Giovanni Spano la conosceva come via dell’Aquila, mentre in epoca medievale era solo una ripida rampa scavata nella roccia, che, dall’attuale portico delle Grazie, conduceva alla porta dei Due Leoni. Il breve tratto di strada non perse mai le sue linee curve e la pendenza, ma per la vicinanza con il Rettorato e il teatro, durante il Novecento, venne suddivisa idealmente in due porzioni e ribattezzata con i nomi delle vie Università e Mario de Candia.
La sezione che fiancheggia il nuovo Teatro Civico fu intitolata quindi al grande tenore De Candia, un colosso dell’opera romantica per il quale Giuseppe Verdi si scomodò a scrivere la bellissima cabaletta dei “Due Foscari”. Nato in via La Marmora il 17 ottobre 1810, al fronte battesimale della Cattedrale gli furono messi i nomi di Giovanni Matteo ma, di origini nobili, cavaliere e marchese il padre, don Stefano De Candia, contessa la madre, Caterina Grixoni, per via delle sue idee risorgimentali non ebbe vita facile, divenendo forzatamente “esule” in seguito alla sua partecipazione alle insurrezionale per la libertà e unità d’Italia, comportamento non tollerato dal padre, alto ufficiale fedele ai Savoia, che non poteva condividere le scelte mazziniane de figlio.
Giovanni Matteo lasciò Cagliari giovanissimo per entrare nel Collegio Militare di Torino, dove ebbe per compagni Camillo Benso di Cavour e Alfonso La Marmora. Studente modello, memoria prodigiosa, un debole per la storia e le donne, uscì dalla scuola con i gradi di ufficiale. Cominciati per lui i primi incarichi, fu destinato a Genova dove conobbe Giuseppe Mazzini che lo introdusse nella Giovane Italia, alla quale segretamente aderivano alcuni suoi colleghi ufficiali.
L’esilio di Mazzini e l’incarcerazione di Cavour, suscitarono in lui profonda indignazione, che non nascose al padre. Ormai coinvolto nei moti mazziniani, ricevette l’ordine di ritornare immediatamente a Cagliari (Sardegna, terra di punizione!).
Rassegnò le dimissioni, ma non furono accettate. Non gli restò perciò che fuggire. Ricercato, perché traditore, si salvò grazie ad una dama di corte, che per un mese lo tenne nascosto nella propria camera da letto. Imbarcatosi quindi su un peschereccio diretto a Marsiglia, da lì raggiunse Parigi. Nella capitale francese frequentò i salotti cosmopoliti della principessa Belgioioso e della contessa Jarruco, aperti a scrittori, poeti, musicisti, artisti, cantanti, attori e politici. Aveva la passione per il canto, ereditata dalla madre, e nel salotto della Belgioioso si cantava. Il compositore Giacomo Meyerbeer rimase colpito dalla sua voce e gli consigliò di studiare canto. Fu lui il suo primo maestro. Dai grandi attori del tempo, andò invece a lezione di recitazione.
Quando arrivò il momento del debutto, per non dispiacere al padre (quale disonore per un nobile, un figlio cantante!), scelse di calcare le scene con il nome d’arte di Mario, in onore del generale e uomo politico romano di cui ammirava tanto la vita.
Non cantò mai in Italia, dove ritornò solo dopo la realizzazione dell’Unità, ma l’itinerario artistico lo portò in mezza Europa e persino in America, estasiando e meravigliando, con la sua voce pura, dolce, affascinante nelle modulazioni e nelle fioriture, il pubblico di tre generazioni.
Morta la moglie, Giulia Grisi, nel 1869, visse i suoi ultimi anni a Roma, diventata finalmente capitale. Coltivò l’archeologia ed ebbe l’onore di essere più volte ricevuto a Corte. Morì l’11 dicembre del 1883, in ristrettezze economiche. Ai suoi funerali provvide infatti il Governo italiano, che mise a disposizione una corazzata per il trasporto in mare della salma fino a Cagliari, dove fu sepolto nella cappella che lo stesso tenore aveva fatto costruire nel 1844 all’interno del cimitero di Bonaria.
Secondo una memoria del notaio Piras Meloni, custodita nell’archivio del Comune di Cagliari, la nascita in quell’area di un primo teatro risalirebbe al 1626, e venne realizzato all’interno della casa di Antonio Brondo y de Ruecas, meglio conosciuta oggi come Palazzo Zapata. La nota racconta molto poco, ma è chiara quando descrive la sala come un teatro privato, aperto solo alla famiglia e a una ristretta cerchia di nobili castellani dell’epoca.
