Quando in Castello abitavano nobili e signori

I sovrani Umberto I e Margherita di Savoia appena sbarcati a Cagliari, ossequiati dalle autorità.

Con le sue strade strette, le scale ripide, i sottani, gli androni scuri e i balconi fioriti, i palazzi cadenti, e quel senso di miseria che trasmettono alcuni muri scrostati e le crepe, in questo luogo non ti senti triste. La ragione è soprattutto una. Dopo aver vagato per le stradine buie, improvvisamente ti ritrovi a sbucare in slarghi che danno su inaspettati panorami mozzafiato, e dove devi chiudere gli occhi per la luce accecante. Una sorpresa che stupisce perfino chi ancora ci abita, soprattutto quando il vento rende nitidi i contorni di tutte le cose.

Il quartiere più alto di Cagliari sorge durante la prima metà del XIII secolo, ed è l’unico erede delle ormai scomparse altre città che stanziarono in questa antica metropoli nata a ridosso dalla laguna e dal mare.

Castellum Novum Montis de Castro, perché è così che fu battezzato questo centro abitato sbocciato sul colle calcareo, in principio si popolò di genti provenienti dal Comune di Pisa, ed era il 1293, all’indomani della pace di Fucecchio, quando sull’altura arrivò anche Ranieri Sampante, il primo rector civitatis che si ritrovò ad amministrare il nascente borgo. Il podestà era assistito da due Castellani nominati annualmente a Pisa e a loro volta coadiuvati da un consiglio di anziani eletti dal popolo, che era suddiviso in compagnie a seconda delle attività artigianale o commerciale esercitata.

Castello venne quindi abitato da nobili e da facoltosi commercianti pisani, mentre i sardi e le altre comunità iniziarono a stabilirsi nei sorgenti sobborghi di Bagnaria (Marina), Stampace  e Nova Villa (Villanova), dove risiedevano i lavoratori delle attività portuali, gli artigiani e i contadini, gli agricoltori e gli allevatori.

Tutti si recavano però in Castello per commerciare, ed ognuno aveva la speranza di poter un giorno aprire bottega entro le sue mura, poiché quello era il centro economico degli affari ed era lì che abitavano i personaggi politici più in vista e i mercanti più ricchi. Una speranza, appunto, perché all’epoca i sardi venivano cacciati al calar del sole, e a loro non era permesso nemmeno avere un’abitazione in quello che allora era il quartiere più prestigioso.
(Sarà poi solo dopo il conflitto catalano-aragonese contro i sardi del giudicato di Arborea, che il re Alfonso V d’Aragona, con un provvedimento del 1453, permetterà anche agli isolani di poter finalmente avere casa, negozi e botteghe in Castello).

Dopo il dominio dell’aristocrazia pisana, nel 1326 fu la volta degli aragonesi, che arrivarono con i viceré e il loro seguito di nobili e funzionari che fecero della rocca una residenza esclusiva, mentre il popolo continuava a languire in logori tuguri nei tre suburbi satelliti svolgendo i lavori più umili.

Con le famiglie più autorevoli giunsero anche gli schiavi, e numerosi documenti d’archivio dimostrano che la schiavitù fosse, purtroppo, un fenomeno molto diffuso anche nella Cagliari del Quattrocento.

Dalle navi che approdavano nella rada sarda non sbarcavano dunque solo marinai e merci, ma anche esseri umani, sequestrati oltremare e venduti in città come una qualsiasi mercanzia.
Si trattava di uomini e di donne che non provenivano solo dal nord Africa, ma vi erano levantini, greci, turchi, tartari, circassi, russi e ungari. Il prezzo medio di uno schiavo variava tra le 80 e le 115 lire, tuttavia, se era anziano o con qualche difetto fisico, lo si poteva portare a casa ad un prezzo che scendeva sotto le 60. Un uomo robusto o una giovane donna potevano invece costare oltre 160 lire.

Le ragazze che approdavano a Cagliari solitamente avevano un’età fra i 18 e i 30 anni, ma vi sono notizie di sfortunate che erano appena adolescenti. La regola comune era che più erano giovani ed in buona salute, maggiore diventava il loro valore e la loro richiesta.

In genere le schiave, una volta giunte sull’isola, si convertivano al cristianesimo anche se non era infrequente che ciò non avvenisse; in questo ultimo caso il loro inserimento sociale era comunque assicurato dato che la società cagliaritana dell’epoca era multietnica e tollerante.

