Mentre la Corona d’Aragona, concepita nel 1137 ma nata di diritto nel 1162, era una sorta di confederazione di Stati imperfetti con proprie nazionalità e istituzioni rette da un unico monarca, la Sardegna, da tempo isolata dal controllo bizantino, attorno all’anno Mille appariva invece organizzata nei quattro giudicati di Torres, Gallura, d’Arborea e di Càlari, ciascuno con proprie leggi, frontiere e tradizioni culturali.
Tuttavia, l’ingerenza delle repubbliche marinare di Pisa e Genova, dapprima prevalentemente commerciale e culturale, in seguito vero e proprio dominio politico con la sostituzione delle dinastie locali da parte di ricche ed influenti famiglie toscane e liguri, aveva significato la caduta di tre dei quattro giudicati, e alla fine del 1200 era rimasto indipendente il solo regno d’Arborea, che era pertanto ancora in vita nel 1322, quando Giacomo II il Giusto, alleatosi col giudice Ugone II d’Arborea (che sperava di riuscire ad ingrandire i suoi domini ai danni di Pisa) decise di occupare l’isola.
La guerra dei Vespri (30 marzo – 22 maggio 1282) permise alla Corona d’Aragona di inserirsi prepotentemente fra i vari contendenti.
Papa Bonifacio VIII, per avere mano libera in Sicilia, fece firmare a Giacomo II e a Carlo II lo Zoppo l’accordo di Anagni del 24 giugno 1295, con il quale il re d’Aragona si impegnava sulla carta a ridare alla chiesa il Regno di Sicilia. In cambio, il papa avrebbe tolto la scomunica e l’interdetto sugli Stati della Corona Aragonese, e avrebbe istituito il regno nominale di Sardegna e Corsica da infeudare al reintegrato Giacomo II d’Aragona, regno fino ad allora inesistente, e che mai sarebbe esistito perché la Corsica sarebbe stata ancora a lungo posseduta da Genova che l’avrebbe poi ceduta ai Francesi.
Nel 1323, dunque, un esercito aragonese, comandato dall’infante Alfonso, iniziò le operazioni militari, riuscendo, in breve tempo, ad allontanare quasi completamente i pisani dalla parte meridionale della Sardegna che, sconfitti nella battaglia di Lutocisterna (1324), lasciano definitivamente l’isola nel 1326.
Il 19 giugno 1324 nacque di diritto e di fatto il Regno di Sardegna della Corona d’Aragona, uno stato sovrano imperfetto che in principio ebbe come emblema quattro teste di moro senza benda, inquadrate in croce rossa e campo bianco.
La prima capitale del regno fu, per due anni, dal 19 giugno 1324 al 10 giugno 1326, il villaggio fortificato di Bonaria, sul colle omonimo, per essere poi trasferita sulla rocca del Castrum Càlari pisano.
Nel 1478, la battaglia di Macomer e la sconfitta di Leonardo Alàgon, morto alcuni anni dopo in prigionia in Spagna, preludono a un lungo periodo di pace che terminerà solo agli inizi del XVIII secolo.
La prima parte di questo periodo è caratterizzato dal lungo regno di Ferdinando II il Cattolico (1452-1516), il cui matrimonio con Isabella di Castiglia, avvenuto nel 1469, porterà all’unificazione della Corona d’Aragona e di Castiglia, prologo della Spagna moderna. Dieci anni più tardi, nel 1479, alla morte di Giovanni II d’Aragona, Ferdinando II ereditò anche il Regno di Sardegna, creando i presupposti per l’Unità dell’intera monarchia iberica.
Isabella e Ferdinando diedero vita ad un governo fortemente autoritario ed accentratore, dove non vi sarà più un’unica monarchia, ma più semplicemente un unione di regni con un unico re. Ciascuno Stato manterrà la propria autonomia e sarà sovrano nel proprio territorio con i suoi poteri interni. Ogni regno avrà infatti il proprio parlamento che promulgherà le leggi, un esecutivo che garantirà l’attuazione delle norme approvate dal parlamento, e una magistratura che avrebbe punito chi non le avesse rispettate.
