Via Pietro Martini: il tempio dei fabbri

Via Pietro Martini. A sinistra la facciata dell’ex convento e della chiesa di Santa Lucia come apparivano prima della ristrutturazione (ph. 13 giugno 2021)

Oggi è corta e silenziosa, ma un tempo via Pietro Martini era il tempio dei fabbri, ed era cosa normale vivere tra il martellare di ferri e il risuonare ritmato di mazze e battenti su incudini levigate, il nitrito dei cavalli da ferrare e i fumi dei fuochi.

L’origine della strada risale al XIII secolo, e probabilmente vi si insediarono subito alcuni fabbri pisani che diedero il nome al primo sito, vicum Fabrorum, che arrivava certamente a comprendere anche una redola successivamente inglobata in quella che oggi è diventata piazza Palazzo.

La contrada, all’epoca, accoglieva basse e anguste casupole, ma rappresentava anche il centro simbolico del potere civile, religioso ed economico dell’autorità pisana, nonché delle negoziazioni relative alle attività economiche.
Lungo la cinta muraria di levante, e in prossimità dell’area in cui verrà poi costruito il monastero di Santa Lucia, preesistevano infatti piccole stamberghe, un modesto tempietto religioso con annesso un ospizio, e un edificio che ospitava la sede del governatore della repubblica marinara di Pisa; poco più in là si innalzavano invece la residenza arcivescovile e il primo impianto di quello che sarà il Duomo di Cagliari, mentre dove oggi si affaccia la Casa Madre, si ha notizia di una platea Communis che ospitava le contrattazioni mercantili.

Il viottolo iniziò a cambiare aspetto con l’arrivo degli aragonesi, trasformandosi in un’arteria più corta che d’ora in avanti fungerà solo da collegamento tra il cuore politico e religioso del borgo e la piazza antistante la torre di San Pancrazio. Nel 1326 la strada prende anche il nome di carrer Palau, la via del palazzo, proprio perché dal nocciolo strategico della torre e del complesso castrense che ruotava su di essa, l’antico camminamento conduceva nell’attuale piazza Palazzo, o meglio, ad una casa sottratta alla curia arcivescovile che nel tempo si trasformerà in ciò che oggi è il Palazzo Reale.

Particolari della chiesa di Santa Lucia ritornati alla luce dopo la ristrutturazione della facciata esterna (ph. 13 novembre 2021)

I nuovi dominatori non risparmieranno nemmeno le botteghe dei fabbri, poiché gli artigiani furono costretti a lasciare il Castello e a ricostruire le loro officine ai margini della città murata (ovvero, verso la fine dell’attuale via Giuseppe Manno, tratto ancora conosciuto come “S’Arruga e’ is Ferreris”).

Con l’allontanamento dei fabbri, via Martini sprofonda nel silenzio, dissipando gli schiamazzi e tutti quei rumori che provenivano dalle botteghe, tramutandosi quindi in un passaggio, probabilmente, più decoroso e degno di un viceré e la sua corte.
Dopo i fabbri, iniziarono a sparire anche le anguste casupole che avevano caratterizzato la strada nel periodo pisano, e pian piano, le stesse sostituite da edifici più alti e a schiera, con ballatoi a vista, e abitate da notabili e mercanti che potevano avere qualche interesse alla vita della città.

Ed è ancora la prima metà del 1300 quando la via terminerà d’improvviso davanti ad uno spiazzo non troppo grande, ma sufficiente per accogliere il primo nucleo di un nuovo edificio che diventerà la residenza del principale rappresentante regio, dello stesso sovrano, dei suoi consanguinei o personaggi dello stesso rango, e contestualmente, dei luoghi di riunione dei massimi organi di governo politico, amministrativo e giudiziario.

Nel lato sinistro di quella che nel frattempo è divenuta calle Palau, nel 1539, sopra tracce di antiche fortificazioni pisane, sorge la primitiva chiesa di Santa Lucia, che andrà ad inglobare anche l’antico tempietto di origine pisana. Si trattava di una semplice aula isolata che solo alcuni anni più tardi verrà ampliata con l’aggiunta di alcune cappelle, ma soprattutto completata con l’integrazione del convento omonimo che andrà ad occupare una buona parte del fianco sinistro della contrada.
Antistante la chiesa, nel XVII secolo sorgerà anche un nucleo aggiuntivo del complesso religioso, al quale verrà associata la specifica di “Casa abitazione delle religiose poste in Castello”.
I due nuclei del convento saranno collegati da un portico che, a partire dalla seconda metà del XIX secolo, verrà prima notevolmente ridotto in lunghezza, e successivamente abbattuto per garantire il ricambio di luce ed aria al nuovo Palazzo Onnis Bellegrandi, sorto nel frattempo in aderenza con il lato nord dell’ampliamento secentesco.

