La guerra, con gli occhi di mio nonno

La città di Cagliari devastata dalle bombe – via Roma

La guerra, per tutti gli italiani, è cominciata il 10 giugno 1940, quando Mussolini ha pronunciato la storica dichiarazione dal balcone di Palazzo Venezia a Roma e ha spinto l’Italia al fianco della Germania in un’avventura che si sarebbe conclusa in tragedia.

A Cagliari, come nelle altre città, le parole del Duce arrivano sulle frequenze radiofoniche degli apparecchi casalinghi e dagli altoparlanti disposti nelle piazze, ma, almeno all’inizio, non sembra esserci molta preoccupazione, nonostante agli angoli delle strade siano già comparse le scritte nere che indicano, con una freccia, i rifugi antiaerei.

Gli annunci fascisti promettevano vittorie mirabolanti, e infatti le prime scaramucce francesi, già una settimana dopo, non produssero danni di rilievo. Di lì a poco, la stessa Francia avrebbe firmato anche una tregua per uscire dal conflitto.

Ciò che non ci si aspettava, però, era che il suo ruolo nel Mediterraneo sarebbe stato subito ricoperto dagli inglesi con la cosiddetta “Forza H”, con tre navi da battaglia e la famosa portaerei Ark Royal, la quale aveva il compito di proteggere i convogli degli Alleati con i preziosi rifornimenti di carburante.

Alla quotidianità periferica e tranquilla di Cagliari iniziarono di conseguenza ad imporsi le prime nuove abitudini della guerra: l’ora legale, la chiusura anticipata degli esercizi pubblici, il divieto di apertura per le sale da ballo, le maschere antigas e gli allarmi aerei, che in principio sprigionavano un misto fra paura e curiosità, poiché ad essere colpiti erano principalmente gli obiettivi militari lontani dal centro abitato, come gli aeroporti (Elmas, Decimomannu, Monserrato, Villacidro, Borore, Milis, Alghero-Fertilia e Olbia-Venafiorita), i porti (Cagliari, Olbia, Alghero, La Maddalena, Arbatax, Porto Torres) gli autoreparti, le aviorimesse dove erano ricoverati gli idrovolanti, le basi logistiche e i magazzini.

da “L’Unione Sarda”

La Sardegna, fin dall’ingresso in guerra dell’Italia, aveva rivestito un ruolo importantissimo nella strategia militare, e nello scacchiere Mediterraneo rappresentava un vero avamposto. Le forze aeronavali, qui dislocate, avevano la funzione di garantire non solo la protezione dei velivoli italo-tedeschi che rifornivano le truppe impegnate in Africa, ma anche quella di intercedere i convogli inglesi che facevano la spola tra Gibilterra, Malta e Alessandria d’Egitto.

Dei quasi sei anni che durò la Seconda Guerra Mondiale, la nostra penisola ha vissuto soltanto i cinque anni fra la dichiarazione di guerra di Mussolini all’Inghilterra e alla Francia (10 giugno 1940) e la Liberazione (25 aprile 1945). Ma per quella parte dell’Italia che si ritrovò “liberata” al momento dell’armistizio dell’8 settembre 1943, la guerra durò, praticamente, soltanto tre anni e qualche mese.

In questa moltitudine di destini, alla Sardegna ne toccò uno tutto diverso: l’isola fu l’unica regione d’Italia (e delle poche dell’intera Europa) dove non passò la guerra guerreggiata, ma non fu nemmeno risparmiata dalla più terribile e distruttiva battaglia che veniva dal cielo e dalle incursioni micidiali condotte dagli aerei Alleati, intensificate e moltiplicate man mano che la penisola italiana diventava sempre più il bersaglio dell’attacco finale alla “fortezza Europa”.

Gli inglesi iniziarono subito le azioni di disturbo sugli obiettivi italiani, soprattutto dell’Aviazione, che aveva basi operative molto importanti nei nostri aeroporti. E benché le prime missioni nemiche non produssero risultati rilevanti, fecero ugualmente capire ai cagliaritani e ai sardi che non si poteva stare tranquilli.

