Il Duomo di Cagliari

Prospetto novecentesco del Duomo di Cagliari

Le origini del Duomo di Cagliari si perdono nei primi anni del 1200, e più precisamente nel momento in cui gli avvenimenti storici portano i pisani a insediarsi nel Castrum Càlari.

Il suo primitivo impianto, sostanzialmente conservato anche nell’impostazione attuale, si presentava a tre navate con quattro colonne in granito grigio per parte (tratte probabilmente da qualche importante edificio di epoca romana) che avevano la funzione di sostenere la copertura a capriate lignee della navata centrale, e le volte a crociera degli ambienti laterali.

Quando i pisani, nel 1254, trasferirono anche le istituzioni civili e religiose dell’antica città di Santa Igia all’interno dell’insediamento urbano dello scosceso colle cagliaritano, la dignità di cattedrale fu assunta dalla primeva chiesa parrocchiale intitolata a Santa Maria, in principio amministrata da una comunità di sacerdoti toscani, i quali, in virtù dei nuovi cambiamenti, accolgono, anche se con qualche riluttanza, il vescovo e il capitolo dei canonici provenienti dalla distrutta città giudicale, e dedicano il loro piccolo tempio a Santa Cecilia Martire e alla Vergine Assunta.

Scala della torre campanaria

Questo passaggio comportò l’ampliamento e l’abbellimento della chiesa, che acquistò una struttura armoniosa e un’atmosfera mistica, data dalla luce pacata che fluiva dalle feritoie, e si mostrava ora con un paramento di pietra chiara, una volta a capriate, e pavimenti di calcare grigio.

Nello stesso frangente fu realizzato anche il braccio trasversale, che fece assumere all’edificio la sua definitiva pianta a forma di croce.

Nel frattempo venne innalzato il primo tratto del campanile, a canna quadrata e profilata da larghe paraste (i finestroni, già tendenti al sesto acuto, furono invece realizzati in un momento successivo), che avrebbe dovuto rivestire anche una funzione di avvistamento e di comunicazione con le altre torri dell’antica borgata medievale.

Nel 1326 i giochi della politica europea regalarono al Castrum un nuovo padrone: gli aragonesi, e i nuovi arcivescovi che ora giungevano dalla Spagna si preoccuparono di abbellire ulteriormente la cattedrale, arricchendola di diverse cappelle e costruendo, in stile gotico-aragonese, gli armoniosi ambienti delle sacrestie.

Navata centrale

In seguito, la Corona di Spagna assorbì il regno d’Aragona e di Sardegna, e quasi senza saperlo, nel 1479, anche la cattedrale diventò Spagnola.

Giunto dalla vecchia Castiglia, e più precisamente dalla città di Vitoria, l’allora arcivescovo di Cagliari, Francesco De Esquivel, nel 1615 fece una “scoperta” che modificò profondamente l’assetto dell’antica chiesa madre.

Tra la fine del ‘500 e l’inizio del ‘600, nel clima di continua rivalità tra Cagliari e Sassari, qualcuno paventò l’ipotesi di spostare la capitale di Sardegna nel centro turritano.

Per Cagliari era motivo di vanto l’essere sempre stata città di governo, l’essere notoriamente il centro urbano più popoloso e possedere il maggior numero di reliquie di martiri. Così, per questo motivo, dopo numerosi scambi di carte bollate, per dimostrare il rango superiore di una città sull’altra, Cagliari e Sassari decidono di procedere al “conteggio” dei corpi dei cosiddetti martiri locali. In realtà, però, nel capoluogo sardo, gli scavi dell’epoca (condotti nell’antica basilica di San Saturnino e nelle necropoli romane e paleocristiane limitrofe), riportarono sì alla luce spoglie secolari, ma non certo di B(eati) M(artiri) come si credette, bensì di semplici B(ene) M(erenti), ovvero uomini e donne, per lo più pagani, che i parenti prossimi avevano giudicato ben meritevoli di una sepoltura con tanto di epigrafe.

A Francesco De Esquivel questo però bastò per decidere di far rialzare il presbiterio della cattedrale, affinché potesse essere costruito, al di sotto, il Santuario dei Martiri, destinato a custodire le reliquie dei “cuerpos santos” cagliaritani riportati da lui alla luce.

