La rivalità fra Cagliari e Sassari ha radici molto profonde che affondano in un’infelice cronaca che coinvolse Prunisinda, la giovane nobile catalana sposa del giudice Costantino II di Torres.
Era il 1194 quando Guglielmo I Salusio IV di Lacon Massa, detto il “terribile”, invase il settentrione della Sardegna con una possente armata.
Per proteggere la sua consorte, Costantino ordinò ad alcune truppe scelte di condurre Prunisinda nel castello di Burgos, considerato il luogo più sicuro del regno.
Guglielmo però, sorprese alcune frotte avversarie presso le Terme di Benetutti, e una volta trucidate in una sanguinosa battaglia, puntò verso il castello innalzato sopra il picco granitico, dove iniziò un assedio che si concluse con la conquista delle fortezza del Goceano.
Per insultare il sovrano turritano, o forse solo per malvagia libidine, Prunisinda venne brutalmente seviziata, e in seguito condotta a Santa Igia dove morì di stenti.
Questo fatto di sangue fu solo l’inizio di uno scontro infelice tra due regni vicini che, probabilmente, non andrà mai a placcarsi.
Durante i secoli di lotte per il predominio della Sardegna da parte delle repubbliche marinare di Pisa e Genova, le due città, dapprima alleate con l’intento di liberare il mare dai pirati saraceni, avevano pian piano iniziato ad introdursi nell’isola, trasferendovi in sordina genti attive e aperte a nuovi traffici, rivelandosi però fin da subito insofferenti verso il mantenimento dello status quo imposto dal sistema giudicale, ritenuto obsoleto e non rispondente alle esigenze di due nuove realtà che volevano invece schiudersi.
In questo quadro si va perciò, col tempo, ad inasprirsi il malumore popolare verso i governanti, al punto che i giudicati vanno gradualmente disgregandosi con la possibilità di conseguire, per entrambe le città divenute ormai ostili fra loro, una certa autonomia. A Sassari (Comune autonomo sotto la protezione di Genova) fu la repubblica ligure ad avere la meglio, a Cagliari, invece, quella toscana.
I nuovi dominatori pisani si rivelarono però ben presto incapaci di interpretare le volontà autonomistiche e indipendentistiche del Capo di sotto, tanto che, con l’obiettivo politico e militare di conquistare l’isola, Cagliari subisce la cupidigia della potenza catalano aragonese, aiutata da Sassari, in piena espansione nel Mediterraneo.
Dopo l’invasione, il centro del Castello diventò la dimora del governatore aragonese, alimentando in questo senso ulteriori malcontenti nella frazione opposta del Capo di sopra.
Sotto gli aragonesi, Sassari era riuscita a mantenere i propri Statuti, benché riequilibrati dalla presenza di organismi reali, continuava ad avere la popolazione più numerosa dell’isola e, soprattutto, poteva ancora incamerare rendite altissime.
Il mantenimento di questi privilegi, il controllo dei traffici di tutta la parte settentrionale della Sardegna, la presenza di una nutritissima nobiltà, che era motivo di benessere e potenza, e la convocazione dei Parlamenti sardi avvenuta nel 1456, spingeva il capoluogo del Capo di sopra a rinfocolare continuamente la contesa con Cagliari, che a sua volta difendeva con energia il suo potere di sede delle più alte cariche del regno.
Lo scontro fra i due centri si accese anche sul fronte culturale e su quello religioso, quando, con Federico il Cattolico, la monarchia spagnola procedette, ancor prima del Concilio di Trento (1545-1563), a riformare i costumi, le pratiche, e le stesse istituzioni religiose, per renderle perfettamente in linea con il carattere unitario della nuova politica interna.
L’organizzazione ecclesiastica si era articolata, fino alla seconda metà del Quattrocento, in tre province, con alla testa i tre uffici metropolitani di Cagliari, Oristano e Sassari, ciascuno con un numero variabile di sedi suffraganee: alla provincia ecclesiastica di Cagliari appartenevano le diocesi di Sulci e Dolia; alla provincia di Oristano competevano le curie di Terralba, di Usellus e Santa Giusta; a quella di Sassari (la più ricca di sedi suffraganee) appartenevano le diocesi di Bosa, Ampurias, Ottana, Sorres, Ploaghe, Castro, Bisarcio; dipendevano invece dalla Santa Sede le curie di Galtellì (attuale Nuoro) e Civita (attuale Olbia).