Durante il secondo anno di guerra per il nostro Bel Paese, mio padre era solito accendere la radio per seguire il giro d’Italia, e ci distraeva con le musiche dei cantanti di grido dell’EIAR (Ente italiano audizioni radiofoniche). Ben presto, però, ci accorgemmo che anche per noi stavano incominciando i problemi. Le interruzioni radiofoniche, la fila, l’oscuramento, un cumulo di imposizioni che iniziavano a rendere la vita molto difficile. A sera, mio padre ci vietava di uscire, mentre lui, una volta varcato l’uscio di casa, doveva muoversi per strada con un distintivo fosforescente e una lampadina tascabile schermata. Le poche auto dovevano coprire i fari e dipingere di bianco i parafanghi anteriori. Sui tram conduttori e bigliettai, ad ogni fermata, avevano l’obbligo di gridare il nome delle vie, poiché con il buio non si riusciva più a capire niente.

Nonostante tutto, la nostra vita quotidiana non aveva subìto traumatici cambiamenti: il pane non era ancora razionato, anche se era stata annunciata la possibile limitazione all’acquisto di altri beni di consumo come il sapone, lo zucchero e il caffè. Ricordo che ai vetri delle finestre avevamo incominciato ad incollare strisce di carta per evitare che andassero in frantumi con le esplosioni, e che ci avevano obbligato a chiudere le imposte affinché la sera non filtrasse la luce. Dopo una certa ora le strade erano deserte, e questo era il cambiamento più evidente, perché al mattino tutto tornava normale”.

La Sardegna era tutto sommato ancora lontana e periferica rispetto alle zone calde, e per questo motivo, i cagliaritani hanno vissuto con una certa tranquillità questa parte del conflitto.

La Torre dell’Elefante miracolosamente rimasta illesa

Il 14 maggio è caratterizzato dalla presenza di Benito Mussolini in città, e tra le vie si respira una confusa e singolare aria di festa. Cagliari è impegnata a non sfigurare davanti al capo del fascismo, ma soprattutto a mostrarsi pronta ad un probabile attacco alleato.
L’ingresso in città del Duce è trionfale: attraversa via Sant’Avendrace, passa in viale Trieste, per giungere poi in piazza del Carmine, dove sale nel Palazzo del Governo per salutare la folla dal balcone (oggi il palazzo ospita la scuola Sebastiano Satta) affiancato dal Prefetto e dal comandante del Corpo d’Armata. Dopodiché si reca in via Baylle, dove c’è la Federazione dei Fasci di Combattimento, poi al comando Marina, al Campo Dux per il saggio della GIL, e infine si concede una passerella in via San Bartolomeo. Costeggiata la Sella del Diavolo giunge al Poetto dove passa in rivista i reparti dell’Esercito e segue la successiva sfilata delle truppe. Le folle acclamanti sono ovunque e lo incitano fino alla sua ripartenza dall’isola.

Purtroppo, dopo la visita di Mussolini in Sardegna, le incursioni aeree nemiche iniziano ad essere più frequenti, micidiali e distruttive.

La notte fra il 2 e il 3 giugno viene lanciata su Cagliari la prima bomba di grandi dimensioni. Era stata caricata ad alto esplosivo e pesava, secondo gli esperti, mezza tonnellata. Dopo il lancio di bengala per illuminare la città, l’ordigno cadde su viale Cimitero, rovinando un tratto delle ferrovie complementari e alcune tombe del campo santo. Lo spostamento dell’aria, per un raggio di un chilometro in linea d’aria, abbatté muri, scardinò finestre e smantellò saracinesche.

