L’Antico Palazzo di Città oggi è parte integrante del circuito delle sedi espositive dei Musei Civici, ma fino al 1906 le sue mura hanno di fatto rappresentato il vero baricentro da cui, a partire dalla prima metà del XIV secolo, si sono tessuti i fili della vita politica, economica e sociale dell’insediamento urbano dello scosceso colle cagliaritano.
L’attuale edificio è il risultato di fasi costruttive e ricostruttive che si sono protratte per lungo tempo sull’architettura e sugli interni, lavori invasivi che hanno influito in modo determinante sull’intero complesso, causando la dispersione di un bagaglio culturale che inizia a formarsi nel lontano 1331, quando, per volere di Alfonso IV d’Aragona, si decise di trasferire il primo municipio pisano del Castrum Càlari (realizzato accanto alla curia vescovile) nell’area sud dello spiazzo rivolto verso la primitiva chiesa parrocchiale intitolata a Santa Maria, divenuta poi cattedrale della contrada callaritana.
Il passaggio da un modello di società comunale a un sistema a carattere monarchico, maggiormente strutturato sotto il profilo giuridico e burocratico, aveva implicato l’allestimento di una sede rappresentativa per il nuovo potere governativo, ed è per tale ragione che la corona barcellonese incamera il vecchio municipio pisano, quale dimora del nuovo vicario reale in Sardegna, per riservare all’autorità municipale una sede più modesta sul fronte meridionale della stessa strada.
All’epoca, il cuore del Castrum pisano era costituito da una piccola piazza poligonale che aveva assunto il nome di platea Sanctae Mariae, e quest’area fungeva da palcoscenico non solo alla cattedrale, ma anche a tutta una serie di modeste abitazioni e piccole officine che servivano da dimora e da laboratorio per coloro che avevano un qualche interesse alla vita di quella parte della città.
Su richiesta dei consiglieri e dei probi uomini del Castello, che si impegnavano a costruire a proprie spese la nuova sede del consiglio cittadino, il sovrano aragonese concede quindi di utilizzare per tale uso la struttura di una bottega, stimata ed espropriata al suo legittimo proprietario, e l’edificio della casa torre di una figura di spicco della mercatura e della politica pisana di quegli anni, aperto e munito di una loggia al piano terra, e affacciato oltre che sulla piazza della cattedrale anche sull’attuale via Nicolò Canelles. La bottega, una volta ristrutturata, venne sopraelevata di un piano e unita alla costruzione attigua, in maniera che potesse rimanere nella completa disponibilità dei consiglieri, mentre tutta la parte inferiore lasciata ad uso pubblico.
Ultimati i lavori, il palazzotto assunse il ruolo di centro motore di tutti i poteri, ospitando le attività della politica comunale che, attraverso i secoli, emanerà numerosi dettami che regoleranno i più diversi settori della vita cittadina. L’edificio diventò anche il luogo privilegiato in cui, di volta in volta, verranno affrontate tutte le delicate questioni riguardanti i rapporti tra la città e il potere regio che, dopo una fase iniziale caratterizzata dalla più ampia autonomia, cercò, a più riprese, di condizionare i consiglieri.
In base allo statuto concesso da Giacomo II d’Aragona con provvedimento del 25 luglio 1327, e con il quale il sovrano estendeva alla città sarda tutti i privilegi, le libertà e le prerogative di cui godeva Barcellona, Cagliari era retta da una giunta di cinque consiglieri, affiancata da cinquanta giurati e da un vicario.
Si andò avanti con questo criterio sino alla fine del Quattrocento, quando Ferdinando il Cattolico, al fine di accentuare il controllo regio, volle modificare le strutture amministrative: i consiglieri non sarebbero stati più eletti, come in passato, ma sorteggiati tra una rosa di candidati preventivamente scelti dal viceré di Sardegna.
Cagliari reagì con decisione ed è facile immaginare le infuocate riunioni svoltesi nel palazzo civico contro quello che era considerato un autentico sopruso.
Nei secoli seguenti, sia con gli spagnoli che con i Savoia, la questione delle interferenze si ripresentò periodicamente e con particolare pesantezza, trasformando il municipio in un arengo dove i consiglieri si rendevano protagonisti di accesi dibattiti tesi a rivendicare le prerogative della città e a condannare le prevaricazioni del potere regale.
La prima attestazione planimetrica dell’Antico Palazzo di Città risale al 1739, e in quest’epoca l’edificio presentava già come unico ingresso principale il portale coronato dalle scale di invito semicircolari rivolto nel senso della cattedrale, mentre l’accesso orientato verso via Canelles, che concludeva superiormente il più importante luogo d’incontro del quartiere Castello, risultava già privo di importanza, e utilizzato per arrivare ad uno spazio che presumibilmente doveva servire solo da semplice disimpegno.