Il sovrano, rappresentato da un viceré, in terra sarda agiva quindi come re di Sardegna e mai come monarca straniero, tanto è vero che, nel primo ventennio del Settecento, in conseguenza alla Guerra di Successione Spagnola, la Sardegna si ritroverà sola e, autonomamente, si aggregherà al principato del Piemonte, al ducato della Savoia e di Genova, e alla contea di Nizza.
Il nuovo regno verrà realizzato in massima parte seguendo il sistema catalano-aragonese della concessione in feudo delle terre espugnate, da parte del re, a chi l’aveva aiutato a conquistarle con uomini, mezzi e denari. L’introduzione di tale sistema fu accompagnato dalla massiccia immissione nell’isola di una classe feudale di nazionalità iberica, così ricompensata per l’aiuto prestato alla Corona, che ben presto si ritroverà ad avere anche un ruolo egemone rispetto all’elemento locale. Ma tale istituzione fallì in gran parte i propri obiettivi deludendo da un lato le aspettative dei sovrani e provocando dall’altro resistenze nella popolazione.
In Sardegna si arrivò a contare trentasei feudi (che pagavano le tasse alle città regie) e sei -poi diventate sette- città regie (che invece le pagavano alla monarchia). Ben pochi feudatari iberici, però, osservarono l’obbligo di risiedere nei feudi, delegando i propri compiti a procuratori di loro fiducia, spesso rapaci e colpevoli di soprusi nei confronti dei vassalli, a vantaggio proprio non meno che degli stessi feudatari.
Ai reggidori veniva quindi affidata l’amministrazione della giustizia del feudo, mentre ai podatori quella economica.
Nei piccoli villaggi, la giustizia veniva amministrata, su delega del reggidore, dai maggiori di giustizia, ma si trattava di scelte che non si basavano sulla effettiva competenza, bensì sull’assoluta fedeltà dei prescelti al feudatario.
Ogni capoluogo aveva poi la sua curia maggiore, da cui dipendevano le carceri baronali, anche se talvolta venivano gestite da piccoli raggruppamenti di Comuni, mentre nelle piccole ville la loro gestione era affidata alle curie minori.
Gli abitanti dei paesi e delle terre infeudate erano perciò costretti a pagare al signore tre tipi di tributi: personali, reali e giurisdizionali, e il compito dell’esazione dei tributi era affidato agli agenti baronali e all’arrendatore, che a loro volta traevano anche il proprio utile.
All’epoca non c’erano però solo i balzelli feudali, perché a questi bisognava sommare le decime dovute al clero (che a sua volta era esentato dalle tasse), e il donativo al sovrano.
Ai barracellari, dietro salario, veniva infine affidata la vigilanza nelle campagne, e le loro figure altro non erano che furbi abitanti delle ville capaci di usare le armi.
È evidente che in annate cattive la possibilità di pagare quel cumulo tributario diveniva insopportabile, e questo fu una delle cause, per chi aveva bisogno di tutto per sopravvivere, dei primi moti popolari.
Ai feudatari, al momento del titolo, veniva concesso il diploma di nobiltà, col diritto alla qualifica di “don” e dello stemma gentilizio non trasmissibile per linea femminile.
Successivamente, venne incentivato un altro processo migratorio, che questa volta incoraggiava i sudditi catalano aragonesi a emigrare nei nuovi territori, dietro concessione di generosi privilegi, franchigie e immunità. Attratti dalla possibilità di migliorare la propria condizione economica e sociale, si trasferirono uomini d’armi, mercanti, funzionari, nobili, professionisti, artigiani e genti di ogni condizione e mestiere, che nel corso dei secoli riuscirono ad integrarsi con l’elemento locale sia attraverso legami familiari creatisi con i matrimoni misti sia con lo sviluppo di interessi di ordine soprattutto economico.