Le prime rappresentazioni sceniche di cui si abbia notizia a Cagliari in età moderna si svolgevano infatti nel Palazzo Reale e nelle piazze cittadine. Durante la seconda metà del Settecento, venne poi adibita anche una grande sala dell’antica caserma dell’Armata Sarda, riservata alla nobiltà cagliaritana. Il salone, volgarmente conosciuto come “Teatro dell’Università”, si presentava con una pianta rettangolare che poteva ospitare circa trecento spettatori, e fece il suo debutto in occasione delle nozze dell’erede al trono Vittorio Amedeo III con l’Infanta di Spagna, Maria Antonia Ferdinanda, il 31 maggio 1750.
Undici anni più tardi, nel 1761, con la riforma dello “Studio Generale” promossa dal ministro Giovanni Battista Lorenzo Bogino, che mirava a rifondare le due università sarde di Sassari e Cagliari, si progettò la realizzazione di un complesso nella capitale del Regno di Sardegna che avrebbe dovuto comprendere un ateneo universitario, un seminario e, nel mezzo, un centro culturale. Il progetto, che portava la firma dell’ingegnere militare Saverio Belgrano di Famolasco, venne però respinto dal governo di Torino, finché, rimodulato, si arrivò all’esclusione della sala artistica.
L’estromissione attirò l’attenzione del barone Francesco Zapata y Las Plassas che, tra il 1764 e il 1766, modificandone l’originale progetto, fece costruire l’edificio con mezzi propri su una superficie che apparteneva allo stesso barone, contigua al palazzo in cui dimorava, e che si allungava tra le attuali vie Genovesi e Università.
Il Teatro Las Plassas, conosciuto anche come Teatro Regio, poiché negli Zapata, appartenenti ad una delle più illustri famiglie del Regno d’Aragona, scorreva sangue reale, entrò in funzione il 10 febbraio 1770, e benché fossero agiati a sufficienza da potersi permettere la proprietà di un teatro, riuscirono ad offrire non più di tre ordini di palchi e un loggione.
Il Regio, che poteva accogliere circa seicento spettatori, divenne presto il centro della mondanità cittadina varando un’intensa programmazione di opere liriche, commedie e balletti.
Non bastava però aver costruito un teatro, importava anche assicurarsi una clientela pagante, e all’epoca non si facevano buoni affari poiché, oltre a dover fare i conti con le tristi condizioni economiche in cui ristagnava la Sardegna, tanti erano anche quelli che, per via del ruolo che ricoprivano, pretendevano l’ingresso gratuito. Il barone doveva inoltre fare i conti anche con il fatto che, chiuse nella notte le porte per accedere al Castello, nella rocca potevano sbadigliare soltanto i residenti del borgo. Il teatro tentava perciò solo coloro che non sapevano deve passare le serate, e si accontentavano di assistere a magri spettacoli, tra l’altro anche magramente remunerati.
Dopo il fallito attacco francese contro Cagliari (fine 1792 – inizi 1793), l’attività si contrasse, riuscendo ad offrire solo balli e prosa.
Gli introiti iniziavano ad abbassarsi, e a gravare di più sul bilancio contribuì anche la Carta Reale fatta uscire dal sovrano nel 1774, con la quale si stabilivano le norme da mantenere all’interno del teatro cagliaritano.
Si richiedeva il buon ordine, così come doveva avvenire in ogni pubblica ordinanza, ma si ribadivano anche l’ingresso gratuito e il palco riservato al viceré, ai membri della famiglia del viceré, all’aiutante di campo, al gentiluomo della Camera, ai paggi, al capitano e al tenente degli alabardieri che scortavano il vice sovrano.
Un altro spazio separato doveva poi essere destinato gratuitamente anche alla livrea dello stesso viceré e, settimanalmente, una sera per ciascuno, ai sottosegretari di Stato. Identico privilegio doveva essere riservato al generale delle armi, che poteva portare con sé due domestici. Mentre doveva essere garantito un prezzo più basso a tutti gli ufficiali di guarnigione.
