Intrighi e vendette nella Cagliari spagnola

Scena di vita medievale rappresentata nelle piastelle ceramiche esposte al Museo delle Azulejos di Lisbona

È il 1665, e alla morte di Filippo IV, sale al trono il giovanissimo Carlo II. Per via dei suoi quattro anni, governò per lui la mamma, Maria Anna d’Austria, e per la mamma, i suoi ministri, che abusarono del potere mentre gli animi esasperati dei sardi prorompevano in odi privati, fazioni e uccisioni.

A Cagliari erano state convocate le Corti generali, dove, oltre al solito donativo, erano stati chiesti ulteriori sussidi per far fronte alla guerra contro la Francia. La prima voce dello Stamento militare, don Augustìn de Castelvì marchese di Laconi, non fece opposizione, ma chiese come contropartita la garanzia degli antichi privilegi, primo dei quali la privativa delle cariche civili e delle prelature, che dovevano concedersi ai sardi naturali dell’isola.

La crisi, che contrappone il Parlamento (con il quale si era schierata la massima parte dei feudatari della nobiltà, dell’alta borghesia, gli alti prelati e i rappresentanti delle città costituenti lo Stamento reale) al viceré Emanuele Gomez de Llos Cobos marchese di Camarassa (che aveva posto a capo Martino Alagon marchese di Villasor, e che era riuscito a riunire i funzionari spagnoli, poche famiglie patrizie, il principe di Piombino comandante delle galere, il commissario della Cavalleria e i gentiluomini al servizio del viceré), porterà allo scioglimento del Parlamento stesso, senza che venga votato il donativo, né approvati i Capitoli di corte.

Il partito dei Castelvì intendeva dare battaglia fino in fondo, sostenendo il lealismo dei sardi verso la Corona e la loro idoneità ad occupare le più alte cariche. La sua voce fu talmente fiera e dignitosa che prevalse sulla maggioranza, tanto da essere addirittura eletto  Sindic presso la corte di Madrid per trattare gli interessi della Sardegna, e dove poco più tardi vi si recò per offrire alla regina i sussidi da lei richiesti e le relative istanze.

Il marchese di Laconi rimase in Spagna per poco più di un anno, senza però riuscire ad avere un colloquio con la sovrana.
La missione non fu fortunata, anche perché l’azione favorevole di suo cugino don Jordi de Castelvì, Reggente del Supremo Consiglio di Aragona a Madrid, fu neutralizzata dal potentissimo vice cancelliere d’Aragona, don Cristoforo Crespi di Valdaura, che si mostrò pieno di rancore e di disprezzo nei confronti dei sardi, e soprattutto verso don Augustìn de Castelvì.

Don Augustìn rientrò in Sardegna il 20 aprile 1668, accolto a Sassari con i più grandi onori e salutato come un padre della patria, per poi giungere a Cagliari un mese dopo, dove riprese il suo posto di battaglia ancora più indispettito per l’arbitraria sua sostituzione con Martino Alagon, quale nuova prima voce dello Stamento militare.

Il Marchese di Laconi, già vedovo di Giovanna Dexart, nel 1664 aveva sposato in seconde nozze sua nipote Francesca Zatrillas dei Conti di Siete Fuentes di Cuglieri, una bellissima donna piena di spirito, romantica e di qualche decennio più giovane di lui.

Francesca, durante l’assenza dell’attempato marito, aveva nel frattempo conosciuto l’avvenente ventiquattrenne cugino, don Silvestro Aymerich, capitano dei fanti spagnoli e appena sbarcato dalla Sicilia.

L’elegante don Silvestro fu subito colpito dalle grazie della cugina, la quale, a sua volta, si lasciò intenerire e corteggiare. I piccoli attestati di simpatia presero però allarmanti proporzioni, e i due bei cugini finirono per innamorarsi, non badando nemmeno di deludere la curiosità del pubblico, motivo per cui tutta la città era a conoscenza della corrispondenza illecita del capitano con la marchesa di Laconi.