Cinque notti dopo, il bilancio fu più pesante: le bombe caddero sul Largo Carlo Felice e in Via Angioy, 14 le vittime civili e 7 i feriti. Furono chiuse precauzionalmente le prime scuole e qualche cagliaritano cominciò ad abbandonare la città. Il buio e il silenzio in cui si imponevano le sirene, i boati delle esplosioni, il suono delle mitraglie, amplificava la paura fino a farla diventare terrore, faceva crescere la tensione e la solitudine, aumentava i pericoli e il senso di smarrimento che mai si era avvertito prima di allora.

Il 1943 è un anno orribile per la Sardegna, poiché i bombardamenti su Cagliari, in questo quarto anno di guerra, sono legati soprattutto alle intenzioni degli Alleati sul da farsi in merito all’azione di terra in Europa.

Castello – Via Canelles e Piazza Palazzo

Si programma lo sbarco in Sicilia, ma la Sardegna è, comunque, interessata da questa operazione nemica perché occorreva distogliere l’attenzione dei tedeschi dal vero obiettivo. Vennero messe in atto una serie di manovre strategiche e diversive, e una di queste fu quella di far ritrovare sulle coste spagnole il cadavere di un ufficiale del servizio segreto inglese con al polso una borsa che conteneva i piani falsi dell’invasione della Sardegna. Una seconda azione, decisamente più drammatica, prevedeva invece il bombardamento a tappeto della stessa Sardegna per convincere i tedeschi che c’era un interesse sull’isola in previsione di una massiccia occupazione.

Si intendeva in questo modo diffondere un terrore generalizzato che avrebbe dovuto portare al distacco degli italiani dal cobelligerante tedesco, ma si ottenne invece un nulla di fatto, tanto che a febbraio, il calvario di Cagliari e della Sardegna ebbe sciaguratamente inizio.

Preceduta da brevi azioni condotte in genere su porti, aeroporti e strutture stradali e ferroviarie, ma anche alla rinfusa sulla popolazione civile, sulle case e sugli ospedali, la grande stagione dei bombardamenti sulla Sardegna durò cinque lunghissimi mesi, dal febbraio al giugno del 1943. Una stagione di morte, distruzione, fame e sofferenze inenarrabili, il cui obiettivo è manifesto anche nei testi dei volantini che ripetutamente vengono lanciati sulla città. L’intento della propaganda era quello di incidere sul consenso degli italiani per i nazisti fino a costringerli a schierarsi contro il popolo tedesco.

Febbraio è il mese in cui inizia la girandola infernale, e il 17, mercoledì, per la prima volta fanno la loro comparsa gli americani. Apparvero di giorno, alle 14.10, e tutto d’un tratto il cielo fu oscurato da 105 aerei. Si trattava dei B17 (le “Fortezze Volanti”) e dei caratteristici caccia pesanti di scorta a doppia fusoliera (i Lightening P38) che, tutto d’un tratto, incalzano il centro abitato: i morti sono 96.

È il primo “vero” bombardamento sulla  città, l’inizio della feroce odissea che avrebbe ridotto Cagliari ad un cumulo di macerie.

Sono stati tanti i testimoni che hanno assistito a questi bombardamenti: in gran parte si trovavano in strada, altri si affacciarono istintivamente dai balconi delle case. In certi quartieri la curiosità fu fatale a molti perché inconsci del pericolo, anziché correre o stare al riparo, si esposero alle mille taglienti schegge degli spezzoni che venivano giù a grappoli, esplodendo sui tetti e nei cortili delle case, nel selciato delle vie e delle piazze cittadine.

Una prima grandinata di spezzoni e bombe passò sulla direttrice via Nuoro-via Barone Rossi-viale Bonaria-viale Diaz; un’altra, dallo spiazzo davanti alla chiesa di San Michele, s’abbatté su Stampace sino a Castello e poi giù per il Terrapieno sin verso Genneruxi. Alla stazione delle Ferrovie Complementari, dove c’erano persone che aspettavano il treno, fu una strage.

da “L’Unione Sarda”

L’atroce anno di Cagliari era cominciato, e prima che la caduta del fascismo accelerasse l’uscita dalla Sardegna dal teatro del conflitto, non solo la capitale ma tutti i centri maggiori dell’isola avrebbero conosciuto le bombe, il terrore e la morte.