A sinistra, palazzo Onnis Bellegrandi (ex Chappelle), al suo interno è presente l’antico chiostro del nucleo aggiuntivo del convento di Santa Lucia, oggi adibito a giardino

Di questo secondo edificio, che con la soppressione degli ordini religiosi divenne per un breve periodo anche sede della caserma dei Carabinieri Reali, oggi rimane ben poco di visibile. All’occhio attento, o meglio, consapevole delle trasformazioni edilizie più recenti, non può però sfuggire la conformazione interna del suo lotto. Sequenze di arcate, probabilmente residuo dell’antico chiostro, si aprono ancora su un giardino interno di modeste dimensioni, compatibile con le consuetudini organizzative delle residenze di clausura.
Nelle memorie scritte riconducibili ai due blocchi del complesso claustrale permane tuttavia nel tempo il nome, poiché negli anni di maggior splendore del convento la via prese il titolo di contrada di Santa Lucia.

A Santa Lucia venne consacrata anche una sorgente, ospitata in un portico ad arcate che collegava quelle che diventeranno le odierne via Martini e Canelles. In seguito, la loggia, nota come “casa della fontana”, verrà chiusa e trasformata in un padiglione sorvegliato da un fontaniere fino alla sua demolizione, che avverrà insieme alla spina di edifici di piazza Indipendenza, di cui era parte integrante fino agli anni Trenta del ‘900. Non si sa se la preziosa risorsa idrica, che insieme al pozzo di San Pancrazio approvvigionava d’acqua potabile il quartiere di Castello, traesse il nome dal vicino insediamento ecclesiastico, ormai adiacente dopo l’ampliamento secentesco, o dall’appellativo dell’omonima strada. In questo contesto, è però interessante ricordare l’intimo rapporto con la chiesa: i due poli sono infatti tuttora collegati da un condotto sotterraneo, forse corrispondente ad una vena d’acqua.

Medaglione ospitato in una delle facciate laterali del Palazzo Onnis Bellegrandi

Nel 1866 il Regno d’Italia decreta l’incameramento del convento da parte del Demanio, e mentre le religiose sono invitate a trasferirsi altrove, l’edificio affiancato alla chiesa inizia ad ospitare attività didattiche e solidaristiche. Quando poi gli antichi fasti del complesso francescano sono ormai un lontano ricordo, nei locali dismessi trovano spazio l’Asilo Umberto e Margherita, e l’Associazione dei Luigini e delle Figlie di Maria.

Nel 1912, la necessità di trovare nuovi locali per gli uffici della nuova Prefettura indurrà invece l’Amministrazione provinciale ad acquistare, e rendere comunicante con il Palazzo Reale, il contiguo Palazzo Manca di San Placido, realizzato alla fine del XVII secolo dai baroni di Sorso. Purtroppo, però, l’edificio verrà lesionato dalle bombe del 1943, e nonostante i danni vengano riparati appena tre anni più tardi, continuerà a manifestare un quadro di lesioni generalizzato che suggeriranno di provvedere alla sua totale demolizione che avverrà nel 1972. Il vuoto lasciato dal palazzo non è mai stato colmato, ma trasformato in una terrazza recentemente intitolata a Mercede Mundula, da cui oggi si può ammirare un bel panorama sulla città.

Un altro dei danni rilevanti, apportati al tessuto urbano di questa porzione del Castello in occasione dei bombardamenti aerei del secondo conflitto mondiale, fu la distruzione parziale dell’isolato prospiciente la terrazza e una parte del Palazzo Reale.
Nella seconda metà del Settecento, l’ampio lotto era occupato dai palazzi Manconi Ballero (Bacallar di San Filippo – noto Martini), Amat di San Filippo baroni di Capoterra, Dettori, Donna Giuseppa Marchin, e Ripoll (in posizione d’angolo). Nel 1796 gli ultimi tre edifici vennero fusi insieme e, dopo aver inglobato anche una parte de Su Carilloni e preso il titolo di Palazzo d’Olives, la nuova residenza divenne sede delle Regie Poste.
L’unica dimora sopravvissuta al tiro concentrato delle artiglierie è l’antica residenza della famiglia Martini dove, a cavallo tra ‘700 e ‘800, visse lo storico Pietro.

