Quella che si sveglia all’imbrunire e che si popola nei sogni e nelle notti insonni, è la Cagliari meno razionale che si materializza in maniera del tutto inconscia e che si muove fuori dalla quotidianità, carica di storie e racconti, leggende o avvenimenti che non vengono trasmessi con i soliti canali della comunicazione, ma entrano a far parte della tradizione orale, quasi bisbigliata, per paura di cadere nel ridicolo. Tuttavia, fra le storie raccontate dagli anziani della vecchia Cagliari sembra esistere davvero un preciso legame, un filo conduttore tra il reale e l’irreale.
È indubbio che i sotterranei del quartiere Castello abbiano suscitato e facciano balenare tuttora un certo senso di mistero negli amanti della città meno consueta, forse perché utilizzati nel corso dei secoli dai diversi eserciti che occuparono la piazzaforte cittadina, o per via delle tristi vicende degli schiavi che hanno scavato i cunicoli per estrarre pietre da destinare all’edilizia. Fatto sta che nel sottosuolo di tanti palazzi nobiliari esiste davvero un dedalo di budelli e cisterne, spesso tenuti segreti, che potevano servire come vie di fuga per eventuali ricercati, tanto che si racconta che qualche cospiratore sia riuscito a sfuggire alle gendarmerie straniere proprio attraverso i labirinti delle vie sotterranee, riuscendo a raggiungere zone fuori le mura, oppure, ottenendo attraverso queste gallerie viveri e armi necessari per la sopravvivenza.
Oggi alcuni di questi passaggi che mettono in collegamento fra loro diversi edifici della parte alta di via La Marmora, si dice siano occupati dai fantasmi di due castellani, anime in pena, irrequiete poiché ancora in cerca di giustizia.
Li chiamano “l’uomo senza testa” e “la marchesina galante”, e si tratterebbe di Jaime Artal de Castelvì, marchese di Cea, e di Clelia Adelaide Denonnis.
Chi ha avuto occasione di incontrarli racconta che si spostino in coppia, e che la loro inquietudine non venga riversata nei vivi provocando spaventi. I due fantasmi si muovono bensì con delicatezza, quasi a scusarsi, chiedendo permesso dell’inconsueta presenza.
Don Jaime, ritenuto colpevole della rivolta nobiliare del 1668 che si concluse, il 21 luglio dello stesso anno, con l’omicidio del viceré don Emanuele Gomez de Llos Cobos, marchese di Camarassa, morì per decapitazione, che venne eseguita il 15 giugno 1671 nel patibolo dell’attuale piazza Carlo Alberto.
Clelia Adelaide Denonnis, che non era affatto marchesina ma discendente di una famiglia patrizia ormai al crepuscolo (all’interno della quale vigevano le rigide regole derivanti dall’orgoglio e dall’onore richiesto per i ceti superiori), morì di stenti, rinchiusa in un tugurio quasi inaccessibile del palazzo di famiglia, posto sotto il ripostiglio dove un tempo erano stipate le vivande. Clelia fu vittima del geloso possesso che aveva pervaso la mente confusa del padre-padrone, Josè Luis Denonnis, abbandonato dalla moglie (che a lui preferì la corte spietata e gradevole di un aitante rampollo che la portò in Catalogna, lasciandogli la bambina), e sconfitto dal cugino di primo grado nella disputa in tribunale per il possesso di un importante fondo agricolo sito fuori le mura (unica fonte di reddito della famiglia Denonnis, determinata dalle colture e dall’allevamento di animali da carne).
La collera di Josè crebbe e si riversò tutta su sua figlia quando seppe che la ragazza aveva accettato, senza consultarlo, la corte di un giovane che, come loro, non vantava un titolo nobiliare. Il Denonnis aveva altri “sogni” per Clelia: la voleva in sposa a un nobile per dare finalmente un casato alla famiglia che, giunta in città durante la dominazione spagnola, andava vantando origini blasonate che in realtà non aveva, ma che con un matrimonio altolocato sarebbe diventata amministratrice di terre e possedimenti, conducendo finalmente una vita compiaciuta, e soprattutto agiata.
Quando trovarono la ragazza, dopo più di due mesi di segregazione, compresero subito che si era lasciata morire perché attorno al suo corpo vennero ritrovati tutti i contenitori con il cibo oramai avariato che le veniva mandato nel tugurio dove il padre l’aveva condannata. Clelia cercava di coprire l’olezzo dei cibi in decomposizione spargendo il contenuto di un flacone di profumo di violetta che era riuscita a portarsi dietro prima di essere rinchiusa. Per tutti era partita per farsi suora a Madrid, per cui la giovane fanciulla non ebbe né un funerale, né una lapide su cui poter essere ricordata.
La scoperta del cadavere di Clelia fu troppo anche per Josè Luis, che finì i suoi giorni reso paralitico dal dolore.
I due spiriti vaganti, morti a distanza di quasi un secolo l’uno dall’altra, si sposterebbero da un palazzo all’altro attraverso i cunicoli del sottosuolo, e la loro presenza sotterranea avvertita dal ticchettio del medaglione in oro massiccio, raffigurante lo stemma del casato del marchese, che batte ritmicamente sulla corazza di ferro, accompagnato nell’aria dal profumo di violetta della marchesina.
Chi invece dice di aver intravisto i fantasmi aggirarsi per le vie del Castello durante le notti di luna piena che precedono e seguono la data della condanna a morte del marchese, racconta che le due entità, accompagnate dall’eco delle scarpe di Clelia e da un’inconfondibile rumore di catene trascinate sui ciottoli delle strade, si muovano uno di fianco all’altra.
Dal luogo della carcerazione (la torre dell’Elefante) si sposterebbero fino a raggiungere la plazuela (il luogo della decapitazione), e poi, con un urlo sordo, sparirebbero inghiottiti nelle viscere di un edificio vicino, lasciando nell’aria un profumo di violetta.