Le ripetute ondate epidemiche, le carestie, e lo stato di guerra tra l’Aragona e l’Arborea, causarono però una drastica contrazione della popolazione, tanto che l’abbandono di un gran numero di centri abitati incise profondamente sulla vita di alcune sedi vescovili, le cui cattedrali si trovavano ormai ridotte allo stato di chiese campestri.
Se a tali condizioni si aggiunge (soprattutto dopo la feudalizzazione del territorio ad opera degli aragonesi) anche l’alienazione dei grandi patrimoni ecclesiastici, si comprende il motivo per cui, tra la fine del Quattrocento e gli inizi del Cinquecento, il Re Cattolico sollecitò dalla Santa Sede il conferimento di una delega apostolica per “riformare” il clero isolano, che si traduceva nell’obbligare i vescovi al compimento dei loro doveri pastorali, e ridurre il numero delle chiese cattedrali adeguandolo all’effettiva entità delle rendite.
Tra un vescovo e l’altro vi era infatti una sperequazione economica enorme (si pensi che nel 1493 le tre province ecclesiastiche di Cagliari, Oristano e Sassari percepivano rispettivamente rendite annue pari a 400 ducati per l’archidiocesi di Cagliari ((300 ducati)), comprese le rendite delle sue suffraganee di Dolia ((60 ducati)) e Sulci ((40 ducati)); 850 ducati per l’archidiocesi di Oristano ((300 ducati)), comprese le suffraganee di S. Giusta ((200 ducati)), Ales ((250 ducati)) e Terralba ((solamente 100 ducati)); e 1570 ducati annui per l’arcidiocesi di Sassari ((400 ducati)), comprese le sue numerose suffraganee che, complessivamente, percepivano 1170 ducati annui) e per tali ragioni, Ferdinando era convinto che gli alti sacerdoti si sarebbero potuti meglio controllare se le loro rendite fossero state meno indecorose.
Le richieste di Ferdinando il Cattolico furono accolte da Giulio II che nel dicembre del 1503 promulgò la bolla Aequum reputamus, la quale prevedeva una ridisegnazione della mappa ecclesiastica che si sarebbe poi conservata per oltre 250 anni.
La lettera papale imponeva la soppressione della diocesi di Dolia e la stessa unita all’archidiocesi di Cagliari, così come il vescovado di Sulci e quello di Galtellì; nella provincia ecclesiastica arborense si ebbe l’unione ad Oristano, mentre quelle di Usellus e Terralba furono riunite in un’unica curia con sede ad Ales. Per quanto riguardava l’archidiocesi turritana, i vescovadi di Sorres e Ploaghe furono incorporati con Sassari; la diocesi di Ampurias, unita alla sede di Civita, fu trasferita, almeno nominalmente, a Castellaragonese; infine, le sedi di Bisarcio, Castro e Ottana costituirono un’unica curia trasferita ad Alghero.
Ad eccezione della diocesi di Ales, la cui cattedrale rimase nell’omonimo villaggio, feudo del più potente barone dell’isola, le altre sei sedi episcopali che sopravvissero erano tutte piazze murate con statuto di città: gli arcivescovadi di Cagliari, Sassari e Oristano e i vescovadi di Alghero, Castellaragonese e Bosa (per la quale non fu previsto alcun cambiamento). L’unico centro a soccombere fu Iglesias, poco dopo essere diventata sede vescovile, vittima dunque dell’imperativo di dotare Cagliari di una rendita e di un territorio ecclesiastico, adeguati al suo ruolo di capitale del regno.
Nel giro di pochi decenni la chiesa sarda era dunque passata da diciotto diocesi medievali a sette.
Con l’accorpamento di più curie, affidate ora ad un solo prelato, era diventato difficile per i vescovi (soprattutto per quelli di Cagliari, Oristano, Alghero, Ampurias e Civita) adempiere ai loro obblighi essenziali, come, per esempio, quello della visita pastorale, indispensabile per conoscere la diocesi ed avere un contatto, non solo burocratico, con i propri fedeli.