In origine, l’inclinazione dell’ingresso e della facciata principale era invece rivolta verso la vita pulsante della città, quindi sulla ruga Marinarorum e sulla sottostante Plazuela, l’attuale piazzetta Carlo Alberto, fulcro del mercato cittadino. Dalle strutture turrite accluse al più antico palazzo pisano, in una delle quali, durante la metà del XV secolo, era stato aggiunto anche un orologio, era inoltre possibile osservare la ruga Mercatorum, dove avevano sede la gran parte delle botteghe.
La presenza di un orologio sull’edificio comunale sottolineava il ruolo che doveva rivestire il palazzo per le istituzioni cittadine e per la vita politica, sociale e culturale della città di quell’epoca, ma significava anche che aveva assunto il ruolo di scandire il tempo ordinario, il tempo laico in contrapposizione con il tempo della chiesa.
Di questo periodo storico non abbiamo immagini e purtroppo nemmeno testimonianze precise, ci rimangono però, tra le altre cose, alcune tracce della fase medievale che attestano la lunga vita del fabbricato, salvate dalle radicali ristrutturazioni apportate durante l’epoca sabauda.
Nel sottopiano si celano infatti i resti della parte certamente più antica del palazzo. Sotto la pavimentazione medievale a ciottoli, attraverso delle botole di vetro, sono ancora ben visibili alcune cisterne di epoca romana destinate alla raccolta dell’acqua. In questo livello, utilizzato anticamente come stalla e ingresso per le carrozze, sono presenti anche due portali gotici aragonesi e una nicchia scavata nell’arenaria contenente un tabernacolo.
Riconducibili all’epoca medievale e rinascimentale sono i manufatti segnalati durante i lavori di sistemazione dei pavimenti, tipologie del XVI secolo, e ceramiche smaltate di Montelupo fiorentino e di graffita pisana del XIV secolo.
Tra il Quattrocento e il Cinquecento i consiglieri propongono svariate iniziative tese a valorizzare il palazzo, e lo impreziosiscono anche con elementi scultorei, pittorici, arredi ed elementi epigrafici. A questo periodo risalgono le pitture presenti nel soffitto di legno cassettonato del salone principale: le illustrazioni, realizzate a tempera, presentano un’incredibile varietà di soggetti geometrici, motivi vegetali e floreali, scene di caccia, battaglie di leoni e draghi, fanciulli che suonano strumenti musicali.
Le figure, nascoste da un controsoffitto ad incannucciato dipinto risalente alla fine del XIX secolo, ritornarono alla luce dopo un intervento di restauro innovativo che richiese lo strappo dal supporto ligneo originario di tutte le parti dipinte, utilizzando velinatura con carta di riso giapponese e tela. Le pitture sono poi state rincollate su nuovi supporti lignei e ancora oggi si mostrano in tutta la loro bellezza.
Più tarde appaiono invece le decorazioni della sala all’ingresso su piazza Palazzo, dove prevalgono i motivi vegetali e geometrici realizzati in monocromia su fondo arancione e grigio.
Alla stessa epoca vengono fatte risalire anche le mensole in pietra con soggetti antropomorfi che sorreggono le strutture lignee del soffitto a cassettoni. Le particolari acconciature delle figure femminili, i fioroni di gusto tardo gotico e la tecnica di lavorazione, suggeriscono di datarle al XV-XVI secolo, benché le mensole attuali siano solo una ricostruzione di quelle originali, purtroppo fortemente erose dall’umidità.
Risaliva invece al 1504 un’iscrizione, oggi andata perduta, collocata nel Salone delle Adunanze e visibile ancora nel 1864, che faceva riferimento, probabilmente, alla creazione della cappella dedicata a San Lucifero: “Anno salutis 1504 Jacobo Caldes, Michaele Barbera, Johanne Galart, Bernardino Mendosa, Michaele Garau consulibus, opus hoc Hiversitatis impensa paractum est. Opus fecit Petrus Muroni”.
L’erezione del tempietto all’interno del palazzo era stato necessario per andare incontro alle esigenze religiose dei consiglieri di Cagliari, i quali, tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento, per contrasti con la diocesi, erano stati scomunicati.
La cappella, all’interno della quale nei giorni di festa veniva celebrata la messa, divenne un elemento di prestigio per tutto il corpo consiliare, tanto che venne impreziosita di elementi decorativi e di segni duraturi come appunto la lastra commemorativa. Sull’altare vi era anche un retablo che raffigurava la Madonna in trono con il bambino e un arcangelo. Ai lati i consiglieri, rappresentati nei loro abiti da cerimonia e con le proprie effigi, inginocchiati con accanto Sant’Andrea. Una dedicazione importante, dal momento che i consiglieri venivano eletti, appunto, nel giorno di Sant’Andrea. L’altra dedica era invece un omaggio a Santa Cecilia, prima patrona della cattedrale, poi intitolata alla Madonna.
