L’antico ospedale del glorioso Sant’Antonio

Fra i tanti ordini cavallereschi e religiosi, nati a ridosso dell’anno Mille, vi è anche quello legato alla figura dell’eremita egiziano Antoine l’Abbaye, protagonista di un miracolo risalente alla fine dell’XI secolo, avvenuto quando papa Urbano II, andato in Francia per promuovere una crociata, ordinò che le sacre reliquie di Antonio venissero esposte alla gente.
Il corpo del venerabile, giunto insieme al pio uomo dalla Terra Santa, venne prontamente offerto all’attenzione del pubblico nella Diocesi di Vienne, dove, folle di derelitti, provenienti da ogni provincia transalpina, iniziarono ad arrivare per invocare l’aiuto del Beato.
Molti fedeli colpiti dal morbo del fuoco sacro, che nel 1089 imperversava in quelle zone, trovarono la guarigione. Fu però la ripresa del figlio di Gaston, nobiluomo di Vienne, che spinse alcuni gentiluomini a fondare una struttura per la cura della malattia, che da allora fu ribattezzata con il nome di “Fuoco di Sant’Antonio”.
Nel corso del XIII secolo, la comunità laica che gestiva il ricovero fu sottoposta dalla Santa Sede alla Regola Agostiniana, venendo innalzata in Ordine Ospedaliero dei Canonici Regolari di Saint-Antoine-en-Viennois. L’organismo era divenuto popolare nei regni dell’attuale Europa perché si era impegnato non solo nell’assistenza degli affetti dal morbo della siderazione, ma anche perché si occupava di tutte quelle persone che venivano colpite da una particolare intossicazione causata dal consumo della segale mal conservata, che era alla base dell’alimentazione della gente comune dell’epoca, e che provocava piaghe e cancrene repellenti con crisi di convulsioni e demenza.

Constatata la necessità di costruire un ospedaletto che potesse dare conforto non solo agli anziani e agli indigenti, ma anche ai marittimi di passaggio e ai soldati aragonesi di stanza a Caller, nel 1338 il sovrano Pietro IV autorizzò l’arcivescovo ad invitare a Cagliari la comunità benedettina dell’abbazia di Lézat-sur-Lèze, legata al priorato di Saint-Antoine di Vienne, per impiantare anche in città una casa di cura intitolata al Santo venerato nel monastero francese.
Gli Antoniani avevano già fondato diverse strutture ospedaliere nei territori della Corona d’Aragona, e dunque, con l’autorizzazione della chiesa locale, nel 1365 giunsero senza indugio anche a Caller, dove, con le offerte raccolte sul posto, sopra un terreno di proprietà del vescovo Thomae, impiantarono lo Spital e Iglésia de Sant Antonij de la Llapola, un sanatorio posto ai piedi del Castello che comprendeva anche una cappella e un alloggio per i religiosi.
La nuova struttura, sovvenzionata da donazioni e lasciti, era sostenuta anche dall’amministrazione civica, che contribuiva con i proventi ricavati dalle sanzioni pecuniarie inflitte ai contravventori alle disposizioni municipali; ma era inoltre anche in uso che i malati di lebbra e scottature offrissero un piccolo animale, mentre fra i nobili, più agiati, era invece usanza donare un maiale grasso affinché, col lardo ricavato, si potessero curare gli indigenti.
La cura degli infermi, almeno inizialmente, veniva gestita in via esclusiva dai religiosi appartenenti all’Ordine degli Antoniani di Vienne, che per le terapie si servivano di un’erboristeria privata.
Fu infatti solo nel 1432 e nel 1449 che all’interno della struttura arrivarono rispettivamente anche il primo medico e il primo barbiere (il chirurgo), chiamati a prestare servizio nell’ospedale per conto della città.
La fisionomia dello spazio nosocomiale, in questo periodo, era invece costituito da un insieme di ambienti distribuiti intorno ad un chiostro con arcate semicircolari, le cui aperture sul giardino permettevano la circolazione dell’aria su entrambi i versanti dei vani che ne componevano la struttura.
In particolare, vi erano due cameroni volti a ospitare, separatamente, uomini e donne che necessitavano di cure, più vari locali di servizio. Tra gli emarginati accolti, fin dai primi anni del Quattrocento dovevano esserci state però anche le persone affette da malattie mentali, che, bisognose d’aiuto, se non potevano essere prese in custodia dalla famiglia, trovavano un giaciglio sicuro nell’ospedale.

