L’Inquisizione spagnola nella Cagliari del XV-XVI secolo

Banco dell’Inquisitore – Museo della Tortura, Siena

Le primissime origini dell’Inquisizione si collocano tra la fine del XII e gli inizi del XIII secolo, quando la Santa Sede nominò propri delegati inquisitori per ricercare e giudicare gli eretici. Già nel XIII secolo fu stabilita in quasi tutti i paesi d’Europa, ad eccezione dell’Inghilterra.

Il tribunale inquisitore ecclesiastico fu ripristinato in Spagna alla fine del XV secolo, a conclusione dell’unificazione della penisola iberica, divenendo una delle istituzioni più influenti e potenti vigenti in buona parte del periodo dell’età moderna. Con questo ordinamento, si intendevano eliminare le minoranze etniche, in special modo ebraiche e arabe, alle quali, nel 1492, era stata imposta l’alternativa tra l’espulsione dal paese e la conversione forzata, e garantire che la religione cristiana di confessione cattolica fosse l’unica dottrina nei possedimenti del regno ispanico.

Il controllo della fede della popolazione era un elemento politico fondamentale, e per padroneggiare, con l’Inquisizione si potevano utilizzare dei metodi particolarmente convincenti.
Nell’immaginario collettivo questa istituzione è legata inesorabilmente al fanatismo e alle torture, ai soprusi e ai roghi dei condannati. Indubitabilmente questi elementi furono presenti, ma non furono gli unici a destare l’interesse nei confronti di questo tribunale religioso.

L’Inquisizione Spagnola, autorizzata da Sisto IV nel 1478, era un organismo perfettamente strutturato e capillarmente presente nei territori della monarchia, con succursali periferiche che a loro volta disponevano di un gran numero di persone sotto il loro controllo che si occupavano di far avvertire la presenza dell’Inquisizione tra le persone nei villaggi.

La diffusione nel territorio permetteva di incutere il timore di essere indagati e magari torturati, o peggio ancora condannati a morte, in coloro che praticavano religioni differenti da quella cristiano cattolica, o che ne rifiutavano la dottrina.
Nei primi anni di vita del tribunale le persecuzioni erano mirate soprattutto verso le minoranze ebraiche e islamiche, mentre i reati dovuti all’ignoranza in merito alla dottrina cattolica non venivano quasi mai presi in considerazione. La commistione tra consuetudini popolari e fede cristiana, che dava luogo a comportamenti ambigui, per il Sant’Uffizio era invece una delle più gravi forme di tradimento che poteva determinare anche la massima pena.

L’organizzazione interna dell’Inquisizione Spagnola era piramidale: la base era composta dal personale che lavorava nel territorio a contatto con il resto della popolazione. C’erano poi gli ufficiali, anch’essi sparsi nelle Regioni, fino ad arrivare agli inquisitori distrettuali. Importantissimo ed essenziale il Consiglio Supremo dell’Inquisizione, che era presieduto dall’inquisitore generale che costituiva il vertice dell’istituzione e che era anche l’unico che poteva avere contatti diretti con il sovrano.

Dal punto di vista procedurale le regole erano puntuali e precise, nonostante non sempre venissero rispettate dai funzionari dei tribunali. È poi vero che lo scopo finale era sradicare le eresie con la forza ed allontanare gli individui che risultavano avere idee eterodosse, ma è altrettanto vero che la pena capitale era utilizzata come deterrente ultimo e solo per coloro i quali non avevano intenzione di ritrattare le proprie posizioni.
L’obiettivo prefissato lo si intendeva raggiungere utilizzando la cosiddetta pedagogia del terrore, per cui ogni elemento che fosse riconducibile all’Inquisizione doveva fomentare paura negli animi delle persone, quindi dalla presenza dei funzionari tribunalizi nei villaggi fino alla celebrazione degli autodafè. L’esaltazione della colpa e l’espiazione di questa tramite la pubblica vergogna e il supplizio avevano poi il fine di dissuadere anche la popolazione dall’allontanarsi dall’ortodossia cattolica. La stessa partecipazione alle funzioni religiose era un elemento che poteva distinguere un buon fedele da un potenziale inquisito per proposizioni ereticali o per comportamenti non consoni ai dettami della religione.