Cappella di Santa Cecilia

Il Seicento fu dunque l’anno dei grandi rimaneggiamenti, i cui lavori eccezionali occultarono però quasi del tutto le tracce del vecchio edificio romanico.

Alla fine del XVII secolo, la cattedrale versa in condizioni deplorevoli e minaccia di andare in rovina. L’arcivescovo Pedro De Vico, sostenuto dal clero e dalla maggior parte dei cittadini, intraprende quindi un massiccio intervento di trasformazione dell’edificio, giustificato anche dal crollo improvviso del soffitto ligneo medievale, oramai in gran parte marcito, e dalla necessità di avere una chiesa più grande, sfarzosa e luminosa, vale a dire l’opposto di quello che era il tempio precedente: modesto, mistico e raccolto.

Il progetto, affidato nel 1699 all’architetto lombardo Francesco Solaro, ed seguito dall’impresario ligure Domenico Spotorno, prevedeva l’ampliamento e la sopraelevazione della navata centrale, la costruzione delle volte in pietra sostenute da più robusti pilastri in muratura, e la realizzazione di una grande cupola all’incrocio dei bracci; il tutto doveva essere eseguito tenendo però conto della cripta dei martiri con la relativa sopraelevazione del presbiterio, già realizzati.

Non potendo poi espandersi in lunghezza, l’edificio fu dilatato in larghezza e altezza, equilibrando le proporzioni con una ricca trabeazione, e curando, in particolare, l’impostazione scenografica del presbiterio, fulcro dello spazio sacro e dell’azione liturgica.

Per ottenere questo risultato vengono allargate la navata centrale e le due laterali, mentre nella fascia superiore dell’ambiente principale si sistemano dei finestroni che avranno l’obiettivo di inondare la chiesa di luce; si sollevano i muri perimetrali per rendere l’insieme più imponente e, all’incrocio del transetto, verrà elevata la cupola solenne slanciata verso il cielo e ridondante di colori e di stucchi dorati. Infine, vengono decorate le testate del transetto, collocati i mausolei e gli altari, a danno però delle antiche cappelle gotiche, che appariranno murate, e il pavimento sostituito con tarsie marmoree.

Cappella della Madonna di Sant’Eusebio

Dell’epoca precedente rimangono in piedi solo il bel campanile romanico, i portali del transetto, uno ancora romanico  e l’altro illeggiadrito da elementi gotici, le sacrestie in stile gotico-aragonese, e il famoso pulpito che il Maestro Guglielmo aveva inizialmente scolpito nel 1162 per la cattedrale di Pisa, ma poi inviato a Cagliari, e ora smembrato.

In questo frangente il tempio si arricchisce di suppellettili, nuovi altari e sepolcri, dovuti alla generosità di vescovi e prelati, o di pie e danarose nobildonne del Castello che li fecero erigere con profusione di marmi e ornamenti.

I lavori per dare alla cattedrale una nuova veste durano sino al 1703, quando anche la facciata romanica viene sostituita da un prospetto barocco ricco di festoni, volute, decorazioni vegetali e teste di cherubini, secondo il perfetto stile del tempo.

Nel 1720 la situazione politica della Sardegna cambia ancora una volta, e in questa fase rientra nell’orbita della civiltà italiana, annessa agli stati dei Savoia. Anche i nuovi arrivati vogliono che la cattedrale sia bella e ornata, e per loro conto fanno costruire diversi arredi e monumenti funebri.

Al sorgere del Novecento, il frontale esterno di fattura barocca necessita di ulteriori importanti lavori di restauro, e in questo frangente le autorità cittadine si pongono il problema di dare una nuova facciata alla chiesa madre dei cagliaritani. Il prospetto risultava appena deteriorato, ma considerato troppo rovinato da chi invece nutriva la speranza di riportare alla luce l’antico aspetto medievale del tempio, che si supponeva ancora esistesse al di sotto. Purtroppo, però, una volta abbattuta la facciata settecentesca tutti si resero conto che delle più antiche e preziose spoglie non c’era più traccia, perché probabilmente già eliminate durante i precedenti restauri, in età spagnola.

Cappella di San Michele

La delusione era tanta, e il risultato fu una chiesa spoglia e disadorna, che rimase scrostata per quasi 25 anni, ovvero finché, nel 1929, l’architetto Francesco Giarrizzo verrà incaricato di realizzare il nuovo volto della cattedrale, ispirato allo stile medievale che ancora conosciamo.