L’affollamento nelle due grandi stanze, i lettoni in cui venivano alloggiati due o tre degenti per volta, e la camera mista, realizzata in un secondo momento per chi era affetto da malattie veneree, non aiutavano però a migliorare la situazione sanitaria degli infermi, ma, al contrario, spesso li portava alla morte.
Sollecitati dai parenti dei pazienti, la situazione incominciò a smuovere la coscienza degli amministratori cittadini, che, preoccupati, dopo un’accurata ispezione constatarono non solo la scarsissima pulizia dei locali ospedalieri, ma anche che gli Antoniani non si occupavano nemmeno più della cura dei malati. La penuria di medicinali e di cibo, nonostante le donazioni non si fossero mai fermate, era di dominio pubblico, ma non era invece noto che i religiosi avevano iniziato ad indirizzare le grosse rendite e i benefici dell’ospedale della Lapola alla casa madre di Vienne, secondo una prassi comune a tutte le precettorie dell’Ordine.
Scoperto l’arcano, l’unica soluzione possibile per riconquistare la fiducia della popolazione era quella di allontanare immediatamente i canonici dalla struttura cagliaritana.

Nel 1534 l’ospedale passa sotto la direzione dei consiglieri della città, che oltre ad amministrarlo finanziariamente, esercitano prerogative decisionali sugli ammalati.
Si prova anche ad apporre qualche miglioria alla struttura, e nel 1568 viene costruita una stanza, chiamata “stufa”, pensata per curare i malati di sifilide attraverso le fumigazioni.
La casa di cura viene inoltre dotata di una porticina, corredata di ruota e campanella, che, posta in un locale di servizio esterno, in prossimità dell’ingresso dell’ospedale, permetteva di accogliere i bambini che madri disperate non potevano mantenere.
Per aiutare le donne partorienti venne introdotta la figura della levatrice, mentre un cappellano aveva invece il compito di amministrare i sacramenti a tutti gli ammalati.
Andati via i religiosi, la gestione dell’ospedale iniziò ad essere sovvenzionata principalmente dal Consiglio civico, a cui andavano aggiunte le donazioni di quei pochi benefattori che continuavano ad avere a cuore le sorti dei poveri degenti. Quando invece dovevano essere ricoverati marinai o feriti sbarcati dalle navi che approdavano nel porto della città, si faceva ricorso alle sottoscrizioni pubbliche straordinarie.
Le somme raccolte venivano affidate ad un maggiordomo, che si occupava anche dell’acquisto dei medicinali, del materiale sanitario e del vitto, delle spese per liquidare le balie e per il più generale sostentamento della casa di cura. La rimanenza veniva consegnata al clavario dell’ospedale, che una volta al mese era tenuto a rendicontare le entrate e le uscite, sottoponendole al controllo del Magistrati civici.

Nonostante l’apparente perfetta riorganizzazione, i servizi non registravano miglioramenti, e l’ospedale continuava a ristagnare in una situazione di estrema precarietà.
La pulizia dei locali era spesso affidata a galeotti svogliati che non percepivano nessuna ricompensa, se non contare su una riduzione di pena, mentre per le cure specifiche dei pazienti venivano reclutati i condannati dal tribunale della Santa Inquisizione, che erano perlopiù ecclesiastici che preferivano trascorrere le ore a pregare all’interno di una casa di cura piuttosto che languire nelle buie e fredde prigioni della città.
I degenti che non potevano pagare le cure a domicilio crescevano ogni giorno di più, perché oltre ai cagliaritani, vi giungevano anche gli abitanti dei paesi poveri del Campidano.
L’assistenza medica era invece ancora affidata quasi esclusivamente a cure empiriche, benché, per poter esercitare, i dottori dovevano dimostrare di aver svolto un periodo di apprendistato e superato prove di capacità professionali severe e selettive davanti a un protomedico.
Il momento critico che si stava attraversando aveva fatto nascere la figura del “funzionario pubblico”, istituito in città nel corso del Cinquecento con il compito di dirigere e coordinare tutte le attività che avevano attinenza con l’esercizio dell’arte medica, ma impiegato soprattutto per vigilare e segnalare i praticoni che si affidavano ancora a nozioni e tecniche sanitarie dell’antica terapia romana o a testi medievali nei quali la medicina era confusa con la magia e la stregoneria.
E se i medici dovevano mostrare reali competenze, con l’introduzione del nuovo ispettore anche gli speziali adesso dovevano saper leggere, scrivere e compilare i registri dei medicinali e dei ricoverati.
In questa difficile fase, all’interno dell’ospedale il sudiciume imperava ovunque, gli infermi ricevevano cure insufficienti anche sotto il profilo strettamente igienico, e nei locali di ricovero era facile riscontrare la presenza di parassiti e di ogni altra sorta di insetto e animale. La biancheria non veniva rinnovata spesso, le stesse medicine prescritte per un paziente venivano sovente somministrate erroneamente, o per non curanza, ad un altro. La corruzione del consiglieri poi non aveva freni, non di rado dall’ospedale portavano via i vitelli e i montoni destinati al desinare degli ammalati, e vi facevano curare e alimentare gratis i loro servi. Le rendite della casa di cura erano esposte alla tentazione di terzi, e qualcosa non andava nemmeno nella gestione della ruota che accoglieva i bambini abbandonati.