La scelta dei palchi di primo e di secondo ordine, per tutti gli altri, sarebbe dovuta invece avvenire attraverso un sorteggio, nonostante il disappunto delle famiglie delle dame, poiché le richieste da parte dei nobili superavano quelle dei palchi a disposizione. Infine, la Carta vietava anche di entrare in teatro accompagnati da torce accese, e l’introduzione degli scaldini, considerati la prima causa d’incendio in una struttura realizzata per buona parte in legno.
I rivolgimenti politici, a cui aveva dato origine in quasi tutta l’Europa la Rivoluzione Francese, aveva pian piano calmato l’ardore per i sorteggi dei palchi, che iniziavano a rimanere vuoti. L’attacco a Cagliari non era andato a buon fine, ma la preoccupazione di difendere l’isola contro un’altra invasione prese il sopravvento. Il teatro era passato in ultima linea e nessun documento accenna alle sorti del Las Plassas fino al 1804.
Nel suo massimo languore, non riuscendo più a sostenere le spese da solo, il barone Zapata, sostenuto da altri sei nobili (cav. Lepori, cav. Laconi, cav. Ripoll, il marchese di San Tommaso, il cav. De Cizi e il marchese di Samassi) decide di fondare la “Società dei Cavalieri”, con l’obiettivo di assicurare stagioni di buon livello.
Moltiplicatesi le occasioni mondane dovute soprattutto all’arrivo della Corte sabauda in città, il Regio, debitamente restaurato, riapre le sue porte. In programma, spettacoli lirici e di prosa a cui, spesso, prendendo posto nel palco reale, assistono anche i componenti della famiglia del sovrano.
Nonostante l’euforia, le finanze continuavano tuttavia a rappresentare un motivo di costante preoccupazione, gli incassi erano sempre più bassi, chi si esibiva nel teatro non veniva pagato e chi vantava crediti non veniva saldato. I reclami contro gli avidi cavalieri fioccavano da tutte le parti, tanto che nei successivi sei anni nessuna compagnia si presentò più a chiedere il Las Plassas.
Il 25 marzo del 1810, Vittorio Emanuele I risollevò la questione del teatro. La Segreteria di Stato esprimeva al sovrano il convincimento della inutilità di ripetere la costituzione di una nuova società, simile a quella di sei anni prima, e nemmeno i propositi di svariate concessioni e tutele riuscirono a preservare la fama del Regio Teatro dalla sfiducia generale.
Tra un fallimento e l’altro degli impresari delle varie compagnie che avevano tentato di contribuire alla sua rinascita, nel gennaio del 1820, il reggente cav. Raiberti, il generale delle armi Roero, Melis capo giurato del municipio, ed il maggiore di piazza, Sini, si rivolsero al viceré per invitarlo ad una riflessione. Il pietoso appello non rimase inascoltato e fu subito indetto un congresso al quale, oltre ai quattro gentiluomini, si presentarono anche il conte di Villamar, il marchese della Planargia, il consigliere di città Massa, e i negozianti Nossardi e Onnis. Spinti da un sentimento d’umanità, oltre che dal buonsenso, si unirono per salvare il Regio.
Lo squallore economico che aveva risucchiato il Castello, accentuatosi durante la presenza della Corte sabauda nell’isola, era superiore all’audacia degli intraprendenti gentiluomini, ma nonostante tutto, nel 1824 si riuscì comunque a costituire una commissione speciale composta dal marchese di San Vittorio, dal marchese Zapata, dal cav. don Carlo Boyl, colonello e vice ispettore d’artiglieria, del cav. don Giuseppe Amat di San Filippo, del conte di Sant’Elena, e dal commendatore D. Pietro Cossu Cossu, i quali non avrebbero apportato sussidi di capitali, ma si offrivano, con i loro nomi a garantire il ritorno in teatro dei nobili paganti.
Gli impresari delle compagnie di prosa non si fecero attendere, ma si ritrovarono dinnanzi alla più triste delle prospettive: buona parte dei palchi vuoti, platea mai affollata, a motivo della penuria di denaro fra gli abitanti del castello. Nemmeno la cassa del Monte di riscatto riuscì nell’impresa, e in breve tempo il teatro non sfuggì ad una nuova chiusura.
Richiamato a Torino ai primi del 1828, per prestare servizio di paggio presso il re Carlo Felice, Carlo Pio Boyl si insinuò nell’animo del sovrano fino ad indurlo a prendere a cuore la triste sorte riservata al teatro cagliaritano. La causa che avrebbe portato presto il Regio ad una morte certa, secondo il Boyl, sarebbe stata la pigione elevata pretesa dalla famiglia Zapata, dramma che si sarebbe potuto evitare autorizzando il municipio alla stipula del contratto per l’acquisto del teatro.