Alla pesantezza dell’attacco americano, però, non corrispose un aumento della preoccupazione tra la popolazione. I volantini lanciati sulla città minacciavano pesanti sciagure per il capoluogo sardo, e invano, anche la stampa e la radio provarono ripetutamente a persuadere i cittadini, senza però riuscire a convincerli dallo stare lontani dai porti e da quelli che erano considerati obiettivi militari pericolosi. Gli allarmi diventarono sempre più frequenti in tutta l’isola, ma nonostante questi presupposti i cagliaritani non abbandonarono la città.

Quel giorno mio nonno si trovava ancora a scuola. “D’improvviso il vibrare dei vetri alle finestre e, sempre più cupo, fragoroso, agghiacciante, il rombo a singhiozzo che riempiva l’aria, lo stesso già udito dieci giorni prima durante l’attacco dei bombardieri americani sull’aeroporto di Elmas. Il forte rumore ci spinse verso le finestre dell’istituto elementare posto all’angolo di via Temo; poi una lunga serie di scoppi, secche detonazioni a strappo come mortaretti nelle feste paesane. Nitidi e brillanti, apparvero in rapida fila piccoli lampi che sparivano in nuvolette nere. L’urlo lacerante delle sirene d’allarme ci allontanò dalle finestre, al riparo. E poi di corsa per le scale fin giù al pianterreno.

Angoscia e terrore non frenarono la nostra curiosità di ragazzini quando più tardi ci portammo nei luoghi colpiti: la stazione ferroviaria, il viale Colombo, le viuzze di Stampace, specie nei pressi del rifugio di Santa Restituta, dove più penosa e cruenta era stata la strage di donne e bambini falciati allo scoperto. Sul terreno solo le tracce dell’immane ed inattesa tragedia, con larghe chiazze e lunghi rivoli di sangue, cavalli e muli sventrati e le piccole strane buche dove erano esplosi gli spezzoni; buche frangiate a raggiera dalle lunghe righe delle taglienti schegge sull’asfalto e sul granito; sui muri sforacchiati, ancora lembi di carne e ciuffi di capelli..

Sono sempre stato un bambino curioso, e quando i miei genitori ci portavano in strada – all’epoca eravamo 5 figli – mio padre ci faceva mettere in fila indiana e ordinava che il nostro sguardo guardasse dritto, senza voltarci, ma io sapevo cosa c’era tutto attorno, perché in quei luoghi, seppure di nascosto, c’ero già stato..“.

Lo smarrimento dei cagliaritani il giorno dopo è grande: per la prima volta devono fare i conti con tanti morti e feriti: amici, parenti, conoscenti.

Il Corso Vittorio Emanuele II

Il 26 pomeriggio è una splendida giornata. Il cielo è luminoso e chiaro quando una ventina di B17 rovescia sulla città 50 tonnellate di bombe sulla direttrice Bonaria-Castello-Stampace. Il bollettino parla di 73 morti e 286 feriti.

Riconobbi immediatamente quei terribili aerei all’istante in cui avvertii quel primo, lontano, mugolio. In quel momento mi trovavo per strada insieme a mio fratello maggiore e ricordo che ritornammo di corsa a casa, in un palazzo della ex Cementeria di via Santa Gilla. Mio padre lavorava come capo elettricista e al piano inferiore della nostra casa c’era un’enorme placca in lamiera che serviva per pesare i camion carichi di cemento. Noi scendevamo lì sotto per poi infilarci all’interno di una galleria attrezzata con dei tavoli e dei letti di legno per le quattro famiglie, tra cui la nostra, che abitavano lo stabile. A bombardamento concluso, benché ancora tremante e frastornato dal sinistro rombo cupo degli incursori e dal rullo immenso delle esplosioni che anche allora mi avevano risparmiato, sfiorandomi appena, folle di terrore ritornai di nuovo in strada dove tutto intorno, nel giro di poche ore, appariva strano, improvvisamente mutato nelle sue linee e contorni familiari. Strade e piazze butterate di larghi crateri, il terreno ricoperto da uno spesso manto di polvere, mista a sassi e frantumi di vetro.