Le donne erano destinate ai lavori domestici, cioè a servizio delle famiglie nobili e dell’alta borghesia, e più era benestante la famiglia, più servi e garzoni si potevano avere a disposizione, e di conseguenza, migliori erano anche le condizioni di lavoro per la schiava, che poteva così evitare le mansioni più pesanti, come spaccare la legna e andare a prendere l’acqua alla fontana.
Finché erano giovani e in forza, venivano trattate dignitosamente e usate come forza lavoro, anche se, come si può facilmente immaginare, lo sfruttamento era spesso anche di altra natura, essendo queste fanciulle senza diritti, indifese e al completo servizio del padrone che se ne approfittava.

Gli atti notarili ci raccontano che ci fossero padroni più generosi di altri, e che abbiano dato ai propri schiavi la possibilità di riscattarsi, previo pagamento di cifre spesso parecchio superiori al prezzo che erano costati. Avveniva dunque che i proprietari decidessero l’ammontare da pagare, che di solito era una somma di denaro, ma che tuttavia incoraggiava lo stesso a comprarsi la libertà. Dal momento in cui non venivano indennizzati per il lavoro svolto a servizio del padrone, gli schiavi dovevano quindi guadagnarsi i soldi prestando il loro lavoro (nel poco tempo libero che avevano) altrove, come un garzone o una serva qualunque. Alcuni ce la facevano, e prima di pagarsi la propria libertà, cercavano di mettere da parte un po’ di denari in più, per essere finanziariamente indipendenti, una volta affrancati.

Il nuovo status di liberti comportava per le ragazze riscattate un importantissimo salto sociale. Entravano infatti a far parte del ceto della bassa o media borghesia, perché a differenza delle popolane avevano mezzi per provvedere a sé stesse. Potevano quindi aprire una piccola attività, acquisire casa nei borghi satelliti ed assumere a loro volta delle serve bianche e cristiane.

L’ipotesi peggiore per la schiava era l’avanzata degli anni: invecchiare e non poter più lavorare prima di poter pagare la propria redenzione. Spesso, quando perdevano ogni utilità, i padroni non si facevano scrupoli a lasciarle morire di fame nei sottani delle abitazioni, poiché non potevano abbandonarle in strada, e né all’ospedale di Sant’Antonio, che accoglieva le donne povere senza mezzi di sostentamento, ma libere.

I padroni erano quindi responsabili della custodia dei propri schiavi, che non potevano far uscire senza la loro volontà, e spesso nemmeno da soli. Era inoltre vietato portarli in giro dopo il suono della campana del vespro, e prima di quel momento, i maschi, potevano circolare per il borgo solo con le catene alle caviglie.

Il fenomeno della schiavitù si trascinerà tristemente fino alla prima metà dell‘800, quando si farà pressione a livello internazionale per abolire questa pratica crudele. Tuttavia, nel frattempo, i proprietari erano i più svariati, e si andava dai nobili ai medici e ai farmacisti, dai notai e perfino agli ecclesiastici.

Con l’arrivo degli spagnoli, a partire dalla fine del 1400, il colle oltre che degli aristocratici, diventò residenza dei signori in cerca di titoli e onori, dell’alto clero e dei pubblici funzionari con grado più elevato.
Molti feudatari elessero  le loro residenze entro le mura, i palazzi gentilizi si moltiplicarono e la nuova classe mercantile iniziò a sostituire le famiglie blasonate cadute in disgrazia.
Il Castello si trasformò ancora di più in un luogo esclusivo, dove erano concentrate tutte le strutture politiche, amministrative, giudiziarie, l’università, il teatro ed i collegi religiosi destinati ai rampolli delle famiglie più agiate.

L’eredità del patrimonio feudale, nella nobiltà iberica-sarda, era tramandata al primogenito maschile e solo in mancanza di figli maschi si poteva ipotizzare che le proprietà e la ricchezza andassero alla figlia maggiore. Questo sistema aveva però comportato nel tempo l’estinzione di molte famiglie aristocratiche, poiché i figli cadetti tendevano a non sposarsi, ma ad intraprendere la carriera militare o ecclesiastica, mentre le figlie minori spesso erano destinate al convento. Se poi il primogenito moriva senza poter assicurare a sua volta la necessaria discendenza, il nome del casato non aveva più futuro.
Ecco perché era di fondamentale importanza, per far sopravvivere il nome della dinastia, saper intrecciare le giuste relazioni per garantire accordi matrimoniali che, nel lungo termine, avrebbero dato i loro frutti.