L’Amministrazione civica non aveva però mai fatto accenno ad una volontà di interessamento, e chi aveva realmente desiderato l’agognata cessione erano stati il Boyl, deciso a qualunque costo a far riaprire il teatro, e il suo proprietario, il barone Zapata, che non disponeva dei mezzi necessari per fare urgenti riparazioni, senza le quali sarebbe stato vano il tentativo di ulteriori spettacoli.
Guadagnato il favore di Carlo felice, il municipio si ostinava invece a non volerne sapere.
Patrizio, militare, direttore del palcoscenico e assiduo frequentatore del teatro, il suo animo ribolliva all’idea di una ritirata umiliante. Volle e seppe volere, raggruppando tutti gli interessi che si assiepavano intorno al silenzioso edificio. Si proccurò alleati dappertutto, perfino nella Reale Udienza, tanto che riuscì a far scendere nel campo della polemica anche un magistrato in procinto di divenire reggente della Reale Cancelleria. Ma se il Boyl fu un valente schermitore, non meno destri di lui si rivelarono i reggenti del Palazzo di Città. Ad ogni botta, pronta una parata, finché l’influenza dell’ispettore d’artiglieria fece sì che il municipio si mettesse in contatto con il barone Zapata per iniziare le trattative di cessione del Regio Las Plassas.
Alla fine della stagione estiva del 1829, nonostante le trattative non fossero state ancora concluse, Carlo Boyl, quasi a ribadire che il teatro era vivo, fece riaprire il Regio con spettacoli di musica. Il magistrato civico, nel frattempo, continuava a temporeggiare, sostenendo di non voler caricare di un peso tanto insopportabile l’Amministrazione comunale. Il sostentamento del teatro sarebbe stato piuttosto dispendioso, e le richieste e le pretese del barone Zapata sconsiderate per un fabbricato decadente e in rovina.
Il sovrano, a Torino, iniziava a spazientirsi. La furia dei venti contrari giunsero al magistrato civico che interpellò immediatamente il Carbonazzi, al quale fece richiesta di un estimo. Per la Giunta comunale, visti i numerosi lavori da eseguire, era necessario mettere nel piatto della trattativa anche la possibilità di edificare sull’area un nuovo teatro, piuttosto che una più costosa risistemazione del vecchio, soluzione per le casse civiche più conveniente.
Le proposte di nuove clausole per il negoziato finirono però sotto gli occhi del Boyl, che si precipitò subito a scrivere una nota al re. Lo stesso biglietto arrivò anche al cav Tommaso Geranzani, giudice della Reale Udienza e grande amico del Boyl, che minacciò il reggente civico di rendere pubblico, oltre lo sperpero del denaro pubblico, anche le gratificazioni, che andavano avanti da anni, largite sottobanco dal Consiglio ai suoi membri, se non avessero portato a termine entro l’anno le trattative per l’acquisto del Regio.
Così facendo, non bastava che il municipio provvedesse allo spasso dei Signori, lo si voleva costringere anche a pagarne i debiti.
Con l’avvento di Carlo Alberto, il 16 maggio 1831, come se si fosse trattato di un nuovo e volontario negoziato, fra il rappresentante della Città di Cagliari e il barone de Las Plassas, don Efisio Luigi Spiga Zapata Brondo, venne sottoscritto un compromesso che stabiliva finalmente la cessione del teatro.
Il municipio incamerò il Regio, che assunse automaticamente la denominazione di Teatro Civico; compensò il barone con una vigna a breve distanza dalla città, contigua a quella della stessa famiglia Zapata; rimborsò il Monte granatico e pagò l’antico debito nei confronti degli eredi Belgrano, poiché il costruttore, morì senza essere saldato dei suoi averi. A conguaglio, al barone veniva attribuito anche il diritto vitalizio di usufruire di un palco per sé, la moglie ed i figli, e per la moglie ed i figli del primogenito fino alla morte di quest’ultimo.
Il Teatro Civico aprì per la prima volta le sue porte. Con gli spettacoli ritornarono i sorteggi per i palchi, si ridestarono le vecchie velleità fra le dame, le richieste di privilegio, ed un nuovo Regio regolamento. La sala appariva gremita, ma evidenziava i suoi limiti. Necessitava di un urgente e dispendioso intervento e, pressato da difficoltà di cassa, il municipio oscillava tra due soluzioni: un radicale restauro e la riedificazione di un nuovo locale.
