Il panorama produttivo sardo, fino alla metà dell’Ottocento, era gestito e regolato da un sistema corporativo di origine medievale. L’organizzazione isolana non costituiva però un’eccezione, poiché le associazioni artigiane erano diffuse in tutta l’Europa.
Nei paesi più avanzati, a partire dalla metà del XVIII secolo, l’antica pratica di mestiere iniziò tuttavia ad essere sostituita da nuove forme di controllo, e il suo definitivo abbandono fu certamente favorito dall’affermazione delle accademie e dall’elaborazione di moderne strutture amministrative e sociali.
La Sardegna fu invece per lungo tempo estranea all’inquadramento delle figure professionali, data l’assenza di scuole d’arte, e questo fenomeno l’accomunava alle altre regioni della Corona di Spagna e ai paesi europei solo marginalmente influenzati dalla cultura rinascimentale.
Nel medioevo gli interessi economici dei mercanti d’oltremare stanziati sull’isola determinarono dunque anche in Sardegna la nascita di associazioni artigiane, ispirate alle corporazioni di mestiere italiane, le quali erano volte a preservare gli interessi e i diritti delle classi imprenditoriali, sebbene caratterizzate da un forte spirito religioso.
Gli artieri sardi ereditarono dai colleghi della penisola anche l’usanza di occupare le contrade in ragione del mestiere praticato, e in tal modo, il tessuto cittadino iniziò a differenziarsi a livello urbano e funzionale, mentre la toponomastica assumeva appellativi legati alle attività svolte nei vari rioni.
Fu un periodo di relativo benessere economico che decretò anche il consolidarsi delle nuove istituzioni: gli investimenti pisani in Sardegna, per esempio, determinarono lo sviluppo del commercio, dei porti, dell’agricoltura, e un sensibile aumento della popolazione.
Nelle principali città iniziarono ad insediarsi gruppi di mercanti, artigiani e marinai, tanto che sarti, falegnami, bottai, pescatori, ortolani, macellai, mastri da muro, tagliapietre scalpellini, ferrai, vetrai, pittori, imbianchini (…), ogni mestiere aveva la propria compagnia, e a sostegno delle attività furono emanati, a Cagliari, regolamenti come il Breve Castelli Castri e il Breve Portus Kallaritani.
Intorno alla metà del XIV secolo, e in seguito alla progressiva conquista di territori sardi ad opera della Corona Aragonese, iniziarono però a registrarsi i primi mutamenti significativi.
Nei maggiori centri dell’isola si osservò l’arrivo di nuovi abitanti, provenienti dalla penisola iberica, invogliati dall’introduzione di regolamenti e privilegi in sintonia con il sistema legislativo barcellonese, e l’occasione si rivelò un valido espediente per importare in Sardegna non solo la nuova popolazione, ma anche le consuetudini dei gremi catalani.
Gli ordinamenti corporativi sardi iniziarono in questo modo ad avere forti analogie con gli statuti vigenti nei principali centri urbani di Barcellona, Girona, Valenza e Maiorca, e le similitudini erano evidenti soprattutto negli appellativi riservati ai magistrati rappresentanti.
In questa seconda fase, rispetto alle prime associazioni medievali, rimasero immutati l’atteggiamento di chiusura verso i colleghi d’oltremare e lo spirito religioso, che ebbe infatti una notevole influenza sull’organizzazione delle corporazioni.
Ispirate dunque da un forte spirito di carità, le associazioni di mestiere erano in primo luogo confraternite, e il legame tra gli affiliati traeva validi motivi di coesione dal comune sentimento religioso. Gli aggremiati, a loro volta, dovevano preservare il carattere confessionale del gruppo, partecipare alle funzioni sacre, in particolare alla celebrazione dedicata al santo patrono (che veniva affidata alla supervisione di un obriere), ai funerali dei confratelli e alle messe in suffragio delle loro anime. Dovevano inoltre concorrere alla manutenzione della cappella del gremio, sostenere economicamente la compagnia, e nei giorni festivi era obbligatorio astenersi dal lavoro ed indossare gli abiti migliori. In generale erano richiesti massima tolleranza, rispetto reciproco e solidarietà tra affiliati, in particolare verso i soci anziani. Il patrimonio economico era invece affidato alla protezione del santo patrono, e un cospicuo numero di attività svolte dai soci riguardava l’assistenza agli affiliati infermi, ai loro orfani e alle vedove.
In Sardegna l’amministrazione delle corporazioni veniva gestita da alcune figure di riferimento: i soci anziani (mayorales) presieduti da un obriere maggiore, il cassiere (clavario), il segretario, e il revisore dei conti (vehedor). Tali rappresentanti erano eletti per estrazione da una borsa di cuoio contenente i nominativi di artieri ritenuti esperti e meritevoli.
Le cariche, accessibili ai soci di almeno venticinque anni, avevano durata triennale, e non vi era possibilità di rielezione prima di un intervallo di altri tre anni. La cassa del gremio era finanziata con le rette degli iscritti, con le percentuali sui manufatti venduti e sulle opere realizzate, con le tasse d’esame e con le donazioni.
I mayorales ricoprivano il ruolo di ispettori, incaricati di verificare l’onestà e la correttezza degli artigiani. Controllavano la qualità dei materiali impiegati e l’avvenuta apposizione dei sigilli, nominavano le commissioni d’esame, giudicavano le controversie ed eleggevano i rappresentanti della corporazione presso le autorità comunali e regie.