Mentre nei feudi la giustizia spettava al signore che la esercitava personalmente o mediante suoi rappresentanti (i podatari), nelle città regie non infeudate come Castel de Caller, era invece regolata da un vicario che la amministrava nel più breve e semplice modo possibile, assistito da consiglieri e da giurati del capoluogo della sua vicarìa. L’ultima sentenza spettava comunque al governatore generale (il delegato del re, divenuto viceré nel 1418), che veniva assistito nel Regio Consiglio di Giustizia (all’inizio, dal reggente la Cancelleria regia, e infine dalla Reale Udienza, istituita nel 1564).
Il Castel de Caller era regolato anche da un Coeterum, uno statuto comunale identico a quello di Barcellona.
Per consolidare il proprio potere nei territori conquistati con le armi, strumento indispensabile divenne, per la monarchia catalano-aragonese, la realizzazione di un’organizzazione statutale che, pur nel rispetto formale dell’autonomia di ciascun regno, si concretizzasse in strutture politico-amministrative in sintonia con i suoi indirizzi tendenzialmente accentratori.
L’istituzione più importante fu il Parlamento (Cortes, Stati generali), costituito dalla riunione comune dei tre Stamenti (o Bracci, quando erano riuniti individualmente in assemblea): quello ecclesiastico, formato dall’alto clero; quello militare, costituito dai feudatari e dai cavalieri; e quello reale, composto dai rappresentanti delle città regie di Cagliari, Sassari, Oristano, Iglesias, Bosa, Alghero, Castellaragonese (Castelsardo). Non avevano invece proprio rappresentanti gli abitanti dei villaggi infeudatati.
Il compito fondamentale del Parlamento era quello di approvare l’importo del donativo, ovvero il tributo che la Sardegna pagava al re. In cambio poteva fare le sue richieste al luogotenente, e quindi al sovrano, che si riservava di accettarle. Il Parlamento discuteva anche dei problemi dell’isola (i Capitoli di Corte), per la soluzione dei quali presentava al re quelle che chiameremmo proposte di legge, e che, se approvate dal sovrano, diventavano a tutti gli effetti delle norme giuridiche.
Il Parlamento, che venne riunito per la prima volta da Pietro IV nel 1355, quindi nel 1421, e dopo il 1481 quasi regolarmente ogni dieci anni fino al 1698, non fu una generosa concessione che gli aragonesi fecero ai sardi, ma bensì una istituzione accordata per non privare di un diritto, del quale avevano già goduto in precedenza, i signori ed i mercanti aragonesi, catalani, maiorchini.. che si trasferivano in Sardegna al seguito degli eserciti.
Le assemblee plenarie si svolgevano in Cattedrale o, talvolta, anche nel Palazzo Reale, mentre i singoli Bracci, con le loro riunioni autonome, avevano a disposizione altre sedi distinte.
Le Stamento ecclesiastico usufruiva della Sacrestia del Duomo di Cagliari, quello militare si riuniva all’interno della Chiesa della Speranza, mentre lo Stamento regio con i rappresentanti delle città, si ritrovava all’interno del Palazzo di Città.
L’ultima assemblea venne convocata nel 1698, dopodiché, ci fu qualche tentativo fallito, per arrivare ad un’ultima autoconvocazione durante il cosiddetto Triennio Rivoluzionario (1793-1796).
Altre istituzioni di rilievo furono la Reale Udienza, massima magistratura isolana, e il tribunale dell’Inquisizione che ebbe sede prima a Cagliari e poi a Sassari.
In questa fase, venne disposta la traduzione in castigliano di diversi statuti locali scritti originariamente in italiano o in sardo, e per l’istruzione dei giovani, scoraggiati dal trasferirsi nel continente italiano, fu istituita la prima Università di Cagliari.
In mancanza di una flotta sarda che potesse impedire le incursioni dei barbareschi, che saccheggiavano i centri vicini al mare e ne riducevano in schiavitù gli abitanti, vennero costruite anche un centinaio di torri costiere, che avrebbero dovuto impedire il contrabbando e lo sbarco di persone e di merci provenienti da zone colpite da epidemie.