A tale difficoltà si aggiungevano anche le intemperie e la malaria che, da fine maggio a tutto novembre, imperversavano per quasi tutta l’isola, bloccando gli spostamenti resi già estremamente difficoltosi dalla quasi inesistente viabilità.
Da non trascurare, poi, il fattore linguistico, che ostacolava la efficace comunicazione tra i vescovi e le popolazioni loro affidate: circa la metà dei prelati nominati per le diocesi sarde durante il periodo spagnolo furono di origine iberica e potevano, quindi, rivolgersi direttamente solo agli alfabetizzati, mentre nei confronti della stragrande maggioranza delle popolazioni erano obbligati a ricorrere all’interprete.
Nonostante i tentativi riformistici delineati dal Re Cattolico agli inizi del XVI secolo, la situazione della chiesa sarda restava, dunque, segnata da disagi e manchevolezze; l’alto clero era quasi sempre impegnato in conflitti di competenza con i rappresentanti regi, il basso clero era costituito da preti rozzi, ignoranti, talvolta superstiziosi, per i quali erano ancora lontane le iniziative approvate dal Concilio di Trento per la preparazione culturale e professionale dei religiosi.
Tali iniziative e la loro sempre più capillare applicazione trovarono espressione solo durante la seconda metà del Cinquecento, soprattutto grazie all’intervento dei gesuiti, i quali, con le scuole da loro istituite, risposero al desiderio di istruzione sentito da un gran numero di studenti sardi dell’alta borghesia, prima di allora obbligati a recarsi fuori dell’isola per conseguire i gradi accademici in qualche università italiana o spagnola.
Cagliari e Sassari, per consentire anche ai ceti meno abbienti il conseguimento di tale ambizione, insisteranno per avere una università propria. Iniziò il collegio di Sassari, che nel 1612 ottenne il privilegio pontificio di graduare in filosofia e in teologia, mentre l’anno seguente ricevette la dispensa per istituire anche le facoltà di legge e di medicina; la città di Cagliari, riuscì invece, fin dal 1626, a far funzionare la sua università di diritto pontificio e regio, fornita di tutte le facoltà che allora caratterizzavano l’insegnamento e il sapere accademico.
Queste innovazioni culturali favorirono l’emergere di un nuovo ceto locale togato, i letradoso, costituito da avvocati, notai, medici e cavalieri, che pian piano sostituirono la nobiltà nella direzione degli affari pubblici, e nelle maggiori cariche amministrative e giudiziarie del regno.
Ma, per quanto favorevoli fossero state le premesse della seconda metà del Cinquecento e dei primi anni del Seicento, i risultati furono comunque molto deludenti, poiché le università di Sassari e di Cagliari, dopo qualche decennio dalla loro nascita, furono travolte dalle successive ondate di pestilenze che ne decimarono il corpo insegnante e ne resero difficile la rigenerazione.
La rivalità fra le due città sarde più importanti non si era mai placata, e ad accentuare la supremazia di Cagliari lo dimostravano ora anche i dati demografici rilevati dai successivi censimenti dei fuochi, nei quali era evidente la maggiore capacità di recupero del Capo di sotto di fronte alle ripetute ondate di pestilenze e carestie della seconda metà del Seicento. In questo frangente, infatti, Cagliari sopravanzava e Sassari perdette definitivamente anche il suo primato di metropoli più popolosa dell’isola, che durava da oltre un secolo e mezzo.
La contesa tra i due Capi posizionati ai poli opposti della Sardegna non si limitò però al solo censimento della popolazione, ma investì quasi tutti i campi, da quello politico (miravano entrambe a diventare sede degli organi centrali di governo, a vantaggio di Cagliari) a quello culturale (aspiravano a divenire sede principale degli studi accademici, anche se la questione non ebbe mai un vincitore certo).
In campo ecclesiastico ambedue scalciavano per ottenere il titolo di “primate di Sardegna e Corsica”, tolto al vescovo di Cagliari dal papa Urbano II con una bolla del 1092, per essere poi nuovamente attribuitole nel 1138 dall’arcivescovo di Pisa.
Nel Trecento, il titolo passò all’arcivescovado di Castel de Caller, e qui rimase fino a quando la pretesa di trasformarlo, nel 1574, da onorifico a giuridico, con conseguenze di natura economico-amministrativa, non scatenò l’ennesima, lunga e paradossale controversia fra le chiese di Cagliari e Sassari.