Il ritorno del marito della bella Francesca aveva diminuito le occasioni, tuttavia a don Augustìn de Castelvì bastò poco per accorgersi di aver perso anche la moglie. Ma non di essere diventato un ostacolo per i due amanti.

Il momento diventò presto propizio, e la buona stella aveva provocato l’occasione. Furono prezzolati dei sicari, e il freddo calcolo di Silvestro Aymerich avrebbe allontanato ogni sospetto nella cittadinanza. Le Corti erano state appena sciolte, e l’odio tra il viceré Camarassa e il marchese di Laconi era noto a tutti, l’assassinio per amore avrebbe preso il nome di assassinio politico.

Il 20 giugno di quello stesso 1668, un’ora dopo la mezzanotte, fu consumato il delitto.
Mentre don Augustìn, in compagnia di due servi, usciva da una conversazione e si dirigeva verso casa, veniva colpito da un pugnale e ferito a morte crivellato da archibugiate.

La voce pubblica, come avevano previsto i due cugini, non tardò ad additare come assassino del Laconi il marchese di Camarassa, anzi i coniugi Camarassa, perché in giro si sapeva che anche la moglie del viceré aveva qualche ruggine contro all’ucciso per ragioni private.

Intanto, mentre veniva imbastito un primo processo, per ordine della Reale Udienza, dai nobili si ordiva un nuovo complotto contro il viceré per vendicare la morte del Castelvì. Qualcuno si precipitò ad avvertire anche il Camarassa del pericolo che correva, ma lui, consapevole della sua innocenza, si rimise nelle mani di Dio, che l’avrebbe salvato, e si limitò ad allontanare dal regno solo l’avvocato fiscale don Antonio de Molina e il nipote reggente Nigno, ritenuti complici dell’omicidio solo perché il corpo del marchese di Laconi fu rinvenuto di fronte alla casa del fiscalista.

Per la congiura contro il Camarassa si scelse per convegno la casa della vedova Laconi, la quale sedusse e trasse dalla sua parte il vecchio Jaime Artal de Castelvì marchese di Cea, don Antonio Isidoro Brondo, don Francisco Cao, don Francisco Portogues e don Gavino Grixoni.

Il grido della vendetta lo si poteva percepire da tutte le parti, i religiosi e la popolazione avrebbero voluto vendicare il padre della patria, ma il compito venne affidato ad un certo Antioco Dettori di Cuglieri, servo di don Antonio Isidoro Brondo e vassallo dell’avvenente vedova, che, ricevuta la somma di duecento e più scudi, raccolse i suoi bravi e aspettò dalla sua casa il passaggio del viceré.

Il 21 luglio del 1668 (un mese dopo l’assassinio del Laconi) mentre il marchese di Camarassa, insieme alla moglie e ai quattro figli, ritornava in carrozza dalla Novena del Carmine, all’altezza di via dei Cavalieri (oggi via Canelles), dalla casa del mercante Antonio Isidoro Brondo partirono le detonazioni di cinque carabine che freddarono il viceré fra le braccia della moglie.

I paggi e i gentiluomini di scorta corsero a chiudere le porte della città, ma giunti presso la torre dell’Aquila, da un balcone adiacente partirono altri cinque colpi di moschetto, che ferirono un gentiluomo e un domestico del viceré. Altri colpi partirono invece dalla casa di Francisco Cao.

I congiurati, rimasti in un primo momento in attesa presso la dimora della marchesa di Laconi, per mettersi in salvo dalle ire dei familiari del viceré, che volevano dar fuoco alla casa, si rifugiarono in tutta fretta nel convento di San Francesco di Stampace.

In Spagna, la morte del viceré di Llos Cobos si ritenne dovuta ad un movimento di ribellione non contro la Corona, ma in opposizione alle azioni da lui provocate come privato cittadino, e per questo, senza nemmeno troppi indugi, il Camarassa venne subito rimpiazzato da don Bernardino Mattia di Cervellon, che assunse la presidenza del regno fino all’arrivo del nuovo viceré e che, per quanto poteva, cercò di salvare il salvabile, incaricando l’arcivescovo Pietro Vico di far imbarcare la famiglia della viceregina, donna Isabella di Portocanero, per allontanarla dalla furia della nobiltà e dei popolani sardi, e consigliando al Marchese di Cea di ritirarsi a Sassari, fra quei cittadini devoti alla causa nazionale.