Si iniziò con una serie di lavori strettamente necessari alla solidità dell’edificio e alla sicurezza degli spettatori; si assisteva a demolizioni di logge e a ricostruzioni, ma soprattutto a barriere che cadevano e ad altre che venivano rialzate a distanza del vecchio muro meridionale del teatro.
Accortisi del ristringimento della contrada, da Torino arrivò una richiesta di chiarimenti, nonostante sapessero tutti che si stava intervenendo per una riedificazione del teatro, la cui esecuzione costava meno di una ristrutturazione.
Tutto ciò andò bene finché le opere vennero eseguite in economia e senza la formalità degli incanti per mezzo di un impresario, tutto precipitò invece quando la faccenda della ricostruzione diventò pubblica, poiché iniziarono a scalpitare, col libero concorso, i molti aspiranti all’impresa, tanto che, per presiedere ai successivi appalti, fu necessario nominare un Regio delegato.
Nel 1834, con la stagione del Carnevale ancora in corso, mastro Vittorio Fogu di Sassari si aggiudicò i lavori di costruzione del Civico. Durante la seconda settimana di febbraio, incominciarono le operazioni di trasferimento dei teloni e degli attrezzi dell’ormai tramontato teatro Las Plassas all’interno di un magazzino preso in affitto in via Santa Croce, mentre il 25 dello stesso mese fu dato il primo colpo del piccone demolitore.
Il Cominotti, che aveva dato avvio agli smantellamenti e alle prime ricostruzioni, venne sostituito da Gaetano Cima, l’unico architetto che in mezzo al barocchismo soffocante di tutti gli edifici pubblici e privati di Cagliari, tenesse ancora in onore la purezza delle linee e la semplicità dello stile.
L’inaugurazione del nuovo edificio sarebbe dovuta avvenire il 2 ottobre 1836, ma la febbrile attività non era stata evidentemente abbastanza a garantire la completa ricostruzione del teatro, e il maestoso lampadario del Civico non poté che essere ammirato solo nel gennaio del 1838.
Il pubblico, facendo il suo ingresso in platea, rimase abbagliato. Le macchie d’olio che per decenni avevano fatto le veci di rabeschi non c’erano più, al loro posto c’era invece una sala molto elegante e ricca di decorazioni in stucco dorato su fondo bianco, linda e luccicante come una moneta di zecca. Il nuovo Civico poteva contare di circa 1000 posti, distribuiti tra la platea e i quattro ordini di palchi, assegnati, come era costume a quei tempi, alla nobiltà.
Andarono in scena numerosissime opere, composte dai più celebri autori: Verdi, Rossini, Donizetti, Wagner.. quindi tanta musica, ma anche prosa e balletti.
Stava andando tutto per il meglio, finché, nel luglio del 1839, Lodovico Chini, direttore e capo di una compagnia drammatica, aprì un teatro diurno, in legno, nell’area dell’Osteria del Peso, di pertinenza del signor Antioco Meloni. Il popolino vi affluì numeroso, e con esso, anche tantissimi professionisti e commercianti, abituali frequentatori del Civico.
Appellarsi all’articolo del Regio regolamento, che proibiva le rappresentazioni nelle ore destinate agli spettacoli del Civico, non servì a niente. Il teatro diurno era sempre più affollato, mentre gli spettatori del Civico, che era notturno, continuavano a ridursi giorno dopo giorno.
Giunto al limite della sopportazione, il sovrano, infastidito anche dal fatto che nemmeno l’auspicata conciliazione fra i due contendenti fosse andata a buon fine, decise di concedere al Chini la licenza per sole 8 recite, e la corresponsione all’impresario del Civico di un quinto dei suoi incassi giornalieri. Ciò mandò in malora il teatro diurno e costrinse il Chini a lasciare la Sardegna.
Il Civico, personificato dal Boyl, per contrastare la riapertura del diurno, iniziò ad apportare notevoli migliorie all’orchestra, promosse aperture straordinarie della sala, e reclutò valenti compagnie di prosa.
Ciò però non bastò, perché durante l’estate del 1848, il diurno riuscì a riaprire con una compagnia di prosa poco dispendiosa e composta da giovani intraprendenti che coltivavano la passione per la letteratura.