Tale rincorsa al primato si protrasse fino alla metà del Seicento, periodo durante il quale le due fazioni cercarono di affermare l’apostolicità della propria sede garantendole il maggior numero di martiri. Chiese degne di venerazione, come quella di San Saturnino a Cagliari e di San Gavino a Porto Torres, furono irreparabilmente sconvolte dalla ricerca delle reliquie di santi e di beati (los cuerpos santos) e, non soddisfatti delle epigrafi autentiche che erano state ritrovate negli scavi, gli arcivescovi delle due città ne forgiarono altre, attribuendo nome e qualità di martire o di vergine a resti ossei affatto anonimi; si ingegnarono a celebrare ricorrenze liturgiche di santi fabbricati di sana pianta, e a proporre fantasiose liste episcopali.
La questione del primato rimase comunque irrisolta, sia perché i tribunali romani si pronunciarono solo relativamente a questioni marginali (la sede episcopale di Cagliari fu riconosciuta più antica di quella di Torres), ma soprattutto perché l’Isola fu investita da una tremenda successione di carestie e pestilenze che placarono la contesa, benché sempre pronta a riaccendersi.
La spregiudicata forza dell’arcivescovo Francesco De Esquivel, che volle esaltare la cristianità di Cagliari riportando alla luce spoglie secolari, ma non certo di B(eati) M(artiri) come si credette, bensì di semplici B(ene) M(erenti), ovvero uomini e donne, per lo più pagani, che i parenti prossimi avevano giudicato ben meritevoli di una sepoltura con tanto di epigrafe, la possiamo ancora percepire osservando i delicatissimi lavori di scalpello, la straordinaria abbondanza di marmi, la notevolissima varietà di rosoni e le nicchiette contenenti le reliquie dei “cuerpos santos” riportati da lui alla luce e collocati all’interno del Santuario dei Martiri realizzato nel Duomo di Cagliari.
L’interessante opera, in cui sono riassunti elementi architettonici e artistici del rinascimento, del barocco e del neoclassicismo, e dove sono custoditi i resti degli eroi della fede cagliaritana e i sepolcri di alcuni personaggi di Casa Savoia, è un ambiente risalente al 1616, scavato quasi interamente nella roccia.
Vi si accede tramite due brevi rampe di scale, poste ai lati del recinto presbiteriale, che conducono dapprima ad un pianerottolo dove è collocato il sarcofago dell’arcivescovo Francesco De Esquivel. Il monumento funebre, concepito come una vasca in marmo, è sormontato dalla statua giacente il prelato che per primo volle la realizzazione del santuario. Il fronte mostra al centro un cartiglio con iscrizione latina, retto da angioletti; ai due lati, altrettanti creature celesti poggianti su protomi leonine recano invece gli emblemi vescovili: pallio e calice a sinistra, stola e patena a destra. Sullo sfondo una tela raffigura l’arcivescovo in preghiera davanti al Crocifisso, attorniato dalla folla dei martiri sardi da lui riscoperti.
Sotto il piccolo altare, l’ingresso a pozzo conduce invece ad un angusto ambiente voltato a botte, utilizzato come luogo di sepoltura.
Al termine della seconda e più preziosa scalinata, si aprono le tre cappelle comunicanti e dedicate a Santa Maria Regina dei Martiri (quella centrale), a San Saturnino (a sinistra) e a San Lucifero (a destra), i campioni della cristianità cagliaritana.
I famosi martiri che generarono la miriade di santi locali che avrebbero patito il martirio a Cagliari, trovano invece posto nelle pareti della cripta, interamente rivestita da porticine marmoree a bassorilievi policromi di gusto tardo-rinascimentale.
