La chiesa di Sant’Antonio Abate
Oltre la morbida curva che caratterizza la parte mediana di via Giuseppe Manno, tra lo scintillio dei negozi appare improvvisa la possente cupola ottagonale che identifica la chiesa settecentesca intitolata a Sant’Antonio Abate, un religioso di origini egiziane che nell’iconografia cattolica è raffigurato con un mansueto maialino ai piedi, simbolo della vittoria dell’eremita contro le tentazioni del diavolo.

Una leggenda ci riporta ad un inverno molto freddo, e ad un monaco che decise di recarsi negli inferi per rubare un po’ di fuoco da donare agli uomini.
In una gelida mattina, il pio uomo si mise dunque in cammino con un bastone di ferula ed un maialino finché non raggiunse le viscere della terra. I diavoli, indispettiti dalla visita, cercarono subito di allontanarlo, ma il sant’uomo liberò il maialino che si infilò velocemente nei meandri dell’oscuro inferno, correndo e saltando dappertutto, grugnendo e portando scompiglio. I demoni si lanciarono alla cattura, perché tutto quel chiasso agitava la tranquillità della vita infernale, ma l’animale saltava e continuava a creare confusione. I piccoli demoni, esausti, si arresero, e sia pur di malavoglia, invitarono il monaco ad entrare nell’inferno per portarsi via quel maialino imprendibile.
Quel monaco era Sant’Antonio, e l’animale, appena l’uomo varcò l’ingresso, diventò subito mansueto, lasciandosi accarezzare dal suo padrone.
Il pio uomo domandò di poter rimanere per scaldarsi, ma di fronte a una tale richiesta, i piccoli diavoli rimasero interdetti, non sapendo che fare. Chiesero allora a satana, un diavolo gigantesco che viveva ritirato come un verro da ingrasso, con gli occhi chiusi e il respiro pesante.
Prima di prendere la sua decisione, il maligno si mise davanti all’eremita, ordinò ai demoni di afferrare sei forconi, di arrossarne le punte nel fuoco vivo della fornace, e di premerle nella palpebra dell’occhio sinistro del loro padrone, spingendole verso l’alto. Satana roteò l’enorme globo oculare e guardò Sant’Antonio con aria di sfida. Il pio uomo però non ebbe paura. Subito, altri sei diavoli con i forconi arroventati sollevarono faticosamente anche la palpebra dell’occhio destro del principe degli inferi, il cui sguardo feroce fece tremare di paura anche i suoi adepti. Ma Sant’Antonio non ebbe nessun sussulto.
Satana ributtò giù le palpebre frettolosamente, ma, seppur seccato, accolse il Santo negli inferi per scaldarsi, vietandogli però di avvicinarsi al fuoco dell’inferno.
Sant’Antonio si sedette a distanza dalla grande fornace, e lì vi rimase per tre giorni con grande fastidio dei diavoli.

Sempre fermo e assorto in meditazioni profonde, il pio uomo muoveva soltanto il suo bastone di ferula, rimestando con la punta i carboni ardenti con fare pensoso. Di tanto in tanto, però, quando nessuno lo guardava, punzecchiava abilmente il maialino, che ripartiva creando nuovamente scompiglio tra i demoni, rovesciava forconi e rovistava chiassosamente tra i tizzoni ardenti. E quando i diavoli si buttavano a caccia dell’animale, Sant’Antonio prendeva il suo bastone e ne approfittava per calare pesanti fendenti sulle loro schiene nude, con la scusa di voler fermare il maiale.
Il terzo giorno il Santo si alzò e chiamò il maialino per andarsene. Il diavolo più sospettoso volle esaminare prima il bastone di ferula, per vedere se sulla punta, che aveva a lungo rovistato tra i tizzoni, ci fosse ancora qualche lingua di fuoco. Ma la ferula ha il cuore molle e solo al suo interno conserva il calore del fuoco, che cova ma non si vede, come i carboni del focolare ricoperti dalla cenere.
Il diavolo sospettoso vide la punta annerita e pensò soddisfatto che il fuoco si fosse ormai spento.
Una volta ritornato sulla terra, festante per la vittoria, Sant’Antonio alzò in alto il bastone scagliando ovunque le scintille vive che la ferula aveva incubato al suo interno, facendo in questo modo cessare per sempre il grande freddo.