Sull’attuale facciata neo-romanica, realizzata utilizzando la pietra calcare del colle di Bonaria e frammenti scultorei della chiesa originaria, oggi si aprono tre portali sovrastati da altrettanti archi che accolgono i mosaici di San Saturnino (con una palma in mano) patrono di Cagliari, la raffigurazione di un Theotòkos,  titolo attribuito alla Madonna durante il Concilio di Efeso nel 431, e di Santa Cecilia, compatrona della cattedrale. La parte alta della facciata presenta invece tre livelli sui quali si notano delle finte logge con piccoli archi sostenuti da colonnine.

Tra le polemiche, vanno avanti anche i lavori voluti da Mons. Ernesto Maria Piovella, che portano alla riapertura delle cappelle gotiche del transetto, al restauro del campanile e al completamento della decorazione lasciata in sospeso da Antonio Caboni nell’Ottocento, e ora affidata al pittore sardo Filippo Figari, il quale progettò per la chiesa l’apparato decorativo della grande tela per la volta della navata centrale, raffigurante l’Allegoria della Fede Sarda (1931). L’unico riquadro non eseguito dal Figari è la Gloria di Santa Cecilia, eseguito per l’appunto dal Caboni tra il 1842 e il 1845.

Altare di Sant’Isidoro Agricola e Cappella Aragonese

Oggi la cattedrale di Santa Maria custodisce un’infinità di bizzarrie: come il dado di pietra alla destra della facciata, campione di unità di stima ufficiale delle granaglie sfuse usato dai pisani, oppure l’esempio della misura lineare utilizzata ancora dai pisani per determinare la lunghezza delle stoffe, e tuttora presente nella torre campanaria.  Dipinta sull’intonaco della parete esterna del transetto sinistro, si può scorgere anche una carta geografica della Sardegna che risale alla fine del 1600 e, accanto a questa, incorniciata da un archetto cieco, una misteriosa figura di orante databile forse al XIV secolo.

Se volessimo davvero avventurarci alla ricerca delle curiosità che nasconde la chiesa, le nostre fatiche di ricercatori non finirebbero tanto presto, perché i ricordi “stampati” nella pietra sarebbero davvero troppi. Percorrendo i 137 scalini del campanile, che ospita ben quattro campane (una delle quali è considerata la più grande dell’isola e una delle più antiche) è possibile ammirare dall’alto vedute mozzafiato del capoluogo, mentre se si va alla ricerca di nuove emozioni, si potrebbero visitare i sotterranei, oscuri, umidi e suggestivi, purtroppo però non tutti accessibili, come la parte situata sotto la navata centrale, dove erano sistemate le tombe di alcuni membri del capitolo metropolitano, o quella che si apre sotto il braccio sinistro del transetto, che accoglieva invece le tombe dei nobili cagliaritani.

Altare Maggiore

Entrando all’interno della cattedrale, lo sguardo è attratto subito dalla zona del presbiterio, situato al centro in posizione sopraelevata e sovrastato dalla cupola, dove si trovano i luoghi più importanti della chiesa: l’altare e l’ambone, da cui vengono proclamate le letture bibliche, ed importante perché simbolo della resurrezione di Cristo, messaggio centrale del vangelo, che da lì viene letto.

Ad accogliere i fedeli sono però le due acquasantiere del XXVII secolo, di inestimabile valore culturale e artistico, che sembra vogliano separate la navata centrale da quelle laterali. Ad accentuare questa sensazione ci provano anche le quattro colonne per parte, realizzate con sottarchi di pietra e stucco finemente decorati.

Nei pennacchi della cupola: San Marco, San Matteo, San Giovanni, San Luca; A sinistra: La Gloria di Santa Cecilia, A destra: Santa Cecilia. Nella volta del transetto: La Regina dei Sardi (Regina Sardorum).

Il pavimento sul quale si cammina oggi è invece di fattura recente (1956) e permette di iniziare il viaggio senza troppe distrazioni.