Lo scalpore fu tanto, e lo scandalo che travolse l’ospedale riconsegnò la struttura nelle mani dei religiosi.
Con una delibera del 27 novembre 1635, pur riservandosi la proprietà dello stabile, l’autorità cittadina affidò l’amministrazione della casa di cura all’Ordine degli Spedalieri di San Giovanni di Dio, noti anche come Fatebenefratelli, da sempre al servizio dei bisognosi.
Giovanni di Dio, al secolo João Cidade (1459-1550), fintosi pazzo, si fece rinchiudere in una stanza isolata di un ospedale di Granada per vivere sulla propria pelle le sofferenze e i tormenti a cui erano sottoposte le persone affette da malattie mentali. Avendo subìto in prima persona dei trattamenti che definì inumani, volle impegnarsi per offrire una vita più dignitosa a coloro che avevano perso l’uso della ragione, e fondò, nel 1547, un ospedale destinato ad accoglierli.
Nel 1636, don Diego duca di Estrada, presi i voti e assunto il nome di fra’ Giusto di Santa Maria, arrivò a Cagliari insieme ad altri due religiosi del Capitolo dei Fatebenefratelli per fondare anche in Sardegna una nuova provincia dell’Ordine. Grazie agli appoggi del marchese di Castelo Rodrigo, frate Giusto poté godere fin da subito della protezione del viceré e del vescovo, che gli permisero di rifondare il vecchio ospedale Antoniano attraverso elargizioni di abbondanti somme di denaro e l’unione di un secondo fabbricato già esistente. A sua volta, da Napoli, il frate fece arrivare croci preziose, piatti d’argento per la Comunione e tutto l’occorrente per ornare la cappella e gli altari; letti in ferro, materassi, lenzuola, biancheria e nuove officine per rifornire invece l’ospedale.
Gli spedalieri di San Giovanni di Dio giunsero a Callari con l’impegno di offrire l’assistenza medica gratuita non solo ai poveri senza distinzione etnica o religiosa, ma anche agli esposti, ai pazzerelli, ai militari e ai marinai di passaggio. In cambio ricevettero la promessa di cinquanta scudi annui che dovevano servire per la manutenzione dei letti e per il vitto dei ricoverati e del personale. Un’ulteriore somma in denaro sarebbe stata poi erogata a parte per la paga di tre medici, due barbieri e un assistente che coadiuvava i frati.
La popolazione contribuiva con le elemosine, sia in denaro che in forniture alimentari, alle quali si aggiungevano lasciti e donazioni di ogni genere che vennero raccolti e impiegati principalmente per la costruzione di una nuova e sfarzosa chiesa, consacrata dal canonico Antonio Sellent nel 1723.
All’epoca, il piano terra del complesso era occupato oltre che dal nuovo tempio e dal portico, all’interno del quale vi era l’ingresso principale dell’ospedale, anche dalla spezieria e da una serie di locali adibiti a servizi, posti a quadrilatero intorno ad un cortile con pozzo.
Al piano superiore si trovavano invece i cameroni per la degenza e l’infermeria, la zona riservata ai religiosi e il teatro anatomico. Al secondo piano vi era infine la clausura dei frati, il noviziato e la scuola di medicina.
Punto di riferimento sanitario per la città e per tutta l’area circostante, la struttura si adoperò per riuscire a garantire 1800 ricoveri all’anno.