La storiografia ci racconta invece un’atra storia.
Sant’Antonio Abate morì all’età di 105 anni, e il suo corpo venne seppellito in Terra Santa in un luogo conosciuto da pochi. Nel 561 fu però scoperto il suo sepolcro e le reliquie cominciarono un lungo viaggio fino alla Francia, dove, folle di derelitti iniziarono a trovare miracolose guarigioni da malattie che si manifestavano con vescicole e dolori paragonati alla pelle che brucia. Sant’Antonio, conosciuto e venerato per le sue lotte contro il demonio, divenne perciò colui che era capace di vincere la malattia che bruciava come il fuoco dell´inferno, l’Herpes Zoster, ma anche il mecenate che aiutava le persone colpite dall’Ignis Sacer, un’infezione imputabile ad un fungo contenuto nella farina di segale, usata allora per fare il pane, e che provocava piaghe e cancrene repellenti con crisi di convulsioni e demenza.
Nel XI secolo le guarigioni miracolose spinsero alcuni gentiluomini francesi a realizzare delle strutture da dedicare alla cura di queste malattie, e quella che in origine era appena una piccola comunità laica, col tempo, cresciuta e sottoposta dalla Santa Sede alla Regola Agostiniana, incominciò a fondare diversi ospedali nei territori della Corona d’Aragona, giungendo, nel 1365, anche a Caller.
I religiosi agostiniani, innalzati successivamente in Ordine Ospedaliero dei Canonici Regolari di Saint-Antoine-en-Viennois, erano soliti curare gli infermi con unguenti preparati con il grasso dei maiali che ricevevano dai familiari dei malati, e per questo grande valore che veniva attribuito all’animale, i maiali dei conventi, dotati di un collarino con campanello, scorrazzavano liberamente nei centri abitati mescolandosi tra la gente senza che nessuno richiamasse i frati per cacciarli via.
Nei secoli l’importanza del maiale nella cultura contadina cambiò però il significato di quest’immagine, e il Santo si trasformò da vincitore sul diavolo, a difensore del maiale-amico e, per estensione, protettore di tutti gli animali domestici
Fin dal principio, il complesso ospedaliero realizzato a Cagliari era dotato di una piccola cappella intitolata a Sant’Antonio. Tuttavia, le diverse modifiche apportate alla struttura curativa nel corso dei secoli comportarono l’esigenza di sostituire anche il vecchio e modesto tempietto con una nuova chiesa più capace e prestigiosa che non si affacciasse più solo all’interno del buio portico, ma anche sulla lunga, chiassosa e frequentata stradina che correva alle pendici del borgo nobile del Castello.

Oggi, preceduta da due gradini che consentono di superare il dislivello con la sede stradale, il solenne portale ligneo della chiesa si presenta fiancheggiato da due alte paraste lisce impostate su basamento, che, sporgendo dal muro, vengono in avanti quasi ad accogliere i fedeli.
I due possenti pilastri sono sormontati da capitelli floreali con elaborate volute di calcare bianco, sopra i quali insiste una ricca cornice modanata che reca lo stemma dell’Ordine degli Ospitalieri di San Giovanni di Dio: un melograno sovrastato dalla croce e dalla stella.
La parte superiore del prospetto accoglie invece una nicchia a forma di conchiglia che ospita la statua cinquecentesca del Santo, realizzata in pietra dall’artista Scipione Aprile. La scultura, barbuta e paciosa, è scolpita con la veste di abate, il bastione a forma di Tau e la campanella a destra, mentre nella mano sinistra reggeva probabilmente il fuoco. Ai suoi piedi, il maialino.
Ai lati del portale, le due finestre sottostanti sono invece abbellite da frutta e ghirlande di fiori realizzati in rilievo.
Il Tau, tipico degli eremiti, era a forma di T, ultima lettera dell’alfabeto ebraico e quindi allusione alle cose ultime e al destino: serviva al Santo per difendersi dalle tentazioni. La campanella, utilizzata per scacciare il demonio era invece il segno di riconoscimento che utilizzavano i frati dell’ordine per annunciarsi quando arrivavano per la questua.
Purtroppo, delle importanti infiltrazioni danneggiarono fortemente il ricco apparato esterno della cupola, che, fino ai restauri di inizio Novecento, poteva ancora essere ammirata con il suo rivestimento di maioliche policrome. Il tamburo più elevato, rispetto a quello odierno, consentiva anche la presenza di quattro oculi circolari e quattro medaglioni che si sovrapponevano alle otto finestre, e che a loro volta erano rimarcate da cornici mistilinee di gusto prettamente barocco. A sovrastare il tutto, un elegante lanternino che si stagliava indisturbato nel cielo azzurro della città.
Oggi il rivestimento appare invece in lastre realizzate in zinco, e gli spicchi che formano la cupola possiedono una maggiore curvatura; le finestre che si aprono sul tamburo, più basso e privato degli otto oculi circolari, si rivelano sguarnite di cornici, sostituite da fasce di una tonalità chiara.