Il percorso d’affiliazione al gremio prevedeva un necessario periodo di tirocinio presso un capomastro iscritto, di durata variabile, stabilita dai rispettivi statuti. La prestazione del garzone di bottega era regolata da un atto notarile di incartamento che definiva diritti e doveri del giovane apprendista. Il maestro doveva provvedere al sostentamento e alla formazione dell’allievo, il quale, a sua volta, era tenuto al massimo rispetto delle direttive impartite e alla fedeltà professionale. Una volta appreso il mestiere, su giudizio insindacabile del maestro, il garzone aveva facoltà di sostenere l’esame di ammissione al gremio.
La prova consisteva nell’esecuzione di uno o più capi d’opera sotto la supervisione degli esaminatori e di un padrino, preposto a verificare eventuali irregolarità senza possibilità di suggerimenti. Se l’esito dell’esame era positivo, l’allievo veniva accolto nella corporazione ed assumeva il titolo di maestro. Analoghe prove erano richieste ai capimastri provenienti da altre città, e gli esami e l’iscrizione erano vincolati al pagamento di una tassa.
Le prestazioni professionali degli iscritti e la durata degli esami erano disciplinate dagli statuti, e non esistevano limiti di orario lavorativo, il quale poteva raggiungere anche le quattordici ore giornaliere.
Per tutte le unioni di categoria, la scelta del patrono ricadeva su un personaggio che, secondo la tradizione e l’iconografia cristiana, aveva praticato lo stesso mestiere degli iscritti o, in alternativa, sulla Madonna.
Il sistema corporativo sardo aveva evidenti caratteri d’introversione, poco inclini a recepire novità ed apporti dall’esterno, e in tale contesto giocavano un ruolo significativo l’isolamento e l’estrema povertà del territorio, tali da scoraggiare gli interessi economici dei finanziatori facoltosi. La trasmissione del sapere, affidata al rapporto diretto tra maestro e allievo, riuscì a preservare la continuità delle arti, ma determinò, alla lunga, l’impoverimento culturale degli operatori.
La Sardegna fu interessata marginalmente dagli scambi culturali con la penisola italiana, ma non altrettanto con la penisola iberica, dalla quale una folta schiera di maestranze ed artisti si trasferì nell’isola dove avviò interessanti e proficue attività. Nonostante l’isola fosse una regione secondaria nel panorama politico e sociale delle Corone Aragonese e Spagnola, la presenza di artigiani iberici, date anche le profonde similitudini con le realtà di provenienza, consolidò l’organizzazione corporativa delle professioni.
Il riconoscimento giuridico dei gremi sardi rimase inalterato fino alla seconda metà del XIX secolo e, almeno inizialmente, i diritti delle corporazioni non furono intaccati dalle normative ormai vigenti nel Regno di Sardegna, volte già da qualche tempo ad inquadrare le figure professionali.
Nel 1762, con il Manifesto del Magistrato della Riforma riguardante gli studi, gli esami e gli esercizi degli agrimensori, dei misuratori, degli architetti civili e degli idraulici (per citarne alcuni), l’attribuzione dei titoli di mestiere diventò subordinata alla frequenza di un corso di architettura e matematica, oltre che al superamento di un esame d’ammissione. Da quel momento, anche la formazione e l’abilitazione degli ingegneri militari, per esempio, fu affidata all’accademia di artiglieria di Torino, istituto fondato nel 1739.
La realtà sarda fu uniformata alla disciplina vigente nelle altre regioni del regno solo nel 1777, benché in un primo momento non vennero introdotte sostanziali modifiche, come era stato previsto negli accordi di pace della guerra di successione, e per tali ragioni, negli anni a seguire furono confermati i principi giuridici e le consuetudini locali, in modo da facilitare il progressivo distacco della Sardegna dal Regno di Spagna.
I diritti acquisiti dalle corporazioni artigiane non furono quindi scalfiti dai regolamenti e dalla disciplina delle professioni vigente nei territori sabaudi, e tale prerogativa fu favorita anche dall’assenza nell’isola di lavoratori specializzati abilitati. Una prima inversione di tendenza si ebbe però con l’arrivo in Sardegna del regio misuratore Giuseppe Viana che innescò il dibattito sulla definizione delle figure professionali e sulle loro competenze. Tali iniziative si rivelarono vane, in quanto l’atavica carenza di imprenditori qualificati e la povertà dei territori interni dell’isola continuarono a favorire l’affermazione di figure artigianali a discapito di operatori e processi produttivi moderni.
Fino alla metà del XIX secolo, i capimastri costruttori sardi, per esempio, riuscirono ancora a sopperire alla limitata disponibilità di tecnici governativi, e la plurisecolare esperienza, sebbene non supportata da un’adeguata conoscenza della tecnica moderna, consentì agli artieri di intervenire in numerosi ambiti delle progettazioni e delle lavorazioni. Gli ingegneri pubblici, a loro volta, lamentarono in più di un’occasione tale ingerenza, rivendicando i diritti riconosciuti dal sistema giuridico delle professioni, ma puntualmente eluso dagli artigiani irregolari che continuavano invece ad elaborare progetti di architettura e di topografia, violando i precetti del manifesto emanato nel 1777, e continuando a godere quindi dei privilegi acquisiti, in maniera più o meno abusiva.
A lungo andare però, la realtà era che stavano davvero cambiando numerosi fattori. La progressiva italianizzazione della popolazione, la presenza di un maggior numero di progettisti abilitati, tra i quali alcuni sardi, l’uniformarsi e il consolidamento della legislazione in tutte le regioni del regno, e la modernizzazione dei sistemi produttivi locali, determinarono pian piano il progressivo declassamento del panorama artigianale a favore di professionisti dotati di un’adeguata preparazione tecnica e teorica.
I gremi persero il loro valore istituzionale nel 1864, ma rinacquero, ben presto, sotto forma di confraternite, ispirate agli antichi valori religiosi, senza alcuna giurisdizione sulla pratica professionale.