Nel VI secolo d.C., l’imperatore Giustiniano, che governò l’Impero romano dopo il trasferimento della sua capitale da Roma a Costantinopoli (oggi Istanbul in Turchia), concepisce l’ambizioso progetto di riunificare tutto il vecchio impero, riportando sotto il controllo della corte quei territori che, posti all’estremità occidentale dell’Europa, erano caduti in mano ai cosiddetti Barbari. Il piano prevedeva la riconquista dell’Africa, occupata dai Vandali, che aveva come regno Cartagine; dell’Italia, caduta sotto il controllo ostrogotico di Teodorico; della Spagna, che era andata incontro a un destino storico che l’aveva portata a sottostare alla regola dei Visigoti. Il proposito si dimostrò però particolarmente impegnativo e costoso, e Giustiniano riuscì a realizzarlo solo in parte.
Nell’ambito di questo programma, la riconquista dell’Africa viene compiuta nel corso di una guerra lampo (533-534) che porta al controllo da parte dell’Impero bizantino anche della Sardegna. Il resto dell’Italia cade invece prima sotto il controllo dei Longobardi, poi sotto Carlo Magno (entrando nell’orbita dell’Impero carolingio), e infine è al centro delle attenzioni imperiali della dinastia degli Ottoni e dei loro successori.
La Sardegna rimane in sostanza tagliata fuori da tutti questi avvenimenti, e resterà sotto la totale dipendenza dell’Impero romano di Costantinopoli dal 534 e per i successivi cinque secoli.
Fra il 950 e il 1050, il processo di graduale emancipazione politica porta all’allontanamento dell’isola da Bisanzio e alla creazione di quattro regni autonomi, tanto che attorno al 1060 vediamo ormai configurata una Sardegna non più unitaria, ma divisa in quattro giudicati che avevano ciascuno i propri confini, erano divisi in curatorie, erano autonomi e ogni persona posta al commando, il re o il giudice, era un’autorità suprema.
La Sardegna, nei primi anni di vita dei giudicati, incontra delle difficoltà dovute alle incursioni di genti islamiche, spinte sull’isola dal delicato momento che stava attraversando la Chiesa, che si divideva dando luogo al patriarcato di Costantinopoli e al papato di Roma – il cosiddetto scisma d’Oriente (1054) – due distinte autorità a capo di due differenti Chiese che inizieranno ad avere una vita autonoma l’una dall’altra, fino ad oggi.
Lo scisma d’Oriente pone quindi anche ai giudici e all’aristocrazia Sarda il problema della direzione verso cui andare. Si potevano rinsaldare i rapporti con il patriarcato di Costantinopoli, oppure riconoscersi nell’Occidente e consolidare i legami con il papato romano. Fra le due alternative è facile intuire come la scelta vincente fosse quella di Roma, poiché Costantinopoli era lontana e il potere imperiale veniva percepito come distante. Il papato romano poteva invece legittimare il potere giudicale, e infatti, nel corso della loro storia, i giudici cercheranno sempre un riconoscimento della loro autonomia da parte della Chiesa di Roma.
In questo quadro si colloca anche l’esigenza, da parte dei giudici, di riqualificare il contesto isolano dal punto di vista della devozione, rilanciando il culto dei martiri. Da qui la preghiera al papa dell’invio di religiosi per insegnare, per istruire la popolazione e alfabetizzarla, almeno nei ceti più alti. Si assiste dunque alle richieste da parte dei giudici di frati che si trasferissero in Sardegna, che creassero dei monasteri, che lavorassero, che edificassero per il bene della popolazione, sia come cura delle anime sia come crescita economica del territorio.
Così, chiamati dai giudici di Gallura e di Càlari, da Marsiglia arrivano i monaci Vittorini dall’abbazia di San Vittore, i quali, nel 1063, si insediano inizialmente nella zona di Ardara, a sud dell’odierna Sassari, per poi giungere a Càlari nel 1089.
Arrivano fin da subito grandi donazioni e, ben collocati all’interno dell’Ordine Benedettino, ed esperti com’erano nella filiera produttiva nel ramo saliniero e marittimo, svolgono un ruolo di primo piano nella gestione della politica culturale ed economica.