Il Retablo dei Consiglieri, oggi conservato nel municipio di via Roma, venne realizzato tra il 1517 e il 1537 dal pittore cagliaritano di Stampace Pietro Cavaro. La cappella venne invece demolita nel 1889 per ampliare la Sala dell’Assemblea comunale.
Di quest’epoca rimane anche la lapide in marmo, murata sopra il portone principale, che ricorda la venuta a Cagliari dell’imperatore Carlo V, ed il raduno, nel porto, dell’imponente flotta allestita dalle potenze cristiane per attaccare Tunisi nel 1535. Erano più di cento anni che un sovrano non sbarcava in città e l’evento fu quindi ricordato con enfasi. Non si conosce invece il momento in cui venne collocata sul portale d’ingresso, ma si presume prima della ristrutturazione di fine Settecento che in qualche modo ha privilegiato la facciata prospiciente la cattedrale.
Negli anni successivi le fonti tacciono. In pieno Seicento le condizioni economiche della città e della magistratura cittadina non consentirono nuove committenze artistiche di livello pari all’opera del Cavaro, ma la volontà di lasciare un segno tangibile e personale era però fortemente sentita, tanto che, in un periodo imprecisato, i consiglieri seicenteschi chiesero ad un modesto pittore di coprire con le loro effigi l’opera cinquecentesca dell’artista stampacino.
Nel 1720 il regno di Sardegna passava ai Savoia, e con l’arrivo dei piemontesi e l’introduzione di nuove figure nell’amministrazione, la trasformazione urbanistica cui venne sottoposta la capitale fu particolarmente aggressiva.
Prima di allora, la pianta dell’Antico Palazzo di Città, risalente al 1739, aveva dato conto solo del piano terra e del sottopiano, e presentava l’edificio con il fronte principale orientato verso la piazza della cattedrale. Lo spazio circostante appariva già delimitato e corredato dalla scale per l’accesso all’attuale via Canelles e alla sottostante piazzetta Carlo Alberto.
I due diversi ambienti interni, oggi non più leggibili con quella scansione a seguito dei numerosi interventi di restauro, risultavano invece suddivisi in quattro sale.
In uno degli ambienti, addossata alla parete prospiciente via del Duomo, sembra essere indicata con una croce la cappella, che sappiamo dedicata a San Lucifero, e la scala a chiocciola che verosimilmente conduceva al sottopiano. Oggi la scala si trova ancora nello stesso luogo, anche se non è più a chiocciola, ma è spezzata con rampe e pianerottoli che portano anche ai piani superiori.
Tra le tante ristrutturazioni ed innovazioni promosse da Carlo Emanuele III di Savoia ci fu l’istituzione dell’Ufficio di Insinuazione (detto Tappe), un luogo adibito alla raccolta dei documenti prodotti dai notai della città. Si cercava quindi uno spazio adeguato da destinare agli archivi, e la pianta, che riproduce i locali dell’allora palazzo attiguo, ci racconta che per far fronte a questa funzione vennero scelte le due sale che ai nostri occhi si mostrano con le volte a crociera. Per il dislivello esistente tra le attuali via del Duomo e via Canelles, i due ambienti risultano oggi uno al piano terra e l’altro al primo piano, tant’è che sempre per il dislivello del terreno, l’accesso dall’interno dell’Antico Palazzo di Città avviene ancora scendendo alcuni gradini.
Nei vari inventari conservati presso gli archivi cittadini vengono ricordati anche diversi oggetti e mobili, ma quella che ne scaturisce non doveva certo essere una realtà ricca e sfarzosa, anche se tuttavia è implicita la particolare attenzione nel segnare con precisi punti di riferimento religiosi e civili gli ambienti del palazzo.
Nel proseguo degli anni l’amministrazione avvertì la necessità di ristrutturare la sede del palazzo ormai non più adeguato alle esigenze amministrative della città, e oltre alla sala per l’assemblea dei giurati, vennero ricavati anche gli ambienti per la segreteria, per il notaio, per il tesoriere, per il mazziere e appunto l’archivio.
Gli interventi più significativi risalgono però agli anni che vanno dal 1783 al 1787, sotto Vittorio Amedeo III, e vengono ricordati con l’epigrafe posta sul lato del prospetto esterno che dà sulla piazzetta Carlo Alberto.