I catalano-aragonesi che già avevano avuto nell’alto clero sardo uno dei maggiori fautori della conquista dell’isola, individuarono nella chiesa locale uno degli strumenti più validi per l’affermazione del potere politico.
Iniziarono così un processo di catalanizzazione delle gerarchie che investì tutte le strutture, sia secolari che regolari. E mentre da un lato i prelati italiani furono progressivamente soppiantati da elementi iberici di provata fedeltà alla monarchia, dall’altro agli ordini monastici venne imposta la dipendenza dalle province catalane per spezzare i legami con le case madri toscane da cui avevano dipeso fino ad allora.
La civiltà sarda aveva accolto favorevolmente i primi stimoli di quella nuova comunità. L’incontro sul piano culturale, a differenza di quello politico, fu fecondo, e fece nascere un patrimonio comune di civiltà, in cui oggi è difficile discernere ciò che si è avuto da ciò che si è dato.
Elemento di forza della politica espansionistica aragonese fu in primo luogo la borghesia mercantile catalana. Già presente in tutto il bacino mediterraneo dal 1100, venne in seguito favorita anche da una fitta rete di consolati e da privilegi che i sovrani aragonesi concessero, con reciproco vantaggio, in Sardegna. La monarchia aragonese riusciva in tal modo a sposare la sempre più prepotente spinta economica con i propri interessi politici e dinastici. A supporto, grazie anche ad una politica matrimoniale, venne creata una complessa rete di rapporti di parentela, e accanto ad alleanze di questo tipo se ne costituirono altre che permisero ai nobili di ottenere concessioni e privilegi, come esenzioni dal pagamento di tributi, acquisizione di terre, mantenimento dei propri statuti municipali che in questo modo rafforzavano un’area sempre più vasta di interessi comuni e di consensi nei territori già conquistati o da conquistare.
Nonostante tutto, però, il regno lentamente declinava. La Sardegna era retta da un sistema di istituzioni in larga misura ancora medievale.
L’ordine pubblico era in completo sfacelo, intere zone dell’isola erano teatro delle prepotenze delle bande armate, tanto che uno spostamento da Sassari a Cagliari poteva diventare una pericolosa avventura. La vita degli abitanti di allora ristagnava nelle campagne come nelle città, dove operavano artigiani e manovali spesso associati in maestranze con obblighi, religiosi ed assistenziali, regolati da statuti di chiara derivazione barcellonese che stabilivano la partecipazione alle funzioni religiose, alle feste in onore del Santo Patrono, ai funerali e alle messe in suffragio dei soci defunti. Fissavano gli aiuti in favore dei soci più bisognosi, nonché degli orfani e delle vedove; regolavano l’apprendistato che prevedeva un periodo di attività presso la bottega di un maestro ed un esame per esercitare un mestiere.
Con il passare del tempo, i gremi iniziarono a non essere più tollerati poiché limitavano la libertà imprenditoriale, inoltre, anche i sardi che avevano appoggiato la conquista aragonese furono presto delusi nelle loro aspettative, dal duro regime fiscale e dal moltiplicarsi delle concessioni feudali rese ai signori spagnoli, e non tardarono perciò a ribellarsi contro i dominatori ispanici. Il malcontento della classe dirigente era particolarmente vivo, sia per la sua politica fiscale sia per la tendenza ad assegnare a sudditi non sardi gli impieghi civili e militari dell’isola.
La grave crisi e l’imminente fine della dinastia era vicina.
L’ultimo sovrano della casata degli Asburgo di Spagna in Sardegna morì a 39 anni (1 novembre 1700) senza eredi. Negli ultimi giorni di vita, per volere di papa Innocenzo XI, Carlo II di Borbone nominò suo unico erede l’adolescente Filippo, duca d’Angiò, figlio di sua sorella Maria Teresa sposata con Luigi XIV di Francia, dando origine alla guerra di successione spagnola..