Dopo un iniziale miglioramento, il governo dei Fatebenefratelli incominciò a mostrare le prime falle. I voti di povertà seguiti dall’Ordine si erano insinuati anche all’interno dell’ospedaletto, coinvolgendo perfino gli infermi. L’assistenza era ritornata ad essere inadeguata, e la casa di cura poteva contare su un arredo estremamente povero e rifornito di pochissimi strumenti. I reparti, nei casi di particolari emergenze sanitarie, riuscivano a contenere un massimo di 70 pazienti e l’unica terapia assicurata era l’uso del salasso. I frati che ne gestivano l’amministrazione, in comune con quella del convento, avevano già da tempo iniziato ad adoperarsi principalmente per l’accrescimento e la prosperità della casa religiosa, destinando perciò all’ospedaletto solo pochi spicci.
Il Seicento era stato un anno pesante: i Padri Ospedalieri avevano dovuto combattere contro la peste, e negli anni 1680-81 anche contro la gravissima crisi di sussistenza, motivazioni gravi, secondo i religiosi, tanto da giustificare gli abusi a favore del convento.
Durante la gestione dei Fatebenefratelli, la stanza della “stufa”, costruita nel 1568 per curare i malati di sifilide attraverso la fumigazione, era stata trasformata in una saletta destinata alla segregazione dei matti, arredata con appena quattro casse di tavole sulle quali venivano fatti sdraiare gli uomini con problematiche mentali. Quelle panchette, dotate di catene ben saldate al muro che servivano per legare i polsi e le caviglie dei degenti, non portavano però sollievo, ma al contrario, allungavano i già lenti giorni dei poveretti con tormenti e patimenti che li avrebbero inseguiti fino alla fine dei loro giorni.
Alle donne pazze veniva riservata la stessa accoglienza, ma alloggiavano in un’altra camera, alla quale si accedeva passando per l’infermeria e un successivo disimpegno. Le poverette, non di rado, condividevano la camera anche con le serve incinte, con le donne affette da sifilide, con le ricoverate per vecchiaia, le paralitiche, le mendicanti e con le cieche.
Entrambe le sale accoglievano probabilmente gli indigenti meno problematici abbandonati dalle famiglie, perché chi aveva la fortuna di avere almeno dei parenti benestanti, e che poteva quindi permettersi di pagare una pigione, veniva invece rinchiuso in una minuscola celletta privata.
In periodo di sovraffollamento gli uomini venivano sistemati sul pavimento dell’ospedale in giacigli di fortuna, e non di rado si vedevano malati con infermità mentale dormire accovacciati sotto il portico o direttamente in strada. Quelli più pericolosi per la popolazione venivano caricati su delle carrozze e ricoverati nelle Regie Carceri di San Pancrazio, dove talvolta trovavano sistemazione anche nella stanza del tormento.
La follia era stata classificata in tre ordini di malattie mentali: le allucinazioni, che coinvolgevano l’immaginazione; le bizzarrie, che implicavano desideri e avversioni depravate, ma anche la bulimia e la nostalgia; e infine i deliri, che inglobavano i quadri clinici tradizionali della follia dovuti all’alterazione del cervello. Per questi ultimi casi erano stati ricavati altri due locali nei sotterranei dell’ospedale, descritti come luoghi insalubri e più bui di una tomba, sporchi e maleodoranti, e adatti più alla detenzione che alla cura dei “malati”.
La Sardegna all’epoca non offriva alternative, i pazzi venivano trattati con violenza e, secondo una cronaca non scritta, l’ospedale fu anche teatro di numerose eutanasie praticate sulle persone insane di mente, anche se oggi si ritiene che i destinatari di questo disumano trattamento fossero invece le persone considerate afflitte da problemi di natura sessuale.
Ai poveracci veniva somministrata una bevanda venefica, chiamata, col tempo, “su brodu ‘e mesunotti” (“il brodo di mezzanotte”), proprio per rimarcare il fatto che gli strani decessi avvenivano in prevalenza durante le ore notturne.

Sono anni caratterizzati da delitti, furti, indagini e processi a carico dei frati Ospedalieri impiegati nella struttura cagliaritana.
Di questa circostanza ne approfitta subito il potere regio, che, il 7 maggio 1765, istituisce una congregazione di carità composta dall’Arcivescovo, da un Giudice della Reale Udienza, da quattro nobili, da due componenti del Capitolo, dal padre provinciale degli Spedalieri e da quattro uomini benestanti scelti fra dottori e negozianti, che avranno il compito di vigilare sul controllo dell’ospedale estromettendo di fatto i religiosi di San Giovanni di Dio dalla gestione diretta della struttura.
Nel 1771 l’ospedale incominciò a godere dei vantaggi, finanziari ed igienici, della nuova gestione. La congrega si era preposta di fissare in maniera accurata le modalità di accettazione e custodia degli infermi, di riorganizzare la procedura per le visite mediche e di controllare costantemente il sistema per la somministrazione del cibo e dei medicinali. Venne decretata l’accoglienza di tutti i poveri che non avevano possibilità di cure domiciliari, ad eccezione degli incurabili, degli affetti da tubercolosi, degli epilettici e dei malati di scabbia. Gli individui affetti da malattie mentali dovevano invece essere accolti senza discriminazione, non tanto per essere curati, ma per evitare che potessero nuocere alla popolazione.
Nel 1799, Filippo Maria Tomasi, sacerdote e segretario dell’ospedale, iniziò finalmente ad annotare in un libro anche le generalità delle donne malate di mente. I sintomi venivano descritti in maniera rapida e sintetica, ma segnavano pur sempre il passaggio delle pazienti all’interno dell’ospedale.