Superata la bussola, il vestibolo rettangolare che consente di raggiungere l’interno della chiesa custodisce due piccole nicchie ospitanti rispettivamente le statue settecentesche dell’Arcangelo Raffaele insieme a Tobia, e della Santissima Vergine Addolorata, attribuite rispettivamente allo scultore sardo Giuseppe Antonio Lonis e ad un suo seguace.
A sinistra, una lastra in marmo informa invece che l’arcivescovo Antonius Sellent consacrò il tempio nel 1723.
L’aula della chiesa è formata quasi per intero dall’ampio vano centrale, coperto dall’imponente cupola, attorno al quale si aprono le sei cappelle radiali e il presbiterio, appena più profondo dei tempietti.
Le altissime paraste, caratterizzate da capitelli dorico-corinzio, sostengono, grazie alle spinte gravitazionali verticali, una trabeazione decorata da stucchi con motivi a girali vegetali alternati da testine di cherubino, un elemento visivo interessante, perché capace di percorrere plasticamente tutta l’architettura interna.
Un tamburo accoglie invece una finestra per ogni lato, illuminando la chiesa e creando, nella parte più alta, una luce decisa e contrastante con la penombra che caratterizza invece le cappelle immerse nel colore grigio verde delle pareti.
I costoloni, che dividono in spicchi la cupola, nel 1886 vennero arricchiti con otto preziosi affreschi firmati dal pittore Guglielmo Bilancioni, e che raffiguravano episodi relativi alla vita di San Antonio Abate alternati a scene ispirate al culto della Vergine d’Itria. Le sezioni rappresentavano un miracolo di Sant’Antonio nel deserto; la Vergine d’Itria che ridava la vista ai ciechi; la morte di Sant’Antonio; la processione della Madonna d’Itria; Sant’Antonio che distribuisce i suoi averi ai poveri; Sant’Antonio che redarguisce gli asini che avevano devastato il campo; la Vergine d’Itria che salva due giovani Agostiniani dalle onde del mare; la Vergine d’Itria che nasconde uno schiavo fuggiasco alle ire del padrone.
Sfortunatamente, le infiltrazioni e l’incuria danneggiarono fortemente anche il ricco apparato decorativo interno della cupola e delle cappelle, realizzate a fresco dal pittore romano Giacomo Altomonte.
Con i restauri novecenteschi messi in opera dall’ingegnere Riccardo Simonetti, i dipinti e gli stucchi vennero eliminati con la tecnica del raschiamento, per cui non furono più recuperabili. Le cappelle vennero quindi abbellite con delle tavole pittoriche, mentre nella cupola fu realizzata una decorazione più sobria.
Nello spazio occupato dagli oculi e dagli ovali originari vennero realizzati otto medaglioni che alternano quattro Tau e quattro monogrammi della Vergine Maria, attorniati da raffinati festoni di frutta, fiori e foglie realizzati in stucco. Al vertice della calotta, infine, altri otto medaglioni andarono invece a formare il nome del Santo patrono: “A”NTONIVS, e ad essi furono sovrapposti otto festoni in stucco dorato che circondarono la base della lanterna.

Il presbiterio, di dimensioni più grandi in larghezza e profondità rispetto alle cappelle, si mostra leggermente curvilineo e poco sopraelevato rispetto al pavimento marmoreo, che ripropone, al centro, l’antico stemma dell’Ordine degli Ospitalieri di San Giovanni di Dio.
Delimitato da balaustrini in marmo, nel fondo troneggia l’altare maggiore elevato in pregiati marmi policromi intarsiati. Realizzato a ventaglio, è sovrastato da una nicchia che, fiancheggiata da due colonne marmoree, racchiude la quattrocentesca statua lignea policroma del Santo titolare in atteggiamento bizantino. Al centro della nicchia, nella parte finale, fanno capolino i visi di tre puttini, mentre tutt’intorno, su uno sfondo dorato, è un rifiorire di ramoscelli d’albero e fogliame in stucco bianco. Il fastigio è caratterizzato dalla presenza di due cherubini laterali, che, in piedi e svolazzanti, reggono lunghe ghirlande di fiori. Infine, nella volta a botte, delimitata da decori vegetali, si evidenzia, al centro e in stucco dorato, il simbolo dell’Eucarestia.
Ai lati sono appese due grandi tele: quella a sinistra raffigura San Giovanni di Dio che riceve il Bambino dalle braccia della Vergine. Nel dipinto sono rappresentati anche l’arcangelo Raffaele, considerato patrono dei viandanti, dei profughi, dei farmacisti e degli sposi, insieme al piccolo Tobia, che guarì suo padre ridandogli la vista.
Nel lato destro, l’altra grande tela rappresenta l’Annunziata, scalza e con le ampie vesti, illuminata dai raggi dello Spirito Santo e incoronata, tra uno stuolo di angioletti festanti, da una ghirlandina di delicati fiorellini. In basso, sulla sinistra, quasi in disparte, l’arcangelo Gabriele, che, per tradizione cristiana, fu inviato da Dio per annunziare alla Madonna il suo concepimento.