Fu però la cessione di San Saturno, con l’incarico di fondarvi un monastero, che rappresentò di fatto la donazione, da parte dei giudici di Càlari ai monaci Vittorini, delle chiavi di volta del culto martiriale del Sud della Sardegna.
Il copioso lascito comprendeva un vasto patrimonio terriero, con consistenti quantità di armenti, di servi, e di numerosissimi edifici sacri, come Sant’Efisio di Nora e Sant’Antioco nel Sulcis, tutti promotori locali e templi collegati e dipendenti dalla chiesa di Santa Maria de Portu Salis, che deteneva il controllo delle saline e dei porti per l’imbarco del prodotto. Si trattava insomma di un centro nevralgico del tessuto produttivo calaritano, il fondamento che porterà presto alla rinascita dell’intera isola.
Tutte queste inattese cessioni e le fiorenti attività dei monaci iniziarono però a provocare un primo scontento da parte delle autorità ecclesiastiche locali, titolari sino ad allora dell’immenso patrimonio clericale.
La produzione e la vendita del sale, che divennero attività esercitate prevalentemente dai Vittorini, cresceva a vista d’occhio, tanto da rendere sempre più produttiva l’industria dell’oro bianco, e da alimentare un’attività commerciale con la Francia meridionale, che favorì l’apertura di numerosi empori da parte della classe mercantile della Provenza.
Sul finire del 1189 però, oltre che con le autorità ecclesiastiche locali, i monaci di Marsiglia iniziarono a scontrarsi anche con l’invadenza pisana che ambiva agli stessi traffici. Questi ultimi, con l’intento di scalzare completamente l’Ordine dal possesso delle saline, riuscirono ad ottenere prima il Portu Salis (l’attuale Su Siccu), e successivamente, con la fondazione del Castrum Càlari (1217), a mettere le mani non solo sugli impianti per la produzione di sale, ma anche sulle peschiere e sulle fertili aree limitrofe.
Durante la seconda metà del XIII secolo la vita dei Vittorini si fece ancora più difficile, tanto da fargli prendere la decisione di lasciare Càlari.
Con il loro allontanamento, il monastero di San Saturno venne occupato per alcuni anni dai Confratelli dell’Ospedale Nuovo della Misericordia (1263-1265), mentre nel 1323, durante l’assedio di Càlari, lo stesso edificio religioso si ritrovò inglobato nelle fortificazioni costruite dagli iberici nel colle di Bonaria. Nel 1326, dopo aver patito danni preoccupanti per gli attacchi pisani, subì anche l’oltraggio della demolizione di parte delle sue strutture, che servirono al capitano Berengario Carroz per costruire il Castello di San Michele.
Caduti quindi i legami con la casa madre di Marsiglia e spopolati i conventi sparsi per l’isola, dell’immenso patrimonio rimasero solo le chiese, che continuavano comunque a ridursi col tempo, finché gli ultimi beni dei monaci di San Vittore, nel 1444 (anno della loro definitiva cacciata dall’isola), passarono sotto il controllo definitivo dell’arcivescovado di Càlari.
Ma chi era San Vittore? Una tradizione lo vuole soldato della legione Tebana, e probabilmente è solo un combattente di istanza a Marsiglia, dove consuma anche il suo martirio a causa della fede. È dunque un martire cristiano anonimo, al quale, simbolicamente, viene dato il nome di “Vincitore”, come nell’Apocalisse, dove negli scritti Paolini viene chiamato “il Testimone di Cristo”.
Dopo la morte, i cristiani di Marsiglia ne celano il corpo, quindi in fretta nascondono le sante reliquie in un luogo a lato di una collina, dove avevano scavato nella roccia. Ma attorno al suo sepolcro, pian piano, inizia a svilupparsi il cimitero cristiano della città, dove trovano riposo i resti di numerosi martiri. La catacomba diviene così un punto di riferimento per i cristiani locali e santuario meta di numerosi pellegrinaggi.
Nel 416, nei pressi di quel martyrium si stabilì San Giovanni Cassiano, che lì visse la sua ascesi. Attorno alla sua figura carismatica si raccolsero molti discepoli, dando così vita al primo nucleo di quella che sarebbe divenuta di lì a poco l’abbazia di Saint-Victor, uno dei più celebri centri monastici e culturali d’Europa.