Riorganizzata la casa di cura, e ripulita la fama degli Ospedalieri di San Giovanni di Dio, nel 1806 il Consiglio della Città riconosce nuovamente il governo perpetuo dell’ospedale Antoniano ai Fatebenefratelli, che acquisiscono per la seconda volta anche l’alloggio interno e la nuova chiesa. Ai frati vengono garantiti il pagamento delle spese sostenute per le cure dei ricoverati, i denari per i salari dei medici e del chirurgo, per il vestiario dei religiosi, per le spese di manutenzione e rinnovo degli arredi dell’ospedale, la fornitura della legna per la cucina e uno starello di grano al mese. Viene assegnata loro anche la gestione delle donazioni, dei lasciti, delle eredità e dei legati pii devoluti all’istituzione dai privati, più un’eventuale altra dotazione monetaria nel caso in cui le risorse finanziarie non fossero state sufficienti a garantire il buon funzionamento della clinica.
La supremazia dei religiosi si rivelò però solo una breve parentesi, perché già nel 1820 la direzione dell’ospedale rientrò sotto il controllo della congregazione di carità. I Fatebenefratelli invece furono intenzionalmente ridotti di numero, con la conseguente perdita dell’influenza fino ad allora esercitata nel campo dell’assistenza sanitaria.

Con la nuova ed ennesima gestione, i miglioramenti iniziali, sia igienici che strutturali, furono ancora una volta notevoli. Vennero ampliati i cameroni e realizzati ambienti più moderni per la degenza, ma le vere novità furono però la sala per le autopsie, aperta anche agli studenti universitari, e nel 1843, l’impiego delle prime sei Suore di Carità per l’assistenza ai malati, giunte da Parigi con il loro caratteristico copricapo bianco a tre punte.
La struttura, divenuta certamente più funzionale, rimaneva comunque inadeguata a soddisfare le crescenti esigenze della popolazione, e, con l’assenso del governo, si avviò quindi la progettazione di un nuovo ospedale, affidato all’architetto Gaetano Cima, che non prevedeva però nello specifico una sezione per gli alienati, né un’altra struttura destinata a loro.
Nel frattempo, con una Carta Reale, il 17 giugno 1837 Carlo Alberto istituisce i Consigli di Carità, e il 27 luglio 1847 conferisce loro il governo dell’amministrazione economica e finanziaria degli ospedali del Regno. Il gruppo di nobili cagliaritani era costituito da Giuseppe Castellini, consigliere d’Appello; dal conte Efisio Cao di San Marco, dal cavalier Raimondo D’Arcais, dal barone Salvatore Rossi, dal maggiore del Regio Esercito Giuseppe Muscas, dall’avvocato Giacomo Manconi e dal parroco don Giovanni Cossu.

Per l’ospedale Antoniano si apre un altro capitolo, finché, la mattina del 23 maggio 1854, il cavaliere Giuseppe Castellini, presidente del Consiglio di Carità di Cagliari, riceve una lettera anonima e lapidaria da un misterioso autore che vuole prendere le difese dei poveri ricoverati affetti da infermità mentale. La causa scatenante della lettera è data dalla fuga di un maniaco furioso dal Sant’Antonio Abate. La denuncia è chiara: i frati ancora presenti all’interno della casa di cura avrebbero trattato con violenza il malcapitato, che oppone resistenza, e scappa. La soluzione, secondo lo scrivente, sarebbe quindi quella di mandare via tutti i religiosi che ancora operano all’interno della clinica.
La Sardegna in questo periodo sta toccando con mano gli esiti della fusione perfetta del 1847, che, formalizzando l’unificazione politica e amministrativa di tutti i territori del Regno di Sardegna, vede l’estensione anche nell’isola di leggi e ordinamenti in vigore nella terraferma. L’azione, caldamente voluta da molti esponenti della borghesia e del liberalismo sardo desiderosi di riforme, si era però rivelata una scommessa fallita. Molti promotori della fusione dovettero ricredersi, poiché si resero subito conto di non essere in grado di promuovere le proprie azioni con la stessa velocità e voracità dei loro concorrenti piemontesi. Durante questa nuova fase molti aspetti della società sarda cominciarono ad apparire ancora più arretrati di quanto già si presumeva che fossero, e il malcontento, assai diffuso, alimentava ancora di più l’opposizione al governo di Cavour.
Gli scontri fra i diversi schieramenti della società cagliaritana erano frequenti, ma il fatto accaduto al Sant’Antonio si rivelò un pretesto per causare dispute politiche e mediatiche, animare l’opinione pubblica e attaccare i Consiglieri di Carità attraverso la stampa locale.