La prima cappella a destra è dedicata a una martire romana, Cecilia, morta nel 230 sotto Settimo Severo, mentre era papa Urbano. L’altare marmoreo, di gusto tardo barocco (1780), è impreziosito dai cromatismi delle colonne in marmo rosso, che inquadrano il dipinto centrale, e dalla sinuosa balaustra in marmi neri e gialli. Il tema eucaristico è richiamato anche dalla raffigurazione della “Cena di Emmaus” nella porticina del tabernacolo in argento sbalzato e cesellato. Al centro dell’altare campeggia invece la tela del pittore romano Pietro Angeletti, raffigurante “Le nozze mistiche di Cecilia e Valeriano”, che ritrae la Santa non nella consueta iconografia mentre suona un organo, ma insieme allo sposo, al quale appare un angelo che gli rivela la consacrazione a Dio di Cecilia e porgendo a entrambi le corone di rose, simbolo del futuro martirio.

Un passo più avanti, il confessionale ligneo del Settecento, decorato ad intaglio.

Navata centrale, in alto: il Trionfo della Croce, al centro: Allegoria della Fede; in basso: la Deposizione

La seconda cappella, dedicata alla Madonna di Sant’Eusebio (o di Giosafat), presenta un prezioso altare in marmi policromi, caratterizzato da barocche colonne tortili in marmo nero che inquadrano la nicchia centrale, e da un paliotto con intarsi a motivi vegetali, su cui compare lo stemma del canonico Giovanni Maria Solinas, che commissionò l’opera nel 1776.

La terza cappella, dedicata a San Michele, è opera del marmoraro genovese Giuseppe Massetti, che la eseguì nel 1727 con l’aiuto di Pietro Pozzo. Colpisce l’originale soluzione scenografica di gusto barocco, con cui è interpretato il tema scultoreo di San Michele Arcangelo e la cacciata degli Angeli ribelli. Michele stringe nella mano destra un fulmine, simbolo dell’ira divina che si abbatte sugli spiriti ribelli, rappresentati con espressioni tormentate mentre precipitano negli inferi. Nel fastigio, il simbolo della Trinità (un triangolo), entro la gloria di luce, i cui raggi si prolungano idealmente sulla figura di Michele. All’interno delle nicchie ai lati, le statue marmoree di San Giovanni Evangelista, protagonista della visione apocalittica, e del Profeta Isaia, che parla della caduta di lucifero (stella del mattino), interpretato dai padri della Chiesa come Satana, il capo dei demoni.

Il transetto custodisce invece il monumentale altare in marmi policromi intarsiati dedicato al patrono degli agricoltori, Sant’Isidoro Agricola, costruito a spese dell’arcivescovo Diego Fernandez De Angulo nel 1683, a memoria delle frequenti carestie che colpirono l’isola in quel secolo. Concepito come una quinta architettonica, la complessa struttura è composta dalla mensa-sepolcro, che rappresenta il Santo defunto, in abiti vescovili riccamente ornati, deposto su una lettiga con due cuscini, e due angioletti che reggono i lembi di una cortina; al di sopra, i tre gradini dei candelieri, cui corrispondono tre nicchie ospitanti le statue di San Saturnino Martire tra San Francesco d’Assisi e San Diego d’Alcalà, e ancora più in alto, il dipinto dell’Immacolata con Bambino. Ai lati coppie di colonne tortili in marmo nero reggono un fastigio con la statua di Sant’Isidoro tra allegoriche figure femminili. Nelle nicchie laterali trovano invece posto i simulacri marmorei di Santa Barbara e San Bonaventura da Bagnoregio.

Recinto presbiteriale

Di fronte all’altare si riuniva il Parlamento Sardo, composto dai tre bracci, e per questo motivo, l’immagine della Vergine è chiamata anche Madonna degli Stamenti.

Al fianco desto si erge invece la Cappella Aragonese (chiamata anche della Sacra Spina) eretta attorno al 1326. Si presenta con una pianta semiottagonale e una volta ombrelliforme, al centro della quale compare una gemma pendula che raffigura Santa Eulalia, patrona di Barcellona. La cornice dell’arco porta scolpito lo stemma con i quattro pali rossi in campo dorato del regno d’Aragona, mentre al lato è osservabile lo stemma della città regia (cioè non infeudata ed autogestita) di Cagliari, che inquarta ancora una volta i pali d’Aragona con il castello a tre torri (dell’Aquila, dell’Elefante e di San Pancrazio), originario emblema urbano risalente all’età pisana.