Non trovandomi al rifugio insieme ai miei fratelli, mio padre mi venne a cercare per portarmi con lui da alcuni parenti in via San Lucifero. Le strade non erano più deserte, le bombe avevano colpito numerose case attorno a piazza Garibaldi dove c’era anche una fila di bottegucce di artigiani di solito molto affollate; in una fontana accanto molti cittadini, non avendo l’acqua in casa, andavano a rifornirsi con le brocche. Fu una strage. Ci raccontarono che in un attimo quella zona fu invasa da polvere e da un acre fumo; dietro quella cortina vedemmo infatti decine e decine di corpi, alcuni smembrati; da sotto le macerie spuntavano mani e gambe di persone travolte dai crolli“.

Le bombe cambiarono i profili delle case e tra le macerie, svanita la polvere, morti e feriti erano mischiati ai detriti. Anche stavolta gli obiettivi principali, navi e installazioni portuali, non erano stati colpiti. I danni erano tutti evidenti negli edifici, pubblici e privati, e le vittime erano tutte civili.

I tetti di Stampace

La gente fugge da Cagliari e comincia lo “sfollamento”.  La drammatica mancanza di cibo e di altri beni essenziali della vita quotidiana hanno prolungato la guerra, se così si può dire, fin dentro ogni casa, nel cuore di ogni famiglia. Con ogni mezzo i cagliaritani cercano disperatamente rifugio nei piccoli paesi, in alloggi di fortuna, portandosi dietro pochi stracci in una valigia. Soffriranno spesso la fame, spessissimo umiliazioni e amarezze.

Noi non sfollammo, ma tanti miei amici partirono con le loro famiglie. Attraversando la piazza del Carmine vedevo la gente che, dai piani superiori, gettava le valige e le borse delle finestre. Cercavano scampo nella fuga, chi avvolto in lenzuola o coperte, in pigiama, scalzi, tenendo fra le mani quanto più si poteva. Si pensava di salvare la cosa più cara, la vita. Accompagnai il mio migliore amico per un pezzo unendomi anch’io alla fila, arrivammo in viale Trieste in “processione”, dalle strade laterali confluivano altri fuggiaschi che ingrossavano la colonna dei disperati..

Dai paesi più o meno vicini alla città, molti scoprirono presto un modo rapido di fare quattrini e scendevano a Cagliari, carichi come muli, con le provviste che avrebbero trovato facile mercato. Portavano pane fatto in casa, salumi, formaggi, olio, farina, dolci, legumi, uova, polli, carne macellata clandestinamente e quant’altro veniva richiesto dai clienti fissi. Riempivano le loro valigie di cartone, legate saldamente con lo spago, sacchi e sacchetti, e nell’arco della mattinata, distribuivano quanto avevano portato. Se ne andavano con il primo mezzo a disposizione, e poi rincasavano in paese per preparare il carico per ritornare a Cagliari il giorno dopo.

Mancava anche il sapone, il filo da cucire, gli aghi, i bottoni, la tela per le lenzuola, era difficile trovare scarpe e moltissime altre merci utili. Il caffè era stato sostituito con ceci e orzo, tostati.
Dopo i massicci bombardamenti dei primi mesi di quell’anno, le cose precipitarono. Alla gente povera continuò a mancare tutto, mentre chi era stato un po’ più benestante riusciva a sbarcare il lunario, anche se con molti sacrifici, barattando biancheria e utensili, o altre scorte ancora presenti a casa.

da “L’Unione Sarda”

Il 28 febbraio, domenica mattina, le strade sono animate e per molte famiglie c’è la messa mattutina. Altri passeggiano senza sapere che le sirene, danneggiate dal bombardamento del 26 non funzionano più. Solo il ronzio dei motori li avverte di quello che sta per accadere.