Il 26 maggio 1854, la Gazzetta Popolare, portavoce della fazione di Cavour, riporta una notizia che desta grande vergogna in città.
Alcuni giorni prima, a Cagliari, un folto gruppo di persone aveva osservato un individuo con ancora le catene attaccate ai polsi che affermava di essere riuscito ad evadere dalla casa di cura in cui era stato ricoverato nel giorno precedente.
Il caso diviene occasione per mettere in luce i progressi del tempo in materia di salute mentale, ma anche per denunciare l’obsolescenza della situazione locale e l’inumano malcostume dell’isolamento, delle percosse e dell’immobilizzazione dei malati di mente attraverso l’uso delle catene.
La richiesta al Consiglio di Carità è quella di abolire i metodi ormai arcaici utilizzati per la cura dei mentecatti. La risposta del Consiglio viene riportata sul numero successivo della stessa Gazzetta, e i giorni seguenti saranno un botta e risposta che porterà chiunque a conoscenza dell’accaduto e della situazione che si vive all’interno del Sant’Antonio.
Benché la casa Sabauda avesse attuato una sorta di politica di grande internamento che stabiliva l’interdizione per imbecillità, demenza e furore, e avesse dettato anche speciali disposizioni per la tutela dei malati definiti mentecatti e maniaci, i tribunali, al contrario, valutavano invece se, al momento del crimine, l’accusato fosse o meno in possesso delle sue facoltà mentali, dichiarandolo addirittura impunibile se si fosse ritrovato in un momento di scatto d’ira. Se i disturbatori dell’ordine pubblico più in generale si fossero poi rivelati psicologicamente instabili, veniva chiamato un medico che eseguiva una perizia e valutava l’eventuale necessità di ricovero in una struttura, che non era mai scontata.
Inoltre, non essendoci in città un vero manicomio, e riconosciuta come inadeguata la struttura Antoniana, le risorse economiche destinate alle persone affette da patologie mentali finivano nella costruzione del nuovo ospedale, e per i poveri mentecatti, in attesa di un eventuale loro trasferimento a Genova o a Torino, rimaneva solo il ricovero nel Sant’Antonio a spese del Municipio di Cagliari.
Nel 1853 il ministro degli Interni, da Torino, avviò un’indagine sul Sant’Antonio con l’obiettivo di provvedere economicamente al suo mantenimento. Tra i vari quesiti, il ministro domandò agli intendenti quanti fossero i maniaci ricoverati, con quali costi e a quali condizioni. L’intendente generale di Cagliari si rivolse per queste notizie al Consiglio di Carità dell’ospedale, il cui presidente non evidenziò la situazione ormai insostenibile ma rispose che i maniaci erano appena quattro, due uomini e due donne, e che il servizio si svolgeva soprattutto in termini di custodia. I vecchi locali dell’ospedale non erano in grado di prestare una vera e propria cura, ma che con i finanziamenti dovuti, il Consiglio di Carità sarebbe stato comunque in grado di portare avanti il proprio compito.

Il 3 maggio 1854, il sindaco di Cagliari chiede il ricovero presso il Sant’Antonio di un uomo che ha dato segni di alienazione mentale. La risposta del deputato di servizio arriva il 5 maggio ed è negativa: l’ospedale non può accogliere nessun altro individuo, è pieno, e non può nemmeno trovare un giaciglio per l’uomo in questione, perché, evidentemente conosciuto, non si ritiene essere un soggetto pericoloso da meritare le catene.
La posizione del deputato di servizio, per quanto motivata, si rivelerà però un errore. Nella stessa mattinata l’uomo viene infatti arrestato e condotto nelle carceri di San Pancrazio con l’accusa di aver malmenato un bambino di 10 anni e minacciato una guardia di servizio. Sempre in quella giornata, l’intendente generale invia al tribunale anche una denuncia sporta contro lo stesso soggetto per aver colpito, nel pomeriggio precedente, un ragazzo di 15 anni.
L’8 maggio l’uomo viene ascoltato dal giudice istruttore e dichiara che le guardie lo hanno ammanettato e strattonato, strappandogli addirittura gli indumenti, solo per aver manifestato l’intenzione di recarsi in carcere di sua volontà, in modo da non spaventare la moglie incinta e per non farsi notare dagli abitanti del quartiere, i quali avrebbero fatto di tutto per impedirne l’arresto. Ammette di aver avuto un eccesso d’ira vedendosi deriso e appellato pazzo dai passanti, di aver iniziato ad agitare nell’aria un bastone per far allontanare le persone, colpendo accidentalmente un ragazzo di passaggio, e di aver lanciato un oggetto contro la folla, ma che non è affetto da paranoie come sostiene chi lo accusa.
Il tribunale decide di procedere con le perizie sulla vittima e con l’interrogazione dei testimoni, per comprendere se l’imputato abbia agito o meno in stato di sanità mentale.
Il 15 maggio si stabilisce il rilascio in libertà vigilata, ma quello che più che un pazzo è un delinquente, è già stato rinchiuso nella “stufa” del Sant’Antonio Abate, trattenuto per decisione dell’intendenza generale.
L’uomo riesce ad evadere la mattina del 21 maggio, con grande indignazione da parte di chi aveva deciso per il suo ricovero.