La cappella è intitolata anche alla Sacra Spina, un aculeo che si vuole appartenesse alla corona di Gesù, e che giunse a Cagliari nel 1527 insieme ad altre reliquie ed opere d’arte trafugate da varie chiese di Roma e dallo stesso appartamento pontificio dopo il terribile Sacco di Roma, ad opera dei lanzichenecchi di Carlo V. Poco prima di giungere in porto, la nave si imbatté in una tempesta, e chi era a conoscenza del prezioso carico, spinto forse dalla convinzione che la buriana fosse espressione della collera divina per i furti sacrilegi, confessò il fatto ad alcuni religiosi presenti sulla nave, che, giunti a Cagliari, informarono l’arcivescovo dell’accaduto. Il papa Clemente VII, venuto a conoscenza dei fatti, decise comunque di lasciare in dono a Cagliari alcune reliquie tra cui la Sacra Spina.

Cripta. Cappella di Santa Maria dei Martiri

Al suo interno è presente un tabernacolo realizzato, nel 1610, in argento sbalzato e cesellato. Possiede una struttura a tempietto di gusto rinascimentale, diviso in tre ordini e concluso da cupola con lanternino; numerose statuine e un invadente ornato di gusto tardo manierista completano l’opera. L’edicola è sorretta da quattro aquile in argento, recente sostituzione di quelle lignee originali.

La cappella custodisce anche una lampada in argento sbalzato, cesellato e a traforo, realizzata nel 1602, che presenta una struttura ottagonale divisa in due ordini, conclusa poi da due piatti circolari gradonati contrapposti. Gli spazi tra i pilastrini angolari sono chiusi da lamine traforate con decori vegetali.

L’antico altare pisano a mensa, sostenuto da alcune colonnine, fu ammodernato grazie ad un ricco paliotto in argento sbalzato e cesellato, realizzato nel 1655 da una bottega madrilena. Vi compaiono numerosi santi locali (Giorgio di Suelli, Efisio, Lucifero, Saturnino) insieme alla compatrona della cattedrale, Cecilia, e al santo invocato durante le pestilenze, Sebastiano.

Alle sue spalle, in pregiato legno di noce, si innalza invece l’antica cattedra arcivescovile, che costituisce anche l’unico elemento superstite del coro secentesco. Il seggio è caratterizzato da un cupolino a base poligonale con la copertura imitante le tegole. Una ricca cornice intagliata rifinisce la sua base dove compaiono cinque mitrie allusive alle diocesi riunite sotto la guida dell’arcivescovo di Cagliari nel 1503.

Cappella del Crocifisso e Cappella Pisana

Collocati a ornamento del recinto presbiteriale, i quattro leoni di epoca pisana, che originariamente sorreggevano le colonne dell’ambone di Guglielmo, e che si presentano ciascuno con diverse connotazioni iconografiche. Quello posto all’estrema sinistra rappresenta il possente felino, simbolo in questo caso di Cristo trionfatore dei nemici materiali della Chiesa, che ghermisce il petto di un cavaliere disarcionato e il suo cavallo, il quale cerca di ferire la belva con un pugnale; ai piedi della scalinata centrale, ancora a sorreggere il peso della balaustra marmorea seicentesca, un leone che stritola un vitello, e un altro che schiaccia un orso con le fauci spalancate. All’estremità destra, invece, il felino è rappresentato mentre dilania con i suoi formidabili artigli un drago alato, simbolo di Satana, e quindi personificazione del male che Cristo è venuto definitivamente a distruggere con il suo sacrificio.

Due porticine sistemate nell’area sottostante il presbiterio e il coro introducono invece al Santuario dei Martiri, una cripta di incomparabile bellezza per i delicatissimi lavori a scalpello, per la straordinaria abbondanza di marmi, per la notevolissima varietà di rosoni e naturalmente per le nicchiette, contenenti appunto le reliquie dei Beati Martiri.

Ballatoio reale e monumento a Martino il giovane

Ripartendo dal lato sinistro del transetto, la prima cappella è dedicata al Crocifisso, che compare nella nicchia centrale dell’altare marmoreo datato 1787.
Il crocifisso in legno, intagliato e dipinto, risale agli inizi del XVIII secolo, ed è stato attribuito allo scultore piemontese Severino Felice Cassino. Nelle nicchie laterali sono custodite due statue raffiguranti San Sebastiano e San Rocco.