Il rispettabile Jaime Artal de Castelvì, che era stato per circa quarant’anni Procuratore e Giudice del Reale Patrimonio, e che fu trascinato nella faccenda solo perché circuito dalla bella nipote, si ritrovò costretto a scappare per Sassari insieme agli altri congiurati, dove fu però accolto inaspettatamente con grandi onori da preti e frati, dai baroni, dai cavalieri e da ragguardevoli personaggi del capo settentrionale, che lo acclamarono come il vendicatore dell’atroce ingiuria patita dalla nazione.

Alcuni lo incitarono a fare rientro a Cagliari, per impadronirsi del governo, ma una lettera anonima gli fece improvvisamente aprire gli occhi. Tra le righe veniva infatti raccontata la tresca di sua nipote, vedova del Laconi, con il cugino Silvestro Aymerich, e la vita scandalosa che i due avevano condotto prima a Cagliari e adesso nel marchesato di Siete Fuentes, vicino Cuglieri.

Nell’animo del buon vecchio si era repentinamente spento il giovanile entusiasmo di far valere i dritti della sua patria, poiché ormai gli era chiaro che era stato solo la vittima di un crudele inganno.

Intanto a Cagliari si era svolto il primo processo imbastito sui due omicidi, favorevole alla Zatrillas poiché vennero accolte come buone le sue accuse e le testimonianze da lei esibite.

Il secondo procedimento, fatto istruire dal viceré duca di San Germano Francesco Tuttavilla, rovesciò invece tutte le opposizioni, annullando il valore delle testimonianze portate dalla vedova Laconi, perché ritenute estorte con le intimidazioni e le violenze.
Durante questa fase si accertò tuttavia la colpevolezza di Antioco Dettori, che introdusse nella casa Brondo i sicari del viceré. Ma la realtà del Dettori, anche se assodata, non risolveva la questione dei mandanti dell’uccisione, perché nel frattempo era stato assassinato da alcuni banditi, ancora una volta per volere della Zatrillas, e quindi la sua condanna non sarebbe stata nemmeno più utile.

Francesca Zatrillas annunciava intanto allo zio, il marchese di Cea, il suo matrimonio con l’Aymerich dopo aver sdegnosamente respinto la domanda della mano inoltrata dal conte di Sedilo.

Il matrimonio affrettato di don Silvestro e donna Francesca diventerà quindi il pretesto che consentirà anche al duca di San Germano di imbastire a loro carico l’imputazione dell’assassinio di don Augustìn de Castelvì, architettato secondo il nuovo viceré con il solo e unico scopo di rendere possibile la loro unione.

Era sempre più evidente che la partita era ormai persa per la nobiltà sarda, troppo debole per imporsi ai potenti spagnoli della corte del Supremo Consiglio d’Aragona. Il duca di San Germano, duro e intransigente, si dimostrò fortemente risoluto a punire i colpevoli, domare la ribellione, e ripulire da ogni accusa la marchesa di Camarassa, oltre che determinato a rovesciare ogni responsabilità dell’accaduto sugli elementi locali, cosa che creò una frattura ancora più profonda tra il governo e la nobiltà sarda.

Nel 1669 furono quindi annullati tutti i procedimenti processuali, e si diede bando in cui si concedeva un’amnistia generale (eccettuato il crimine di lesa maestà) a quanti, nel termine di due mesi, fossero rientrati nella legalità e avessero riferito le circostanze dei due omicidi; al contrario, venivano minacciati di morte e della confisca dei beni tutti coloro che fossero stati invece accondiscendenti con i ribelli. Per il nuovo viceré era il modo per polverizzare ogni resistenza, e per procurarsi le prove necessarie per imbastire nel senso desiderato il terzo processo.