Alle 12 e 40 inizia l’inferno. 85 aerei in tre ondate successive, quasi interminabili, buttano giù 583 bombe per 123 tonnellate di esplosivo, ci furono oltre 200 vittime, secondo le cifre ufficiali, e alcune centinaia di feriti.

Quel giorno il terreno viscido di sangue era cosparso di decine e decine di corpi senza vita e di feriti. Ai gemiti e alle invocazioni si univano le urla di dolore o di disperazione di quelli che, fra i morti, avevano ritrovato i propri congiunti. I cadaveri erano per lo più sfracellati, mutilati, altri intatti con gli occhi sbarrati; altri ancora, nelle pose più strane, erano contorti, ripiegati su se stessi per effetto delle ossa frantumate; molti erano completamente nudi. Si vedevano inoltre, sparse ovunque, carogne di animali, e tra il fogliame dell’alberato e dei giardini devastati dalle esplosioni, pendevano dai rami corpi e membra umane. Saranno fotogrammi che non riuscirò mai più a togliermi dalla mente”.

La città aveva assunto una fisionomia spettrale. Molti cercano parenti e amici, non sanno se sono morti o feriti. Chi si è salvato mette insieme poche cose e scappa dalla città. Lo sfollamento che era già iniziato ed era cresciuto progressivamente con gli ultimi bombardamenti, ora diventava un esodo di massa. Si cerca riparo in paesi più sicuri, da parenti, amici oppure presso sconosciuti. Si va via a piedi, con le poche auto ancora disponibili, sui carri, sui camion, in treno. Molti si ammassano per partire nelle due stazioni cercando di trovare un posto nei vagoni stipati di gente. Tanti cagliaritani troveranno rifugio nelle grotte cittadine e molti di loro ci rimarranno ad abitare per anni perché a guerra finita non troveranno più la loro casa.

Marzo passa più tranquillo, ma i bombardamenti di fine mese fanno gravi danni nel porto di Cagliari. Ad aprile, invece (si avvicina il momento dello sbarco in Sicilia), le incursioni subiscono un’improvvisa accelerata. Il mese del martirio però è maggio. Il 13, fra le 13.38 e le 14.30, 197 bombardieri e 186 caccia sganciano in tre ondate successive 893 bombe su Cagliari: la città è trasformata in un ennesimo ed immenso cumulo di macerie. A fine conflitto, dei 4500 edifici della città, il 16% sarà dichiarato interamente distrutto e il 63% gravemente danneggiato.

A notte gli Wellington inglesi completano l’opera con bombe e spezzoni incendiari. Da giugno in poi gli obiettivi sono soprattutto militari; in agosto solo aerei da caccia che passano sopra i cieli, e a settembre la radio annuncia che l’Italia esce dal conflitto.

Ci saranno ancora giornate terribili per Cagliari, perché la città conoscerà la fame e le restrizioni dell’isolamento totale, ma la guerra per i cagliaritani finisce davvero in quei tiepidi giorni di settembre.

Noi soffrimmo le restrizioni, ma mai la vera fame. Mio padre lavorò anche durante la guerra e per questo motivo riuscimmo sempre ad avere qualcosa nel piatto. Quando poi a terra arrivarono gli americani, il gruppo di lavoro di mio padre iniziò a rifornire di luce le tende dei contingenti accampati dietro la ferrovia e la via Po, per avere in cambio wurstel, farina, zucchero, sapone, chewing gum (…) e la domenica anche la carne di gallina e il vero caffè“.