Più avanti si erge invece la Cappella Pisana, eretta tra la fine del XIII e i primi anni del XIV secolo, in forme gotiche toscane. A pianta quadrata, presenta una volta a crociera sorretta da colonnine pensili, un’ampia bifora e, sulla parete meridionale, una grande nicchia ad arco lobato. Nei peducci delle colonnine pensili sono riprodotti i simboli dei quattro Evangelisti: l’angelo di Matteo, il leone di Marco, il bue di Luca e l’aquila di Giovanni.

La testata del transetto sinistro è interamente occupata dal mausoleo dedicato a Martino I, il giovane re di Sicilia che riportò la vittoria nel 1409 a Sanluri contro l’armata del giudice di Arborea. Il sovrano, inginocchiato e con le insegne regali, compare nella nicchia superiore, sovrastante l’urna poggiante su due leoni. Nel fastigio l’allegoria della morte, uno scheletro con la falce, con la corona e l’ermellino, avvolta da un ampio mantello. La decorazione del monumento è affidata a iscrizioni entro cartigli a stemmi d’Aragona, alternati a una ricca popolazione di sculture: guerrieri con armature antiche, genietti piangenti, angeli reggistemma, teste di cherubini, cariatidi, e le allegorie della Fede e della Giustizia nelle nicchie laterali del terzo ordine.

Pulpito fatto erigere dall’arcivescovo Pedro De Vico

A Martino il giovane, deceduto poco dopo la battaglia di Sanluri, è collegata la figura mitica de “la Bella di Sanluri”, una leggenda che racconta di una bella e anonima fanciulla fatta schiava e costretta a soddisfare, come altre sue conterranee, i desideri delle truppe dopo il micidiale combattimento. Invaghitosi di lei, il re la volle accanto a sé, non sapendo però che la ragazza, desiderosa di far scontare al monarca i lutti causati nella sua terra, aveva architettato un piano per vendicarsi.
Alcune fonti sostengono che la fanciulla abbia utilizzato un potente veleno per portarlo alla morte, altre, invece, che abbia sfruttato solo la sua avvenenza, e che intrattenendosi con lui per parecchie ore, sia riuscita a sfibrare le sue tempra fino a farlo spirare tra le sue braccia.
La realtà, però, sembrerebbe diversa, poiché le cronache dell’epoca racconterebbero di un re accolto trionfante alle porte di Cagliari, che si ritirò in solitudine, scosso dai tremori di una violenta febbre malarica contratta nell’isola già da tempo, e che dopo appena un mese dalla vittoria del 1409 lo portò alla morte.

Sospeso sulla parete d’ingresso del transetto sinistro, il ballatoio ligneo, intonato nel gusto della sottostante bussola neoclassica, che aveva la funzione di ospitare la famiglia reale dei Savoia durante le sacre funzioni, alle quali accedevano attraversando il Palazzo Arcivescovile.

Cappella della Madonna della Mercede

Sotto il balconcino insiste invece il monumento funebre dell’arcivescovo Ambrosio Machin de Aquena. Di chiaro gusto barocco, si caratterizza per i suoi tre livelli: nell’apparato inferiore compare al centro un’iscrizione latina dedicatoria che ne esalta i meriti come teologo, Maestro Generale dell’Ordine della Mercede e promulgatore della santità di San Lucifero. Nell’ordine mediano lo stemma del prelato tra figure di genietti e angeli; in quello superiore l’arca funebre in marmo nero, con il teschio della morte al centro, e sulla sommità la figura inginocchiata dell’arcivescovo orante.

Addossato al terzo pilastro della navata centrale si innalza il pulpito marmoreo fatto erigere dall’arcivescovo Pedro De Vico. La tribunetta, la cui rampa di scale si avvolge al pilastro, utilizza come sostegno un’antica colonna in porfido rosso ed è completato in alto da un paravoce ligneo. Nel sopraccielo la raffigurazione dello Spirito Santo in forma di Colomba, allusivo alla sua predicazione del Vangelo. Nel pannello centrale trova invece posto lo stemma dell’arcivescovo De Vico, sormontato da una corona e da un cappello arcivescovile. È caratterizzato da due leoni rampanti che reggono una croce a “T” che ospita tre stelle in fascia.