Il Consiglio di Carità, a sua discolpa, continuò a sostenere che l’uomo non mostrava alcun segno di furore e che pertanto non avevano ritenuto necessario di doverlo legare, non potendo però prevedere che durante la notte avrebbe invece rotto l’inferriata della finestra per fuggire.
Ripreso e ricondotto all’interno dell’ospedale, l’uomo viene incatenato, ma riesce comunque a svincolarsi dal custode e a fuggire nuovamente. Riportato ancora una volta presso le carceri di San Pancrazio, il medico, per far fronte alla sua agitazione chiede che venga nuovamente ricoverato al S. Antonio, dove ritornerà, però, solo il 16 giugno. Nel frattempo, il 31 maggio, i testimoni sentiti dal tribunale confermeranno che l’accusato non ha agito come un uomo sano di mente.
Le accuse contro l’amministrazione dell’ospedale sono gravissime. L’uomo sarebbe regolarmente picchiato e tenuto a digiuno, gli altri malati vivrebbero in condizioni disumane, nel sudiciume, seguendo un regime alimentare e farmacologico diverso da quello prescritto, mentre altri bisognosi sarebbero stati rifiutati o cacciati via dalla struttura per volere dello stesso presidente.
Le denunce a carico dell’ospedale Antoniano sembravano non finire mai.
Alla fine del mese di giugno, la moglie dell’uomo aveva avviato un ricorso per maltrattamenti, ma il medico dell’ospedale dichiarò che sul corpo del ricoverato non erano riscontrabili lividi o altre avvisaglie di percosse, e che gli unici segni presenti erano quelli dati dalle catene adottate per il contenimento. Nonostante questo, ad agosto la donna promosse una nuova causa contro gli infermieri dell’ospedale per maltrattamenti, ingiurie e percosse contro il marito. I residenti nelle case attigue all’ospedale, sentiti dal tribunale, affermarono di non poter testimoniare fatti del genere, ma una voce fuori dal coro dichiarò poi di aver sentito i lamenti e le grida, talvolta ingiuriose, del povero uomo.
L’insieme della documentazione esaminata dalla commissione istituita per vigilare sulla questione sottolinea ancora una volta le debolezze del sistema del Sant’Antonio, e lo stato della struttura è tale che si decide di destinare i finanziamenti messi a disposizione per i malati mentali nell’elaborazione di un progetto completamente nuovo. Alla fine dell’estate del 1854 si propone dunque di creare uno specifico servizio per gli individui alienati nel nuovo Ospedale Civile in costruzione, e chiamato in causa, l’architetto Gaetano Cima accetterà di modificare il suo progetto destinando al nuovo servizio due sezioni del piano terra.
Complessivamente, occorreranno però ben 15 anni prima di poter vedere completati i bracci della nuova struttura.
L’uomo uscì dal Sant’Antonio il 4 ottobre 1854, a seguito della richiesta formulata dalla moglie. Il medico responsabile attestò che, nonostante il comportamento mostrato nei primi mesi di ricovero, il paziente presentava ormai i segni di un importante cambiamento, anche se nessuno era in grado di dichiararlo perfettamente guarito dall’affezione maniaca. Le sue avventure giudiziarie tuttavia non finirono, nel 1857 venne perseguito per furto, nel 1859 per ferite volontarie inferte a un cane, e nel 1862 per oltraggio sulla via pubblica. Nel 1865 sarà invece protagonista di un duello «a mano armata di pistola» nel quale sarà implicato anche un archivista di Stato.
L’ospedale del Sant’Antonio lavorò invece come casa di cura fino al 1859, anno in cui, con l’apertura del nuovo ospedale intitolato a San Giovanni di Dio, si incominciarono a trasferire i primi degenti.
Dotato di un servizio specifico destinato anche agli alienati, la corsia entrò in funzione 1874, sostituendo per sempre l’antico nosocomio Antoniano.