I lavori prevedevano il rifacimento del coperto del primo piano, l’apertura di due finestre, e l’otturazione, con una muraglia di pietra calcina, di un lucernario esistente; vennero messi in opera architravi in ginepro e predisposta una nuova porta.
Ci fu anche una sopraelevazione, realizzata una parete di pietra ordinaria tra pilastro e pilastro, e l’apertura di altre finestre; un superficiale rifacimento del coperto con l’aggiunta di tegole mancanti, un intervento nel solaio con tavelloni ben squadrati, pareti di mattoni di calcina per le divisioni delle camere, e due porte alla “cappuccina” con tavole di Corsica.
Nel 1784 furono invece demoliti tutti i solai, e costruiti quattro nuovi pilastri che partivano dalle fondamenta e arrivavano sino al mezzanino. Vennero realizzati superficiali curve di mattone in calcina, per la formazione degli archi a volte a crociera del piano sotterraneo, e previsti altrettanti manufatti in mattone anche per gli archi rampanti e ripieni della scala di comunicazione che, dalla sala del secondo piano, arrivava fino all’alloggio del mazziere.
Durante il 1786 il municipio subì anche la sostanziale ristrutturazione esterna che gli conferì la forma attuale. Furono demolite le vecchie muraglie e realizzate delle parate orizzontali che, unitamente a quelle verticali, concluse da capitelli ionici, ripartiscono con eleganza la specchiatura del palazzo. Furono costruite le finestre al pian terreno, e altrettante nel piano nobile; vennero messi in opera i balconi con la ringhiera in ferro battuto e riaperta le porta a due battenti che prospetta verso piazza Carlo Alberto.
L’edificio ebbe due facciate importanti, ed un fronte meno significativo rivolto su quella che era la stretta strada della Speranza, e che, sebbene marginale, aveva avuto una discreta importanza fino ai primi decenni dell’Ottocento, poiché all’interno della chiesetta omonima si riunivano gli Stamenti.
Il prospetto su piazza Palazzo era caratterizzato dal portale, realizzato con blocchi di calcare bianco, sormontato dalla lapide di Carlo V, e da un timpano spezzato che reggeva lo stemma sabaudo della città, chiuso in un ovale circondato da una corona d’alloro; nella seconda facciata, rivolta verso via Canelles, si apriva invece un portone (chiuso nuovamente durante gli ultimi lavori di restauro) sopra il quale si trovava una portafinestra centrale terminante con un timpano spezzato. Al suo interno era stato collocato un altro stemma di Cagliari che rifletteva il disegno dell’emblema concesso alla città da Carlo Emanuele III nel 1766: due croci sabaude e due castelli inquadrati, due tritoni laterali, la corona marchionale (sopra), il mare (sotto). L’iscrizione marmorea ricordava invece il 1787, cioè l’anno in cui ad opera dei piemontesi fu rifatto il palazzo.
Negli anni a seguire l’edificio riceve periodici interventi di manutenzione, soprattutto ordinaria, ma già durante la metà dell’Ottocento lo stesso appare già non più adeguato alle esigenze del municipio.
Attraverso una permuta avvenuta nel 1847, il Conte Lostia cede alcuni locali di una sua proprietà (che dovrebbero essere quelli che oggi si affacciano su via del Duomo), e sempre nello stesso anno, venne demolito il tetto dell’ultimo piano, ricostruito poi a capriate con calce e sabbia.
Nel frattempo, il centro economico e vitale della città si era ormai spostato fuori Castello, verso il mare, portandosi dietro anche i consiglieri comunali. Il vecchio municipio venne così abbandonato senza nemmeno rientrare nelle disponibilità degli amministratori alla fine dei lavori.
Dopo la Prima Guerra Mondiale sull’edificio calò il silenzio. Poi, nel gennaio del 1922, l’ex municipio venne occupato dagli allievi del neonato Istituto Civico Musicale. Nel 1931, lo stesso istituto fu Liceo Musicale, per divenire, nel 1939, Conservatorio di Musica intitolato a Pier Luigi da Palestrina.
Fino agli anni Settanta del Novecento in quei locali risuonarono arpeggi di pianisti, note lunghe di violinisti, melodie di flauti e acuti di tenori, poi il palazzo cadde di nuovo in un abbandono materiale e culturale, che in quegli anni interessava peraltro l’intero quartiere Castello.
Dal 1986 al 2009 inizia una serie di restauri, il cui esito è l’edificio dai bei colori pastello che oggi domina il lato sud dell’attuale piazza Palazzo. Il suo volume interno, che può essere suddiviso in quattro livelli principali: piano terra (in corrispondenza dell’ingresso di piazza Palazzo), sottopiano (in corrispondenza dell’ingresso di via Canelles), e due piani superiori, ospita invece pittori e artisti di ogni tempo.