Qualsiasi attività o credenza che si discostava dai comportamenti che erano stati stabiliti come giusti secondo fede e secondo legge era perseguito, verificato e punito. Non era accettato il dissenso, né era possibile la libertà di pensiero. Tutto ciò andava contro il controllo politico-religioso che i sovrani di Spagna Ferdinando II e Isabella di Castiglia pianificarono per il loro regno, e contro la volontà di creare una identità unitaria cristiano cattolica per la popolazione della penisola iberica.

In seguito alle numerose controversie che iniziarono a verificarsi, i sovrani Ferdinando e Isabella chiesero al pontefice Sisto IV che venisse introdotto nei loro regni, uniti ormai in un’unica monarchia, un organismo atto a giudicare e perseguire non solo i reati di fede, ma anche quelli civili e politici, e che potesse inoltre separarsi dalla precedente tradizione medievale gestita dagli ordini clericali.

Tortura dell’acqua – Museo della Tortura, Siena

Il papa emanò la bolla, con la quale venne fondata l’Inquisizione spagnola, l’11 novembre 1478 (Exsigit sincerae devotionis affectus), e con la stessa, ai sovrani veniva concesso di nominare anche inquisitori di loro fiducia e poterli sostituire nell’evenienza in cui non rispondessero ai loro voleri.

Nel 1483 veniva nominato inquisitore supremo Tomàs de Torquemeda.

Nel 1492 il Tribunale del Sant’Uffizio arrivò anche a Caller, con la fondamentale volontà di raggiungere l’omogeneità religiosa, ma anche con il grande timore da parte di molti, impauriti dalle facili delazioni che potevano scaturire da gelosie o dissidi.

Il primo problema che il nuovo uffizio callaritano dovette affrontare fu quello della sede, non giudicando idonea la precedente ubicata nei locali del convento di San Domenico.
Basto poco però, all’inquisitore per la Sardegna, Sancho Marin, per trovare velocemente un sito di suo interesse nella zona compresa tra le attuali via Bacaredda, via Dei Giudicati e viale Ciusa, e, ristrutturando una vecchia abitazione, la nuova sede nell’area conosciuta come Is Stelladas, fu in breve pronta.

Il tribunale iniziò fin da subito ad occuparsi dei giudizi contro i cittadini accusati di deviare i fedeli verso altre religioni, ma segnava anche la lotta feroce e incontrollata alla negromanzia, alle pratiche magico-esoteriche, a quelle terapeutiche, alla bigamia, e alla stregoneria, il cui timore atavico cavalcava l’onda della superstizione e dava corpo all’incubo di una metamorfosi tra l’umano e il diabolico, la cui sintesi era costituita dalla donna.

L’istruttoria, indipendentemente dall’addebito, seguiva la stessa prassi.

Dopo la fase indiziaria, momento in cui venivano raccolte tutte le informazioni utili all’istruzione dell’arresto, il sospettato veniva prelevato e portato in isolamento. Vi era poi un primo interrogatorio da parte dell’inquisitore con le “pressioni” per una piena autoaccusa, che seguiva con l’invito a nominare un difensore, ma che si risolveva sempre con la rinuncia dello stesso per la paura di incappare in accuse di eresia nell’esercizio del proprio ufficio.

Per coloro che non riconoscevano i propri reati scattava la tortura, che era una prassi consueta, poiché si trattava dello strumento più efficace per estorcere una confessione.

I sistemi di “convinzione” erano tanti, ma a Caller i più usati erano la garrucha, che consisteva nel legare per i polsi il condannato, che aveva le mani poste dietro la schiena; lo si innalzava da terra per mezzo di una carrucola e lo si lasciava sospeso per aria; di tanto in tanto la corda veniva allentata in maniera repentina o la si colpiva con un bastone per procurare dolore alla vittima a causa degli strappi improvvisi e violenti.

Talvolta si legavano ai piedi del condannato dei pesi di modo che la trazione esercitata fosse maggiore e quindi più gravi erano i danni arrecati; questa pratica causava strappi muscolari, articolari, difficoltà nella respirazione e dolori fortissimi.