Questo bastò per arrestare e far rinchiudere nella torre dell’Elefante il governatore don Bernardino de Cervellon, incarcerare in quella di San Pancrazio don Gerolamo Zonza capitano di cavalleria di Sassari, esiliare a Majorca don Francisco Cao senior (padre dello junior che era scappato con i congiurati), ed impiccare il giurista Saturnino Vidal.

La bella adultera insieme al suo giovane sposo, invece, fiutato il vento, scappò fuori dall’isola per rifugiarsi a Nizza.

Ultimato il nuovo processo, venne pronunciata la sentenza in contumacia contro Jaime Artal de Castelvì marchese di Cea, don Silvestro Aymerich, don Antonio Isidoro Brondo, don Francisco Portugues, don Francisco Cao junior, e don Gavino Grixoni, rei di alto tradimento e di lesa maestà, oltre che perturbatori della quiete pubblica. I sei nobili vennero condannati alla pena capitale e alla confisca dei beni, dando facoltà a chiunque di ucciderli. Era il 18 giugno del 1669.

Le case di proprietà degli imputati furono demolite, sui terreni cosparso il sale e apposte delle lapidi con iscrizioni infamanti (una di queste si legge ancora in via Canelles 32, affissa sul prospetto di Palazzo Asquer).

Vennero poi promessi seimila scudi a chi avesse consegnato vivo il Cea nelle mani della Giustizia, oltre che garantita la propria salvezza e quella di altri dieci galeotti.

Con il verdetto del 6 luglio dello stesso anno venne condannata a morte anche Francesca Zatrillas, e completamente riabilitati la contessa di Camarassa e tutto il seguito degli spagnoli precedentemente accusati dell’omicidio di don Augustìn de Castelvì.

Dopo la sentenza, tutti i latitanti cercarono rifugio separatamente. Il Portugues e il Grixoni si imbarcarono oltre mare, il Cao raggiunse i coniugi Aymerich a Nizza, dove nel frattempo donna Francesca aveva dato alla luce Gabrielantonio. Don Antonio Isidoro Brondo si ammalò e morì in Sardegna.
Don Jaime Artal de Castelvì, ormai privo dell’aiuto dei compagni, si rifugiò invece prima nelle celle dei Cappuccini di Ozieri, poi sul Monte Nieddu in Gallura, per celarsi infine nelle rovine dell’antico castello d’Orgari, protetto dai banditi della Gallura e del Logudoro.
Tentarono di catturarlo, ma invano, poiché fra i delinquenti, più gentiluomini del viceré, nessuno lo tradì.
Nonostante tutto, però, non era al sicuro, perciò continuò a vagare fra i disagi di una vita durissima, finché una notte, travestito da marinaio e in compagnia di un solo servitore, riuscì a toccare la terra di S. Bonifacio in Corsica, per poi imbarcarsi verso Nizza, dove raggiunse alcuni dei suoi compagni di delitto.

A Cagliari bastava invece la relazione di una semplice spia, che talvolta era anche il più volgare degli assassini, perché rei o innocenti fossero presi e torturati.

Due anni dopo la sentenza, il duca di San Germano trovò finalmente il suo uomo in don Giacomo Alivesi, colpevole di diversi omicidi, che, fingendosi perseguitato dalla giustizia, riuscì ad avvicinarsi a don Francisco Cao, nel frattempo rifugiatosi a Roma. L’Alivesi si dimostrò furbamente solidare con il nobile latitante, tanto che il Cao finì per raccontargli le sue confidenze.

Il farabutto propose allora al povero illuso un piano per indurre i sardi ad una sollevazione generale. Don Francisco Cao si lasciò convincere, e seguendo il consiglio del falso amico fece vela per la Corsica. Da lì chiamò da Nizza anche don Silvestro, che poco dopo fu raggiunto dal Portugues che si trovava invece a Costantinopoli. Nulla si seppe più invece del Grixoni.

I quattro fuggiaschi si ritrovarono quindi tutti riuniti in Corsica, compreso il marchese di Cea che, pur non essendo d’accordo, fu preso dai compagni a viva forza e gettato nella barca con la quale avrebbero presto raggiunto di nuovo la Sardegna. A Nizza ci rimase la sola Francesca, in attesa di un avviso per avvicinarsi nell’isola e ricongiungersi con l’Aymerich insieme al figlio.