La grande cupola della chiesa di Sant’Anna squarciata dalle bombe

Nei successivi venti mesi, Cagliari e la Sardegna si ritrovano, curiosamente, ormai fuori dalla guerra. Andati via i tedeschi nel giorno dell’Armistizio, nella seconda metà di settembre sbarcano gli Alleati. Fuori dalla Sardegna si combatte ancora, in Sardegna si segue con passione tutto quello che succede oltre il mare. Ma soprattutto, si ricomincia a vivere. La vita non è facile, perché i collegamenti con la penisola riprendono molto lentamente; c’è poco da mangiare  (nelle città continua la vendita del cibo a “borsa nera”, quella che i cagliaritani chiamano “sa martinica”), mancano oggetti e materiali essenziali anche per la vita di ogni giorno, i prodotti sardi trovano difficilmente la via dell’Italia liberata, dove peraltro c’è una forte inflazione, perché la lira perde continuamente valore. Ma gli Alleati portano gli aiuti alimentari, e nelle città la loro presenza comincia ad abituare sempre più gente a vivere, o a cercare di vivere, come gli americani.

C’è però anche il desiderio di mettere subito mano alla ricostruzione di tutto quello che la guerra ha distrutto: non solo i palazzi, anche la stessa libertà.

Se è vero che Cagliari fu decorata di medaglia d’oro al valore militare per il disumano sacrificio che toccò alla sua popolazione, è ancora più vero, forse, che a Cagliari andrebbe assegnata un’altra medaglia per il coraggio con cui la vita fu ripresa, le case rimesse in piedi una per una, le ferite risanate, le strade riaperte, i palazzi ricompattati, le pareti ridipinte. Di cicatrici ne rimangono ancora, grandi e piccole, ma quasi nessuno oggi, a vederle, può immaginare di quale disastro sono il ricordo.

Ci fu un momento in cui addirittura ci si disperò anche lì, sul bordo del Golfo degli Angeli, perché si pensò che non potesse rinascere la vita, che non potesse ricominciare il denso vai-e-vieni di persone, di mezzi, di cose e di navi che avevano fatto tutt’uno nell’immagine di Cagliari come l’avevano colta i viaggiatori di ogni tempo. Solo le torri pisane erano rimaste intatte, e forse erano state proprio loro a garantire che nulla era finito, che tutto sarebbe ricominciato, come spesso succede nella storia, e più spesso ancora è accaduto nel passato di Cagliari.

La testa dura dei cagliaritani ebbe la meglio sui brutti pensieri, e così si incominciarono ad organizzare squadre di volontari: uomini, donne, ragazzi. In appena due mesi le strade vengono liberate dalle macerie. Inizia il restauro dei palazzi meno danneggiati, a cominciare dall’edificio del Comune. Il 1944 è l’anno della solidarietà e i nuovi responsabili dei partiti politici, tra i quali mio zio, Giovanni Lay, lanciano un appello perché vengano ripristinati al più presto i servizi essenziali come la nettezza urbana, le fognature, l’acquedotto, la luce elettrica, la sorveglianza annonaria. Ma anche il risanamento igienico, e soprattutto la rinascita della campagna umanitaria oltre che un piano per debellare la malaria. Si aprono i “granai del popolo”, in modo da garantire la farina ai fornai cittadini e mettere in vendita il pane senza tessera, per la prima volta dopo quattro anni. Era necessario che i prodotti di prima necessità, pane, latte e derivati, non venissero più a mancare.

25 luglio 1943: la fine di Mussolini

Finalmente, poi, arriva anche il momento che tutti aspettavano: il 25 aprile 1945 il suolo della Patria è stato interamente liberato.

E il 1945 per i cagliaritani ha decisamente un altro sapore, più gustoso. È scoppiata la pace. Nessuno pensa che tutto sarà rose e fiori, c’è ancora da lavorare tanto, per la ricostruzione di Cagliari, della Sardegna, dell’Italia. Il peggio è passato, è finito il tempo che ha terremotato le coscienze. Adesso non bisogna seppellire i ricordi amari, ma raccontare alle generazioni future “gli anni della bufera”. Perché non si ripetano. Mai.

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Gli Alleati: Francia, Inghilterra, Usa, Urss.

L’Asse: Germania, Italia, Giappone, e poi Finlandia, Romania, Ungheria, Bulgaria.