Le sei cappelle voltate a botte si presentano tutte uguali come profondità e altezza. Indipendenti fra loro, e separate da paraste con capitello corinzio e fregi dorati, sono introdotte da un ampio arco a tutto sesto e delimitate da balaustra classicheggiante marmorea ad andamento leggermente curvilineo.
La prima cappella a sinistra, risalente al XVIII secolo, è dedicata a San Giovanni di Dio, fondatore dei fratelli ospedalieri Fatebenefratelli. La statua Ottocentesca, è opera di Battista Troiani.
Quella successiva, intitolata al Santissimo Crocifisso, è invece caratterizzata da una grande croce lignea risalente alla prima metà del XVIII secolo. La tela, poggiante su un fondo pitturato, risale invece al primo quarto del XVII secolo, e raffigura la Vergine Maria Maddalena e San Giovanni. Entrambe le opere sono attribuite ad ignote maestranze liguri.
La terza cappella è infine dedicata all’Assunta.
Nel lato sinistro del presbiterio, un altare marmoreo a più mensole risalente al 1839 accoglie il dipinto dedicato, come la cappella, alla Signora della Salute. L’opera, dipinta nel 1844, è del pittore cagliaritano Antonio Carboni.
La Madonna, amorevolmente circondata da figure celestiali, è rappresentata su un cumulo di nuvole con lo sguardo basso e le mani giunte, in atto di preghiera e d’intercessione per gli uomini.
Sotto il pulpito vi è la tomba del padre ospedaliero Francesco Démelas, morto il 30 maggio 1851 in odore di santità, mentre alle pareti sono fissate molte testimonianze di ex voto.
Da questa cappella si può accedere alla sacrestia e agli ambienti interni dell’arciconfraternita.

La cappella centrale del lato destro oggi è dedicata alla Santissima Vergine d’Itria, titolare dell’Arciconfraternita che detiene la chiesa dal 1881. Fin dal XVII secolo era invece intitolata a Sant’Omobono, patrono dei sarti e dei carradori, poi unitisi ai bottai.
L’altare, in marmi policromi, venne realizzato da Giovanni Battista Spazzi negli ultimi anni del XVIII secolo, e fu trasferito all’interno di questa chiesa quando la Confraternita d’Itria lasciò la sua sede originaria, l’attuale Oratorio dell’Asilo Marina e Stampace, per trasferirsi al Sant’Antonio.
La Vergine, riprodotta in una grande pala e posizionata al centro dell’altare, venne realizzata dal pittore Francesco Aurelio Romano fra il 1616 e il 1618, e la scena della tela, idealmente divisa in due parti, raffigura la festa celeste e quella terrena.
Nella parte superiore del dipinto troneggia la Vergine, con il manto aperto e le braccia sollevate, come se volesse abbracciare i fedeli, mentre nel suo grembo appare il suo divino Figliuolo, con degli angeli che gli posano una corona sulla testa sovrastata da una candida colomba, simbolo dello Spirito Santo.
Nella parte bassa due Calogeri, sacerdoti della Grecia ortodossa, sorreggono invece la sua bara con una spalla, mentre con l’altra oscillano il turibolo dal quale fuoriesce l’incenso. I Calogeri, che, secondo tradizione, salvarono in Costantinopoli il simulacro della Madonna dall’invasione dei Turchi, indossano gli abiti tradizionali dell’epoca. Più in basso, dei confratelli incappucciati procedono in processione, mentre sullo sfondo, in lontananza, s’intravede una veduta di Cagliari con i promontori, il mare e una torre d’avvistamento.
Il dipinto, di quasi tre metri, è incorniciato da inserti marmorei policromi intarsiati, che presentano, nella cimasa, una colomba, simbolo dello Spirito Santo.
La terza cappella, è infine dedicata al Sacro Cuore.

La chiesa possiede anche un magnifico organo tubolare, composto da 5 canne e 27 registri, che anticamente diffondeva letizia a tutta la via. I giovani fucini dell’epoca facevano a gara per tirare il mantice che azionava l’antico strumento realizzato dalla Casa Agati Tronci, acquistato dall’Arciconfraternita della Madonna d’Itria nel 1887.
Nella parte retrostante della chiesa, punto di vista privilegiato per poter osservare l’imponente cupola, si staglia infine un piccolo ed elegante campanile a vela a due luci, forse elemento superstite dell’antico impianto trecentesco dell’antica cappella dell’ospedale Antoniano.