Riuscito in questo primo piano, il vile traditore si rivolse allora ad un suo intimo confidente, don Gavino Delitala, raccomandandogli di tenersi pronto con la squadriglia armata nel porto di Lixia per l’imboscata.

Poco a poco, con arti e astuzie, l’Alivesi indusse i quattro speranzosi ad avvicinarsi all’Isoletta Rossa, di fronte a Castellaragonese, dove, dopo una lauta cena, e ormai vinti dalla stanchezza, vennero aggrediti dalla banda di don Gavino Delitala, che non si risparmiò nei confronti dei disperati Cao, Portugues e Aymerich. Ai tre poveri nobili fu mozzato il capo, mentre il marchese di Cea, che serviva vivo, venne legato insieme al suo servo e condotto a Sassari.

In quello stesso giorno, ai piedi dei gradini della chiesa di Santa Caterina (oggi Piazza Azuni), fu eretto un apposito palco, dove, in mezzo alle picche che sostenevano le tre teste sanguinose, fu esposto il pallido ed affranto Jaime de Castelvì.

I pubblici banditori, di tanto in tanto, gridavano con quanto fiato avevano in corpo i nomi dei quattro infelici, il loro delitto e la pena, per servire di esempio al popolo che, inorridito, era stipato nella piazza e lungo il corso.

Il delegato del viceré, dopo aver fatto cavare le cervella alle teste degli uccisi, e averle fatte riempire di sale, diede poi un bando perché tutta la cavalleria, i titolati, i nobili, i cavalieri, i cittadini e la plebe, pena la vita e la confisca dei beni, raggiungessero Cagliari, dove, in un sinistro corteo, sarebbero poi giunti anche gli assassini del viceré Camarassa.

La marcia del corteo durò 12 giorni, e l’ingresso in città avvenne con un grande spiegamento di forze. La cavalleria precedeva il carnefice a cavallo con un tridente in cui erano infilzate le teste. Seguiva il vecchio marchese avvilito e stanco, a piedi, con gli abiti logori, e il servo Francesco Cappai, che venne poi arruotato vivo. Il corteo percorse le principali vie di Cagliari a suon di tamburi finché i due prigionieri non furono rinchiusi nelle torre dell’Elefante. Nel pomeriggio, perché la cerimonia fosse completa, una schiera di militi, preceduti da grancasse e trombe, e seguiti dal boia e dai ministri della cosiddetta giustizia, percorsero ancora una volta le vie di Cagliari per mostrare ed esporre le tre teste su una tavola nel luogo dove fu consumato l’omicidio. Trasferite quindi nella torre dell’Elefante, e appese poi su quella di San Pancrazio, furono di nuovo spostate nella prima torre, dove restarono per 17 anni, e dalla quale vennero rimosse solo nel 1688, per grazia sovrana su petizione del parlamento.

Sei giorni dopo, all’età di 65 anni, cadeva invece la testa di Jaime Artal de Castelvì marchese di Cea, con ogni probabilità, innocente del delitto ascrittogli. Il suo corpo, lasciato sul palco, fu sepolto dai nobili confratelli del Monte di Pietà e tumulato nella loro chiesa di Santa Maria del Monte.

Donna Francesca Zatrillas, unica causa di tanto eccidio, rosa dai rimorsi, si chiuse in un monastero di Nizza per espiare il suo delitto, dove morì nella sua cella in odore di santità, protetta dal duca di Savoia e dalla madre di Carlo II.
A suo figlio Gabriellantonio furono restituiti i beni e l’onore della famiglia.

Quanto a Don Giacomo Alivesi, in ricompensa del suo ingegnoso tradimento, fu investito dal Governo dei feudi del tradito.

I giudizi degli storici su questa vicenda sono i più disparati, e non tutti credono che i fatti siano realmente andati in questo modo. La versione vera resta pertanto per lo storico nel buio più assoluto.