Il Convitto Nazionale Vittorio Emanuele II

Sul finire del XVII secolo giunge a Callari la famiglia dei Genovès.
Ricchi e abili mercanti, si erano impegnati a sostenere economicamente l’insediamento in terra sarda di una colonia di pescatori originari della Liguria, che, tempo addietro, grazie agli abbondanti depositi corallini e alle acque particolarmente pescose, avevano trovato fortuna nell’isola di Tabarka.
Con il passare del tempo, il destino dell’isola era però cambiato, e quella che un tempo era una prosperosa oasi di pace, era divenuta una facile preda dei corsari, con una campagna impoverita, un mare poco pescoso, e un villaggio che continuava a crescere troppo in fretta.
La situazione, divenuta quasi un’emergenza, aveva quindi portato il governo dell’isola a vietare i matrimoni, e a ricercare terre più sicure dove trasferire almeno una parte della popolazione.
A seguito del trattato dell’Aia (20 febbraio 1720), che segnò la fine della guerra fra la Quadruplice Alleanza e la Spagna, i duchi di Savoia, incoronati re di Sicilia nel 1712, scambiarono l’isola sicula con la Sardegna, diventandone i nuovi monarchi. Constatata però con preoccupazione la vastità delle terre ancora disabitate e quindi deleterie per le casse sabaude, Carlo Emanuele III, salito al trono nel 1730, decise di buon grado di renderle fruttuose infeudando i terreni mediante concessione.
Sei anni più tardi, dopo ripetuti incontri con il viceré marchese di Riverolo, la popolazione tabarchina fu finalmente invitata a stabilirsi nell’Isola di San Pietro, ma il progetto, sottoposto a sanzione reale, richiedeva ingenti somme di denaro, e l’autorità governativa tunisina, date le ristrettezze economiche in cui si trovava Tabarka, riusciva solo ad assicurare il trasporto dei coloni e la successiva difesa del villaggio. Per tale ragione, era necessario trovare una famiglia facoltosa che avesse l’ambizione di ricevere il titolo ducale, ma soprattutto, che fosse in grado di accollarsi tutti gli oneri derivanti dall’insediamento in Sardegna della comunità di pescatori liguri.
Don Bernardino Antonio Genovès e Cervellon, figlio di Antonio Francesco, feudatario di Guardia Piemontese, ed elevato al rango di marchese dal re di Spagna, assunse l’impegno finanziario che tale progetto richiedeva, e il 27 Luglio 1737 fu nominato duca di San Pietro.

I primi coloni approdarono sull’isola un anno dopo, e contemporaneamente, ebbero inizio anche i lavori per l’erezione di un forte, sulla cui porta sud fu posta una lapide in onore di Carlo Emanuele III, fautore del loro felice arrivo in Sardegna. I nuovi abitanti vollero intitolargli la loro città, Carloforte (= forte del Re Carlo), e in suo ricordo, nel 1788, elevarono anche un grandioso monumento che ancora oggi si trova nell’omonima piazza nel lungomare.
In segno di stima, don Bernardino, divenuto duca di San Pietro e Carloforte, il 10 luglio 1744 ebbe invece la licenza per formare un corpo militare che fu ribattezzato Reggimento di Sardegna Fanteria (la struttura militare, il 20 aprile 1850, prenderà il nome di “Cacciatori di Sardegna”, per poi riconfigurarsi nei “Granatieri di Sardegna”, la più antica specialità dell’odierno Esercito Italiano).
Ricevuta quindi la colonnella e la bandiera del battaglione, Carlo Emanuele III lo nominò anche primo comandante delle truppe dei combattenti.

Più vicina agli affari del duca, l’aristocratica famiglia di don Bernardino dei Genovès prese residenza ufficiale nella parte alta del borgo marinaro di Callari, stabilendosi in un elegante palazzotto tardo seicentesco ricevuto in eredità da suo padre Antonio Francesco.
La dimora, sorta in prossimità della nuova chiesa intitolata ai Santi Martiri Giorgio e Caterina dei Genovesi, fu abitata anche dai discendenti del duca, ma una volta estintosi il ramo del figlio Alberto, le sostanze della famiglia vennero divise fra la Brigata Granatieri e il nipote Giuseppe Ignazio Zatrillas, figlio di sua sorella Vincenza, che morì però due anni dopo la successione senza lasciare eredi. Agli inizi del XIX secolo il palazzo della famiglia Genovès rientrò quindi tra le disponibilità dello Stato che lo utilizzò come istituto educativo.
A distanza di alcuni decenni dalla loro soppressione, al fine di migliorare l’educazione giovanile, Carlo Alberto di Savoia riabilitò la Compagnia di Gesù nel regno sardo-piemontese, e ai padri gesuiti calaritani fu concesso di stabilirsi all’interno dell’edificio dei duchi genovesi.
La struttura, dopo le doverose sistemazioni, durante il 1840 aprì per la prima volta le sue stanze anche ai ragazzi delle famiglie più blasonate, in maniera che potessero applicarsi nello studio ed esercitarsi nella vita, in vista del loro inserimento nella società.
Appena otto anni più tardi però, cacciati via dalla Sardegna per la seconda volta, i religiosi dovettero lasciare nuovamente l’isola e l’insegnamento, e il palazzo, abbandonato anche dagli allievi, rimase vuoto e inutilizzato per parecchi anni.
Più vicina agli affari del duca, l’aristocratica famiglia di don Bernardino dei Genovès prese residenza ufficiale nella parte alta del borgo marinaro di Callari, stabilendosi in un elegante palazzotto tardo seicentesco ricevuto in eredità da suo padre Antonio Francesco.