Il gruppetto di letterati si rivelò appetitoso anche per il Boyl che, in cambio di denaro e notorietà, riuscì a farli esibire al Civico, trascinando anche il pubblico più giovane che non aveva mai avuto.
L’entusiasmo era tanto, il teatro realizzato sulla rocca del Castello aveva finalmente iniziato ad ingranare. Il Civico per la prima volta era immune da perdite, era florido ed eccitava i cagliaritani.
Il 16 settembre 1849, però, il colpo di scena, il viceré notificò al luogotenente generale conte don Carlo Pilo Boyl, al colonello cav. don Francesco Roych e al conte don Efisio Cao di San Marco, che intendeva far cessare di esistere l’antica direzione teatrale, e che era suo desiderio affidare la sorveglianza degli spettacoli al sindaco.
Non trascorse molto tempo da quella decisione. Le stagioni dell’opera organizzate dal Teatro Civico avevano ricominciato a scontentare il pubblico per la scarsa qualità degli spettacoli, mentre nei libri contabili erano riapparsi pesanti passivi. Tra fischi, fughe e dimissioni, furti di vestiario e spartiti, le cose volgevano al peggio e l’impresario del Civico fu dichiarato fallito. A sostituire il Lazzani fu chiamato il Varsi che, esaurita la sua deludente missione, fu a sua volta cacciato via.
Infastidito da ciò, il Varsi riuscì a trovare una quarantina di soci finanziatori e per ripicca riaprì il popolare teatro diurno di Porta Villanova. Ma le compagnie artistiche costavano, le novità erano poche, e i drammi e le farse erano di scarsa qualità.
Da più parti si chiedeva l’apertura di una nuova sala, più capiente e soprattutto capace di offrire una prosa di un livello superiore rispetto a ciò che in quel periodo si riusciva a mandare in scene.
Nel 1858, l’ingegnere biellese Antonio Cerruti, stuzzicato dal Chini, fece erigere un teatro oltre le mura orientali della Marina, ribattezzandolo “Nuovo teatro diurno di Porta Villanova”. L’Amministrazione civica tentò di ostacolarlo, diffondendo voci allarmanti sulla sua sicurezza, ma i controlli effettuati fugarono le preoccupazioni e il teatro poté essere inaugurato il 14 luglio 1859.
Il sindaco non era stato in grado di bloccare la nascita dei nuovi palchi in città e questo determinò l’ennesima fuga dei cagliaritani dal Civico, che ormai non aveva nemmeno più il monopolio sugli spettacoli notturni.
Dieci anni più tardi, con una nuova veste, e soprattutto una copertura mobile che gli consentiva un’agibilità estesa a tutte le stagioni, il nuovo diurno adottò il nome del suo proprietario, divenendo Teatro Cerruti, e ospitò prosa, lirica, varietà e anche spettacoli circensi.
Il Civico, nonostante avesse apportato tutte le migliorie e strategie possibili, andava quasi deserto, mentre il Cerruti, che poteva contare sui quartieri della Marina, di Villanova e di Stampace, riusciva a convogliare sciami di spettatori, tanto che chi non trovava posto nella sala o nella galleria, si accontentava di trascorrere le ore mangiando nei buffet. La Cagliari bancaria, industriale, forense e commerciale era tutta radunata lì, mentre il Civico aumentava il passivo ai danni del municipio.
Nel 1878, a distanza di un mese, morirono Vittorio Emanuele II e Pio IX, coinvolgendo nel lutto anche gli ultimi nobili frequentatori del Civico.
Alla fine dell’anno, nessuno aveva presentato l’offerta per la gestione del teatro e in pochi avevano aderito all’acquisto dei palchi.
Tra aperture e chiusure, il teatro minacciava la rovina. Non poteva essere venduto, poiché l’articolo 16 della Carta Reale lo impediva, e né tanto meno poteva essere destinato ad altro uso, perché l’edificio era stato acquistato senza fine di lucro, e pertanto avrebbe perso lo scopo per il quale era stato incamerato.
L’Amministrazione civica non riusciva più a provvedere alla sua manutenzione e nemmeno alle spese annuali. Per alleggerire la situazione economica in cui versava rimaneva solo la possibilità di sciogliere i contratti con i proprietari dei palchi e di venire meno all’impegno preso con l’impresario che aveva avuto il coraggio di prenderlo in gestione.