Un’altra forma di supplizio era il potro (o escalera), e si trattava di una sorta di scala a pioli poggiata su dei cavalletti. La vittima veniva fatta distendere in modo che la testa risultasse più in basso del corpo, e mantenuta ferma da una cinghia in prossimità della fronte e del collo; sottili funi venivano attorcigliate alle braccia, alle cosce e ai polpacci; le estremità delle funi venivano poi legate a dei bastoni, collegati a loro volta al potro tramite anelli di ferro. Questi bastoni venivano girati in modo da far torcere le funi, che tendendosi sempre di più danneggiavano gli arti lacerando le carni della vittima.

C’era poi la toca che era la tortura dell’acqua. Il prigioniero veniva immobilizzato tramite delle corde su un potro, la scala era inclinata e la testa della vittima doveva stare più in basso rispetto ai piedi. Lo si forzava a mantenere aperta la bocca o gli si infilava una porcella di ferro per mantenere divaricata la cavità orale, successivamente gli veniva posta in gola una striscia di lino zuppa d’acqua, spesso mista ad aceto e sale, che gocciolava lentamente. La vittima era costretta a ingerire l’acqua rischiando il soffocamento. Per versare l’acqua e garantire un flusso costante ci si serviva di un orcio che conteneva approssimativamente un litro d’acqua. Nella stessa seduta di tormento si potevano somministrare fino a otto orci d’acqua.
La toca era spesso usata su imputati compromettenti poiché aveva il vantaggio di non lasciare segni esterni.

Banco di stiramento – Museo della Tortura, Siena

Altre forme per incutere sofferenza erano il ferro incandescente che creava delle ferite insopportabili, o lo strappo delle unghie, oppure lo schiacciamento dei seni, riservato alle donne accusate di stregoneria.

Il processo che ne derivava aveva lo scopo di riportare i colpevoli, se possibile, sulla retta via, per cui le pene che venivano comminate sarebbero dovute servire ad espiare i peccati, estirpando la colpa commessa, e raggiungere il perdono grazie all’operato del Sant’Uffizio.
Ogni penitenza che il condannato doveva subire era già stabilita in base alla colpa, ma ogni inquisitore aveva poi la facoltà di modificare le pene, che erano di diverso tipo: umiliazioni pubbliche, detenzione, esilio, multe, pene spirituali, e in ultimo anche la morte.
Le pubbliche umiliazioni dovevano servire anche ad ammonire la popolazione tramite un provvedimento esemplare. L’elemento della vergogna diveniva fondamentale nella celebrazione degli autodafé in piazza o nelle chiese, alla presenza di un pubblico numeroso e sotto gli occhi delle autorità, che vi presenziavano dopo un invito formale. I penitenziati dovevano assistere alla lettura delle loro colpe con i piedi scalzi, con la testa scoperta, privi di cintura, e tenendo un cero acceso tra le mani. In base alla propria colpa, portavano addosso anche il simbolo che contrassegnava il delitto compiuto. Un elemento peculiare era la coroça, il copricapo conico simile alla mitria, sul quale venivano scritti i motivi della condanna. Altri elementi simbolici potevano essere la fune al collo, un morso  in bocca, oppure della paglia appesa al petto, che sottolineava la bestialità delle azioni compiute.

Dopo l’inevitabile confessione e la relativa condanna per eresia, il malcapitato veniva ceduto al potere civile che era investito della procedura che portava all’esecuzione.

La cerimonia, chiamata appunto autodafé, aveva inizio con la celebrazione della messa nella chiesa più vicina al luogo in cui si stabiliva il cerimoniale; all’alba, e tra la folla, gli accusati venivano accompagnati nei luoghi della processione, in testa c’erano coloro che si erano macchiati di reati minori, in coda stavano invece gli inquisiti che avevano rifiutato il pentimento e che erano condannati alla pena capitale. Il morituro, scalzo, portava addosso solo un saio grezzo, e chiudeva il lungo corteo seguito da soldati, religiosi e dagli appartenenti alla Confraternita della Buona Morte. I condannati venivano spesso anche imbavagliati in modo che non potessero rivolgersi alla folla.
L’autodafé poteva durare fino a notte fonda e il culmine veniva raggiunto dopo la lettura, a gran voce, dei crimini commessi dai prigionieri, e le conseguenti pene che venivano loro comminate. Teoricamente, soltanto in quel momento si scopriva il motivo per cui gli accusati erano spariti dalle loro comunità.