Le donne castellane vivevano tutte negli agi e nel lusso. Erano di alto censo e vivevano in palazzi finemente affrescati, dotati di scaloni a più rampe, di cisterne per la raccolta dell’acqua scavate nel tufo, ed androni per il ricovero delle carrozze. Di queste fanciulle d’alto rango, si devono però distinguere due categorie: quelle che venivano educate per il matrimonio, che doveva rispondere a progetti ben pensati di ascesa sociale o di semplice consolidamento del patrimonio familiare, e quelle che invece erano, dalla famiglia, destinate a prendere l’abito monacale.

Non avevano quindi molta libertà in merito alla scelta del proprio futuro e, soprattutto, del marito. Solo quelle che, per fortuna o sfortuna erano rimaste vedove, godevano invece della facoltà di decidere se maritarsi di nuovo, ed eventualmente con chi piacesse loro. Potevano quindi risposarsi con facilità a prescindere dall’aspetto e dall’età, posto che la dote non era certo un problema, e se invece preferivano restare sole per il resto della propria esistenza, vivevano con dignità, godendosi la propria indipendenza.

Le consorti degli uomini facoltosi assumevano un ruolo di mediatrici al più alto livello, favorivano i rapporti informali fuori dai palazzi del potere (che erano riservati esclusivamente ai mariti), organizzavano le  ‘conversazioni’ dove si scambiavano le visite, invitando spesso anche gli ufficiali di rango che sbarcavano in città. I ricevimenti erano l’essenza della vita sociale mondana, l’occasione nella quale mostrare la propria raffinatezza e il benessere economico della famiglia.

La donne aristocratiche avevano anche una buona istruzione, sapevano leggere, scrivere e far di conto, cosa di vitale importanza per poter curare gli affari dei feudi o presso la corte, nei momenti di lunga assenza dei mariti. Erano le padrone della casa, e si occupavano di questa e della famiglia, della servitù e di tutti gli altri dipendenti che avevano al proprio servizio.
La loro era una posizione molto rispettata, al pari di quella del loro consorte, e avevano il privilegio di non conoscere il lavoro fisico, poiché potevano contare su balie, serve e schiave.
L’amore non era un elemento essenziale, ma non necessariamente dovevano farne a meno. Le affinità culturali e di educazione favorivano generalmente un buon rapporto affettivo tra i coniugi e non sempre vi era una significativa differenza d’età tra i due. Altrimenti, le donne di questo rango potevano permettersi un amante, purché la cosa fosse fatta con discrezione. Il marito però non sempre era tollerante, e vi era addirittura chi pretendeva la castità della moglie qualora fosse diventata vedova. Poteva anche accadere che i lasciti ereditari venissero vincolati al mantenimento della condizione vedovile, in alternativa, se la consorte si fosse risposata o prendeva un amante, sarebbe stata privata dei beni lasciati dal marito defunto, che sarebbero passati ai parenti.

Sotto il governo sabaudo, e per quasi 170 anni, Castello fu ancora una volta il centro degli affari e delle residenze degli aristocratici. I piemontesi giunsero portandosi dietro uno stuolo di cortigiani e di funzionari con i loro familiari a seguito, che si impegnarono ad occupare tutti gli edifici disponibili, costruendone di nuovi qualora le abitazioni non erano di loro gusto.

Nel 1799, l’antico borgo ospitò anche la corte dei Savoia, reali compresi, scacciati dal Piemonte da Napoleone.

Nel 1899 però, con la decisione del consiglio comunale di trasferire la sede del Palazzo Civico nell’attuale via Roma, il quartiere iniziò a perdere prestigio decretando la fuga dei signori, che incominciarono a cercare lussuose abitazioni in pianura.

Da quel momento Castello incominciò ad accogliere i ceti meno abbienti, e le sue abitazioni e lo stesso centro abitato, lentamente si avviarono a quel degrado che solo in questi anni si inizia a recuperare per via della sua lunga e avvincente storia.

Oggi, ovunque, c’è un’atmosfera allegra, persone che si parlano dalle finestre e tanti panni stesi. Ma la cosa più straordinaria è che adesso, in questo borgo, si può trovare, anche all’interno di uno stesso palazzo, un miscuglio di classi sociali: intellettuali, poveri, ricchi, disoccupati e artisti.