Nel 1887, però, arrivò la notizia di un rovinoso incendio che si era manifestato in un teatro di Vienna, mietendo numerose vittime. L’epidemia di disastri che stava colpendo i palchi per colpa della luce di Drummond aveva portato il panico, tanto che i teatri d’Europa si unirono per far sì che diventasse obbligatorio per tutti sostituire il gas con la lampada ad arco.
Il disastrato Civico di Cagliari non riuscì ad allinearsi per mancanza di fondi, e l’autorità politica ne ordinò l’immediata chiusura. L’incendio del teatro di Vienna aveva liberato per sempre il municipio dal cilicio che gli proveniva dal Teatro Civico. O almeno questa era la speranza.
Le elezioni amministrative erano imminenti, e don Cao-Pinna, che ambiva ai suffragi di Castello, pensò bene di portare la luce elettrica anche nel Civico, impegnando nelle spese dell’impianto anche i proprietari dei palchi delusi per la chiusura e lo stesso municipio. Tuttavia, la luce elettrica andava e veniva, lasciando spesso al buio gli attori nel meglio delle loro esibizioni. Le tenebre persistevano, era necessario un nuovo teatro, più spazioso, più moderno e con la luce elettrica che funzionasse; il nuovo sindaco Bacaredda aveva però già impegnato tutte le risorse disponibili nel nuovo palazzo comunale e non poteva assumersi un altro impegno tanto gravoso.
Al chiudersi del secolo, nessuno aveva più né la voglia e né tanto meno la pazienza per tollerare ancora le alternate vicende del Civico, e il teatro venne abbandonato.
Dopo undici anni di chiusura, e a seguito di alcuni lavori di restauro, nel 1923 il Teatro Civico riaprì improvvisamente i battenti. Al cartellone, che inizialmente prevedeva solo rappresentazioni del dramma lirico, l’anno successivo vennero aggiunte le serate di prosa e le stagioni concertistiche, cameristiche e sinfoniche. Il tentativo di rilanciare il più antico teatro della città, fortemente voluto dal sindaco Gavino Dessì Deliperi, non ottenne però l’esito sperato. A contrastare la nuova rinascita si erano nel frattempo imposti i fratelli Enrico e Antonio Boero, che nel 1895 avevano rilevato l’ormai fatiscente Teatro Cerruti. I Boero lo avevano acquistato per ristrutturarlo, fiutando l’affare, poiché la città, in netta espansione, aveva bisogno di una nuova sala, ampia ed elegante, da contrapporre al vecchio Civico, poco capace e ancora condizionato dalla proprietà privata dei palchi.
Il Teatro Politeama Regina Margherita dei Boero iniziò ufficialmente la sua attività il 25 dicembre 1897, e da allora, una serie ininterrotta di opere liriche, commedie, operette, varietà, film, e incontri di lotta e pugilato gli assicurarono sempre il favore del pubblico, fino al 1942, quando venne distrutto da un incendio.
Il problema della proprietà privata dei palchi del Civico infastidiva il podestà Enrico Endrich che, persona di grande sensibilità e cultura, durante gli anni Trenta del Novecento ne riscattò i balconcini ed effettuò radicali lavori di restauro ai fini del rilancio della tormentata struttura.
Di lì a pochi mesi, però, anche l’esistenza del Civico sarebbe stata interrotta drammaticamente.
Il 26 febbraio 1943, alcune bombe dell’aviazione americana caddero sull’antico teatro, devastandolo. Restarono in piedi soltanto i muri perimetrali ed alcuni locali del piano terra. Tutto il resto divenne un ammasso di rovine e calcinacci.
Escluso dalla ricostruzione post bellica, per parecchi decenni ciò che era rimasto in piedi assunse l’aspetto di una perenne maceria. Nel 2003 poi, la Regione Sardegna, animata dalla forte volontà di restituire il teatro alla città, decise di destinare un finanziamento al Comune per la ricostruzione del Civico che, dopo nemmeno tre anni di lavori, venne inaugurato il 5 maggio 2006.
Ciò che si riesce ad offrire ai cagliaritani è un piccolo teatro all’aperto, racchiuso tra il palazzo Zapata e l’ottocentesco muro di cinta, sopravvissuto al bombardamento. L’ambiente, di forma ovale e rivestito sui lati da un intonaco giallino, si presenta scarno ed essenziale: platea con sedie removibili, palcoscenico senza sipario, torre scenica ottenuta mediante travature in ferro e, lungo il muro, tre passerelle sostenute da supporti analoghi a fare le veci dell’antico loggione.