L’istituzione scolastica, fondata il 27 novembre 1618, aveva trovato la sua prima collocazione all’interno di una casa privata nella borgata di Stampace.
Pochi anni più tardi dal suo insediamento però, su richiesta dell’arcivescovo Francisco D’Esquivel (promotore dell’organismo insieme al Consiglio civico cagliaritano), fu presa la decisione di realizzare un nuovo edificio che rispondesse non solo alle esigenze pratiche degli allievi, ma che si accostasse di più anche alla loro posizione sociale.
Per questi motivi, al fine di riavvicinare gli studenti alle loro famiglie, il nuovo istituto vide la luce durante i primi mesi del 1625 di fianco ai basamenti della Torre di San Pancrazio.
Destinato in un primo momento solo all’educazione della nobiltà isolana, da qui l’intitolazione di Regio Collegio dei Nobili, furono molte le famiglie aristocratiche e borghesi che contribuirono ad incrementare il patrimonio con generose elargizioni, volte a poter disporre di un’istituzione di prestigio per i propri figli maschi.
In tempi successivi poi, in accordo con la Municipalità e il Clero, il collegio venne aperto anche ai giovani delle famiglie nobili decadute e prive di mezzi sufficienti per dare una conveniente istruzione ai propri primogeniti, e per raggiungere l’intento, venne istituito il sistema delle “piazze” gratuite o semigratuite, offerte da sovrani e benestanti.
Quando invece nel 1830 le lezioni subirono un’interruzione forzata, gli ambienti scolastici furono occupati senza indugio dall’istituto religioso della Figlie della Divina Provvidenza, che lo adibirono a conservatorio femminile.

Ricostituita formalmente da papa Pio VII nel 1814, la Compagnia di Gesù fece ritorno a Cagliari durante il 1822 sotto Carlo Felice. Fu però solo con Carlo Alberto, nel 1835, che i religiosi poterono riprendere gli antichi mestieri dell’insegnamento, e trovare alloggio all’interno del palazzo seicentesco appartenuto alla famiglia ducale dei Genovès di San Pietro.
Affidato quindi ai padri gesuiti, l’edificio rinasce come collegio e viene ribattezzato con il titolo di “Convitto per l’educazione dei giovani nobili e di civile condizione”.
Riaperto anche agli studenti nel 1840, la scuola dispensò i valori fondamentali dell’istruzione e l’educazione fino alla nuova espulsione della Compagnia di Gesù dalla Sardegna, avvenuta nel 1848. Dopodiché le aule della scuola vennero nuovamente chiuse, lasciando al suo interno migliaia di libri, oggetti sacri, polvere e sedie vuote.

Nell’ambito del primo riordinamento generale dell’istruzione pubblica del Regno di Sardegna, con la legge del 4 ottobre 1848 n.819, nasce a Cagliari il Regio Convitto Nazionale intitolato a Vittorio Emanuele II, primo re del riunificato Stato Italiano, con il proposito di istruire giovani volenterosi di origine nobile e semplici cittadini nativi di Cagliari.
Ancora una volta, la nuova istituzione trova sede nell’antica dimora dei duchi di San Pietro, che, inutilizzata per poco più di un decennio, e ormai passata definitivamente allo Stato con la legge Casati (13 novembre 1859 n.3725), riapre le sue porte agli studenti nel 1861 sotto la direzione di padre Giò Maria Locci, nominato primo rettore della scuola.
Da allora, il Convitto Nazionale, che con la proclamazione della Repubblica Italiana ha perso il titolo regio, non ha più smesso di funzionare.
Diretto prima dai religiosi e poi dai laici, oggi, aperto anche alle ragazze, il palazzo ospita solo un gruppo di studenti frequentanti la scuola secondaria di primo e secondo grado con indirizzo musicale, poiché, in seguito alla crescita della richiesta di posti, durante gli anni Settanta del Novecento si è dovuto dotare di una nuova sede, dove, accanto ai locali scolastici, ai servizi per i semi convittori e agli impianti sportivi, è presente anche un moderno e funzionale auditorium che accoglie convegni, concerti e manifestazioni di ogni genere