In seguito al trasloco dei pazienti e allo sgombero degli arredi dalla vecchia struttura ospedaliera, nel 1881 la chiesa intitolata a Sant’Antonio Abate fu concessa all’arciconfraternita di Nostra Signora d’Itria, mentre il grande fabbricato che ospitava il convento e la casa di cura venne suddiviso in tre porzioni e ceduto a privati. Alcuni locali furono subito utilizzati come attività commerciali, e ancora oggi quelli stessi ambienti, alcuni dotati anche di pregevoli vetrine lignee, prospettano in parte nella via Giuseppe Manno e in parte all’interno dell’antico portico.
La porzione meridionale interna al cortile, fino al 1992 funzionò come scuola pubblica divenendo sede di istituti di vario grado. Dopo alcuni anni di chiusura, nel 2005 iniziarono una serie di importanti lavori che adatteranno il secolare impianto ai moderni requisiti di un Ostello della Gioventù, e dal 2009, la struttura non solo offre ospitalità a giovani viaggiatori, ma è anche sede di interessanti iniziative culturali.
Gli interni del piano terra mantengono quasi inalterato il loro fascino storico e, caratterizzati da grandi archi e da un soffitto in mattoncini, riescono ancora a ricreare visivamente degli spazi che sembrano quasi separati fra loro. Le stanze, che in parte presentano ancora un soffitto rustico con travi in legno, si affacciano invece nel cortile centrale, un tempo giardino con pozzo, all’interno del quale venivano coltivate le erbe medicamentose usate nella spezieria del convento.

L’antico percorso che collegava la chiesa al complesso Antoniano rimase pertinenza dell’ospedale fino al 1860, dopodiché, riaperto in ambedue le parti, oggi è divenuto un importante punto di snodo che collega due zone del quartiere della Marina molto frequentate. I tredici gradini conducono ancora a quella che era l’imboccatura che portava alla spezieria, mentre appena dopo la rampa di scale, quasi all’inizio del portico, una porta rustica sovrastata da dodici stemmi adesso invita ad entrare in un piccolo localino di ristoro, un tempo invece vestibolo che introduceva all’interno dell’antico ospedale.
Il gruppo di scudi, da ascrivere verosimilmente al periodo aragonese, e distribuiti in tre ordini sovrapposti, costituirebbero un esplicito richiamo alle autorità civili e religiose del tempo, e confermerebbero come ognuna di esse avesse rivestito un ruolo di rilievo nella gestione e nella cura dell’antica struttura ospedaliera. Sono ancora leggibili quello recante i pali d’Aragona e quello del Castell de Càller, il blasone dell’Infante Giovanni d’Aragona e gli stemmi di alcune famiglie catalane presenti in città fin dal Trecento: i De Besora, Giacomo fu viceré nel 1434; gli Entença, parenti stretti dei re d’Aragona; gli Erill, i Montbuy, i Busquets, Tomaso fu consigliere comunale nel 1434; i Pujalt. E poi lo stemma del consolato dei catalani e quelli degli ordini religiosi Spitalieri di Saint Antoine en Viennos e dello Spirito Santo.
Durante gli anni di attività della casa di cura, il sottopasso custodiva anche un grande crocifisso in marmo. La scultura aveva immagini su entrambe le facciate, Cristo da una parte e la Madonna dall’altra, e questo particolare rivelava la funzione di pietà del portico non solo verso coloro che scendevano nel sottostante cimitero, ma anche nei confronti di chi si recava nell’ospedale per le visite gratuite o più semplicemente cercava un riparo durante la notte o nelle giornate di pioggia.

Un’edicola barocca, formata da due colonne tortili sostenenti un timpano spezzato, accoglie invece una nicchia che ospita un’antica scultura raffigurante Sant’Antonio col porcellino. Alta 1 metro per 120 kg di peso, faceva parte del corredo del vecchio ospedale Antoniano, e fu offerta nel 1946 dalla signora Carossino, che, si racconta, ricevette una grazia durante la Seconda Guerra Mondiale. Il manufatto marmoreo, racchiuso da un vetro a circa 4 metri di altezza, prese il posto di un’altra bella e miracolosa immagine che ritraeva la Vergine della Salute, alla quale erano devoti i cagliaritani.
Appena fuori dal pendio del porticato, dirimpetto all’ingresso dell’ostello, è ancora visibile, in alto, la nicchia che accoglieva l’immagine di una Madonna, sotto la quale vi era la cosiddetta Ruota degli Esposti.
Nella parte più alta del prospetto della chiesa dedicata all’Eremita copto, rivolto verso il mare, in una posizione dominante rispetto al sottostante quartiere portuale, fu murata, in epoca imprecisata, una piccola figura scolpita, forse nel marmo, che emerge dal paramento murario appena al di sotto del campanile a vela a due luci. L’altorilievo frammentario rappresenta un personaggio senza capo, con le braccia distese e le mani poggiate sulle ginocchia piegate, in origine, forse, sopra un leggio. Si tratta probabilmente dell’unica parte superstite dell’antica cappella Antoniana costruita nel XIV secolo.