La cappella dedicata alla Madonna dei Martiri, che accoglie il visitatore con una luce naturale garantita da due finestre quadrate ricavate sul muro frontale, cela un’aula rettangolare e una volta a botte con sesto ribassato, da cui pendono cinque lampade d’argento. Decorata a cassettoni con 584 rosoni scolpiti a mano nella roccia, presenta un’elegante alternanza di fioroni e punte di diamante di gusto classicista che alludono simbolicamente alla volta stellata del cielo, entro cui si colloca la gloria dei martiri e dei santi. Le pareti sono interamente ricoperte da intarsi marmorei policromi, dove trovano posto 179 (64 nella cappella centrale, 82 nella cappella di San Lucifero e 33 in quella di San Saturnino) formelle cuspidate con le raffigurazioni, a bassorilievo su fondo azzurro, dei martiri, identificabili dalle iscrizioni sottostanti. In corrispondenza delle formelle altrettante urne calcaree accolgono invece le relative reliquie. La cappella fu consacrata l’11 novembre 1618.
L’altare centrale, ancora in marmi policromi, ospita le statue della Madonna con Bambino tra Sant’Anna e San Giuseppe. Ai lati e nel fastigio dell’altare viene ripetuto lo stemma dell’arcivescovo De Esquivel, presente anche nel pavimento marmoreo e all’interno della mensa, ma qui, con soluzione insolita, in una composizione di mattonelle maioliche policrome valenzane (azulejos).
L’altare è dedicato agli innumerevoli martiri e santi cagliaritani rimasti senza nome.
Oltre la porticina a destra, l’altare dedicato al vescovo cagliaritano del IV secolo, Lucifero (+371), formidabile difensore della fede contro l’eresia ariana. Al centro, la statua marmorea che lo raffigura con le insegne vescovili nel gesto benedicente allusivo alla Trinità. Gli emblemi raffigurati nel paliotto e nel fastigio si ricollegano al personaggio, mentre le ruote intarsiate raffiguranti il sole nelle incrostazioni laterali alludono al suo nome, Lucifero, portatore di luce.
Di fronte all’altare di San Lucifero si trova invece il monumento funebre di Maria Luigia di Savoia, moglie di Luigi XVIII re di Francia, morta esule a Londra il 12 novembre 1810. La sua salma venne trasportata a Cagliari, dove allora aveva sede la Corte sabauda, che aveva lasciato Torino, invasa dai rivoluzionari francesi. Il monumento in marmo bianco è costituto da una base a parallelepipedo recante l’iscrizione dedicatoria, a sua volta sormontata da una figura di un genio alato che mesti si appoggia all’urna, allusiva alle ceneri della defunta. Nella parete retrostante al sepolcro sono murati due sarcofagi antichi, di cui uno utilizzato per ospitare le reliquie di Sant’Antioco, sacerdote e martire sardo da non confondere con l’eponimo santo dell’isola sulcitana.
La cappella presenta una volta a crociera che ostenta gemme pendule rivestite con decorazione vegetale in stucco, il cui stile plateresco mescola insieme elementi gotici e rinascimentali.
Nel tempietto sinistro si trova l’altare marmoreo dedicato al martire cagliaritano Saturnino, dove trova collocazione anche un antico sarcofago con figure alate reinterpretate in chiave cristiana come angeli. Nella nicchia la statua in marmo dipinto, commissionata nel 1624, del patrono di Cagliari, che viene rappresentato nella sembianze di un giovane in abiti cavallereschi, allusivi al suo rango nobiliare.
La volta, di gusto tardo-gotico, è realizzata a crociera con costoloni dipinti. Al centro, l’immagine di San Saturnino tra una palma e la rappresentazione idealizzata della basilica a lui dedicata. Le quattro vele sono ornate da decorazioni vegetali in stucco bianco che risaltano sul fondo colorato.
In fondo alla cappella, il monumento in marmo racchiude le spoglie del figlioletto di Carlo Emanuele I di Savoia e Maria Teresa d’Austria; il bimbo morì di vaiolo il 9 agosto 1799 all’età di due anni. È composto da una struttura a parallelepipedo con iscrizione dedicatoria sul fronte, e copertura terminante in un cuscino su cui poggia una corona metallica. Sul fondo, un sarcofago tardo-antico con figure alate in volo reggenti un medaglione con ritratto del defunto.
Sono trascorsi secoli, e a perpetua memoria di quei tempi avvelenati, oltre alla bellissima cripta, ci rimane una Sardegna che vive ancora uno squilibrio territoriale a vantaggio delle zone rampanti (Cagliari e Gallura), e un’inimicizia tra Cagliari e Sassari capace di alimentare tutt’oggi la rivalità tra le due antiche città.