Piazzetta Mercede Mundula

L’isolato oggi composto dalla Scuola Materna delle Missionarie del Sacro Costato, dal suo cortile, e dal Palazzo Onnis Bellegrandi (ex Chapelle), in principio era invece frazionato in più edifici probabilmente separati fra loro. Con l’allontanamento delle religiose francescane e le successive demolizioni di fine Ottocento, tra le quali anche il nucleo seicentesco del convento e il portico di Santa Lucia, nacque il piccolo spazio aperto della sede educativa, il cui interno, visibile anche dalla strada, ora custodisce un bel medaglione in cotto in stile Liberty, realizzato presumibilmente sul finire del XIX secolo, che raffigura una donna (alcuni ipotizzano possa trattarsi di Marina Bellegrandi, deceduta nel 1888) incoronata da una ghirlanda floreale e vestita in una semplice veste della quale lo scultore (ignoto) è riuscito a rendere la trasparenza che lascia intravvedere le forme corporee.

Via Pietro Martini è una strada di passaggio dove poco o nulla è capace di raccontare i suoi trascorsi storici. Non ci riesce nemmeno la chiesa, poiché senza prospetto e impercettibile all’occhio distratto. Attraversandola, risuonano solo le voci dei bambini delle scuole, e si rimane abbagliati dalla curiosa luce del sole che invita ad una sosta nella piazzetta o ad affacciarsi dal suo parapetto, da dove si può scorgere il mare, ma anche una distesa di piccole case e di vie intricate ricche di vecchie storie.
Furono le bombe del 1943 a decidere che la via avrebbe dovuto interrompersi qui, altrimenti avrebbe proseguito silenziosa la sua discesa fondendosi con un viottolo che oggi sarebbe stata la prosecuzione del vico II La Marmora, per poi aprirsi in un insolito trapezio irregolare che già in epoca aragonese era intitolato piazza Palazzo.

Palazzo Manconi Ballero (già Bacallar di San Filippo)

La strada venne invece dedicata allo storico Pietro Martini solo dopo la cacciata dei piemontesi. Con questo omaggio si volle ricordare un impiegato statale e studioso cagliaritano, che fu autore di una produzione letteraria che contribuì a rivitalizzare lo studio della storia, delle istituzioni e delle figure più importanti dell’isola; questi scritti lo portarono a diventare anche presidente della Biblioteca Universitaria di Castello.
Fu però anche al centro del dibattito sui cosiddetti “Falsi d’Arborea”, una serie di documenti contraffatti durante la seconda metà dell’Ottocento che avrebbero dovuto avere il fine di colmare alcuni buchi lasciati aperti nella storiografia sarda, e che narravano le gesta dell’epoca giudicale. Il Martini ricevette dalle mani del frate Cosmo Manca un’antica pergamena quasi totalmente illeggibile, e dopo averla a lungo osservata non ebbe la minima esitazione nel credere che si trattasse di un documento risalente al XIV secolo. Il Martini fu incauto nel considerarli autentici, perché in realtà non lo erano, e la sentenza per i sardi fu aspra e inevitabile, compromettendo quasi in parte anche la credibilità dei testi originali.

La sua salma venne “mummificata” da Efisio Marini il 27 febbraio 1866, il quale sottopose il corpo al processo da lui ideato, utilizzando una miscela di sali e altre sostanze la cui formula rimase segreta. Quattro mesi dopo, riaperto il sepolcro nel cimitero di Bonaria alla presenza di autorevoli testimoni, tra cui un fotografo, il corpo del Martini risultò perfettamente intatto, così pure alla seconda riesumazione, avvenuta otto mesi dopo, alla terza, ben sedici anni dopo, fino a quella fatta nel 1898, sempre con il medesimo risultato.

Via Pietro Martini

Mercede Mundula è stata invece una saggista, scrittrice e poetessa cagliaritana, una delle più affascinanti figure femminili del Novecento in Sardegna.
Poco più che ventenne, sposò Attilio Caboni, un giovane avvocato cagliaritano che, dopo le nozze, la condusse a Roma dove aveva vinto un concorso ministeriale. Lo zio, Antonio Scano, le fece conoscere Grazia Deledda trasferitasi anche lei nella capitale da qualche anno insieme al marito. Fu con la maternità che Mercede si accorse di pensare in versi, parlando alla sua bambina e dedicandole le rime. Collaborò con numerosi giornali, scrisse della Sardegna e vari volumi di poesie.
La sua intensa attività letteraria si interrompe prematuramente con la morte, il 1° maggio 1947, a 57 anni.