I condannati che, ancora una volta, si rifiutavano di pentirsi, avendo avuto la possibilità di abiurare e di convertire la pena capitale in penitenze non definitive ma senza dubbio dolorose, venivano condotti a dorso d’asino fino al luogo preposto per la conclusione del cerimoniale, dove venivano arsi vivi.
Quando poi tutti i detenuti erano ormai morti, i boia ravvivavano il fuoco per incenerire i cadaveri.

Per gli uomini, nei casi più fortunati, la condanna al remo nelle galere era considerata una pena clemente. Anche i religiosi talvolta sbagliavano, ma per loro era scontata la condanna al lavoro coatto presso un ospedale o un lazzaretto. Le donne venivano invece condannate quasi sempre al rogo.

La delazione e la denuncia anonima si trasformarono in un ottimo mezzo per eliminare nemici o contendenti, usata anche da nobili e feudatari. Col tempo, però, le divergenze tra Inquisizione e poteri pubblici diventarono sempre più aspre, tanto che, nel 1562, fu inviato il nuovo inquisitore Diego Calvo, il quale operò in modo ancora più repressivo.

Famoso fu il procedimento contro il francescano Arcangelo Bellit, reo di aver negato l’esistenza del purgatorio e della presenza di Cristo nell’ostia. Il Bellit riconobbe i suoi delitti ed evitò la pena capitale, subendo comunque la condanna al carcere a vita.

Il Bellit fu anche uno degli accusatori di Sigismondo Arquer, avvocato fiscalista di Caller, e per questo motivo ottenne la diminuzione della pena a tre anni trasformati poi in un rilievo di biasimo.

Diego Calvo riaprì il procedimento contro l’Arquer, accusato di eresia e già assolto dal precedente inquisitore facente funzioni, l’arcivescovo Antonio Parragues de Castillejo. Una serie di indagini e di testimonianze, tra le quali il libro “Sardiniae Brevis Historia et Descriptio”, scritto dall’Arquer e sfortunatamente inserito dal luterano Sebastiano Munster nella sua “Cosmographia Universalis”, furono però decisivi per la sua incriminazione. Arquer fu arrestato e trasferito in Spagna dove venne condannato e giustiziato a Toledo nel 1571.

Museo della Tortura, Siena
Sedia inquisitoria – Museo della Tortura, Siena

L’inquisitore Calvo si prodigò nell’opera di scoprire e punire coloro che praticavano il protestantesimo, ma spesso le accuse erano inventate ed esagerate e sfociavano in vere e proprie persecuzioni.
Il Calvo accusò di luteranesimo anche diverse autorità religiose, uomini di governo, persone di cultura, medici e giuristi, e i suoi comportamenti erano spropositati e crudeli, e le sue pene aspramente severe.
Nel 1563 venne celebrato un autodafé in cui vennero eseguite contemporaneamente tredici condanne a morte, mentre settanta persone dovettero subire torture e supplizi. Si trattò di una persecuzione talmente efferata che generò anche il sospetto che l’inquisitore non fosse sano di mente.

Dopo il clamoroso caso della viceregina, Maria de Requesens, e la condanna al rogo di Sigismondo Arquer, l’Inquisizione sarda iniziò infatti ad operare per via patrimoniale, appropriandosi dei beni degli inquisiti.

Alla fine dello stesso anno, senza apparenti motivi, Diego Calvo volle trasferire la sede del Tribunale del Sant’Uffizio a Sassari dove si instaurò ancor prima che la sede prescelta fosse terminata. Da più parti si stava facendo notare che a Caller era pronta un’insurrezione, ed è probabile che fu proprio per questo che l’inquisitore decise il trasferimento, con grande tempismo, per evitare danni all’istituzione che presiedeva, ma soprattutto per salvare se stesso.