L’edificio seicentesco, nel corso dei secoli, ha subìto diverse modifiche architettoniche e ampliamenti, anche da parte del progettista Gaetano Cima, e oggi si presenta con un corpo prospettante sulla via Giuseppe Manno a tre livelli.
La parte inferiore della facciata, rivestita di finto bugnato, accoglie sei finestre e un grande portone d’ingresso al centro; il primo piano è invece caratterizzato da sette aperture decorate ancora con finte bugne, tre delle quali si affacciano su un balcone con ringhiera in ghisa; il secondo piano, infine, si mostra con delle semplici finestre prive di ornamenti e sottolineato da una cornice marcapiano.
La porzione che ricade sulla via Principe Amedeo è la parte realizzata in epoca più recente, ed è costituita in maniera basica da cinque piani fuori terra edificati con una semplice struttura portante in cemento armato, misti e laterizi, ed una terrazza di copertura.
All’interno, alcune sezioni del pavimento della parte seminterrata presentano ancora un aspetto geometrico, con alcuni spicchi realizzati con mosaici a tessere di dimensioni variabili e di forma irregolare, di colore arancio, bianco e blu. Il resto del piano calpestabile è stato invece ricreato utilizzando un marmo finemente lucidato, ed è il risultato di un lavoro di ripristino dovuto ai danni subiti durante la Seconda Guerra Mondiale.
La muratura rimasta priva dell’intonaco è in pietra calcarea. In alcune pareti, costituite da conci di pietra tagliati e ben squadrati di colore chiaro, si può ancora notare più di un’apertura ad arco a tutto sesto, mentre una sola, rettangolare, è a forma di architrave.
La gran parte dei passaggi, presumibilmente, una volta caduti in disuso, vennero tamponati con materiale di reimpiego costituito da blocchi di pietra sbozzati in modo irregolare, chiara indicazione di come originariamente gli ambienti fossero collegati in maniera differente.
In queste stanze sono sopravvissuti alcune sezioni dei muri perimetrali, una piccola porzione di una tubatura in laterizio, e buona parte del soffitto, dove si notano ancora dei mattoni cotti sovrapposti con faccia a vista lunga.
L’altezza delle varie aperture lascerebbe intuire una diversa quota della pavimentazione originaria. Il palazzo, e questa zona in particolare, fu colpito dai bombardamenti del 1943, e la struttura, riportando gravi danni, venne probabilmente riadattata al piano di calpestio salvato.

Nell’edificio sono presenti alcuni locali di particolare pregio, come la Sala Udienze e la Biblioteca storica, costituita da circa tremila libri, documenti, e centinaia di manoscritti. I volumi, dei quali il più antico risale al 1643, ripercorrono anche il cammino della Compagnia di Gesù, a partire dal loro arrivo in città fino alla seconda espulsione dall’isola.
Si conserva inoltre una bella statua di San Sebastiano, appartenuta ai padri Gesuiti, e databile tra la fine del XVII e i primi anni del XVIII secolo. Realizzata in legno intagliato e dipinto, rappresenta un bellissimo giovane soldato romano ucciso sotto l’imperatore Diocleziano.
Nudo e legato ad un albero, con gli occhi pateticamente rivolti al cielo, Sebastiano è trafitto dalle frecce, tormento che non lo porterà però alla morte, come avrebbe voluto il governatore romano, perché fu curato e salvato da Sant’Irene e da altre pie donne.
Tra i dipinti vi è anche una tela del Sacro Cuore di Gesù bambino, che rappresenta un Gesù fanciullo, seduto su una roccia entro un paesaggio naturale, che con la mano destra mostra il suo cuore circonfuso di luce. L’opera devozionale è databile tra la fine del XVIII e i primi del XIX secolo, ed è attribuita al pittore cagliaritano Francesco Massa.

Risale invece ai primi decenni dell’Ottocento il tabernacolo eucaristico in marmo, dove l’elemento residuo d’altare contiene un interno rivestito in raso con ricami ad applicazione; chiuso da una porticina dipinta in olio su rame con due angeli adoranti l’Eucarestia, si ritiene possa trattarsi di un’opera del pittore e litografo Raffaele Arui.
Il prospetto esterno del Convitto Nazionale accoglie infine una tela collocata in un’edicola, fatta realizzare da mons. Ernesto Maria Piovella, che ritrae la Madonna delle Grazie. Una lapide posta al di sotto annuncia invece ai passanti che saranno concessi duecento giorni di indulgenza a tutti coloro che pregheranno devotamente davanti all’immagine della Santa.