo dell’ala dell’edificio poggiante sullo strapiombo dove, proprio in quel momento, si trovavano riunite in preghiera numerose monache ed educande. La tremenda sventura causò la morte di 12 suore e 10 convittrici, tutte appartenenti a famiglie dell’aristocrazia cittadina.
Il monastero venne consolidato e restaurato durante gli anni successivi, ma la parte crollata non fu più ricostruita.
Demolito poi nel 1910, nella sua area adesso trova spazio l’elegante complesso delle scuole elementari che ancora onorano il nome della santa senese, mentre la strada continua a conservare un’aura di mistero che ben si è mantenuta nonostante il trascorrere del tempo.