Cappella di Santa Barbara

Ripartendo dalla navata sinistra, alle spalle del pulpito, la prima cappella è dedicata alla Santissima Vergine della Mercede, realizzata durante il primo ventennio del XVIII secolo. L’altare marmoreo, di gusto tardo barocco, è caratterizzato da un unico ordine di doppie colonne tortili confezionate in marmo nero su alti plinti, che inquadrano un dipinto che raffigura la Madonna titolare del tempietto. La Santa è ritratta in una vesta bianca, e sotto il suo manto sono raccolti alcuni santi mercedari, mentre ai suoi piedi compaiono due schiavi, alla cui liberazione si dedicava l’Ordine. In basso, una nicchia con la statua marmorea della Vergine del Pilar e, alla base della mensa, il monumento funebre dell’arcivescovo Bernardo Carinena.
Le pareti laterali custodiscono invece due sepolcreti: quello a destra, è dedicato al marchese Luigi Amat di Sorso (1807), quello alla sinistra, eseguito dallo scultore Giuseppe Sartorio, a monsignor Paolo Maria Serci, arcivescovo dal 1893 al 1900.

La seconda cappella è dedicata a Santa Barbara di Nocomedia, patrona degli artiglieri e delle forze militari. Il fondale del tempietto, chiuso da una balaustra in marmi rossi e neri, è interamente occupato dall’altare in marmi policromi di gusto ancora tardo barocco, dove la Santa è raffigurata due volte: nel momento del martirio nella pala centrale, in gloria nel bassorilievo marmoreo dell’edicola superiore.
Il dipinto centrale raffigura la Martire in ginocchio minacciata dal padre che cerca di costringerla ad adorare un idolo pagano. Sullo sfondo, invece, la torre entro cui la Santa fu rinchiusa. In alto due angioletti in volo offrono a Barbara la corona e la palma, simbolo del martirio. Nel paliotto marmoreo della mensa compare anche il monogramma cristico con le lettere greche X e P (Chrismòn) tra le palme, ad indicare il nome di Cristo per cui Barbara diede la vita.

Infine, la Cappella del Battistero, realizzata in stile neoclassico, che ospita il fonte battesimale marmoreo eseguito nel 1824. Sul fronte compare ad altorilievo una colomba, simbolo dello Spirito Santo che rigenera a nuova vita i credenti, e sulla sommità una piccola statua di San Giovanni Battista, che nel battesimo d’acqua e nell’invito alla conversione preparò la venuta di Cristo.

Navata laterale sinistra e, in primo piano, la Cappella del Battistero

Rimane integro il paramento interno dell’edificio romanico, realizzato in blocchi calcarei perfettamente sagomati, che oggi accoglie i portoni principali della cattedrale. Sul muro si leggono ancora il profilo dell’architrave del portale mediano, sormontato da lunetta, e l’oculo circolare in asse.
Sulla stesso muro di controfacciata è addossato anche l’ambone del Maestro Guglielmo, realizzato tra il 1159 e il 1162, e giunto a Cagliari nel 1312. Oggi appare smembrato a formare due pseudo-cantorie inaccessibili, ma fino alla fine del XVII secolo la struttura era formata da un’unica cassa rettangolare con due distinti leggii, uno per l’Epistola e l’altro per il Vangelo, costituita da otto pannelli scolpiti e innalzata da colonne marmoree impostate sui quattro leoni stilofori adesso inseriti nella struttura presbiteriale.

I pannelli, completamente smontati durante la ristrutturazione voluta dall’arcivescovo Pedro De Vico, furono successivamente riassemblati in modo confuso, tanto da non seguire più il racconto cronologico della vita di Cristo e l’originaria fisionomia romanica dell’opera.

Il Duomo di Cagliari rimane per molti ancora un mondo sconosciuto, è certamente un’espressione della fede cristiana e un luogo di preghiera, ma è anche uno scrigno pieno di gemme storiche e architettoniche, un monumento di arte e di aneddoti destinato a rappresentare una sintesi delle vicende umane e artistiche della città di Cagliari, ma che tuttavia pochi hanno la capacità di vedere, benché siano lì, sotto gli occhi di tutti.

Muro di controfacciata: il cartiglio barocco e il medaglione di Santa Cecilia provenienti dalla facciata del 1703