Il sacerdote, che rivolge le spalle ai fedeli, oggi celebra la santa messa secondo l’antico rito romano. Non è una funzione ordinaria quella che si svolge la domenica mattina, e il suono sublime dell’organo, insieme alle preghiere sussurrate della liturgia in latino, spingono spesso i curiosi a sbirciare all’interno di una chiesa che si porta dietro il peso di molti secoli di storia.
Si ritiene plausibile che la superficie su cui oggi sorge l’attuale basilica possa essere stata un’area sacra fin dai tempi del pontefice San Gregorio Magno (540-604), mentre è indubbio che al suo posto, fin dal 1341, ci sia stato un tempio ebraico, riconvertito al culto cristiano col titolo di Santa Croce intorno al 1550.
È il 1323 quando la judería inizia a prendere forma, il XV secolo quando raggiunge la sua massima espansione, e il 1492 quando, invece, insieme alla sinagoga, la contrada inizia un nuovo importante capitolo. In quell’anno, infatti, gli ebrei vengono cacciati da Caller e il loro tempio chiuso.
Ferdinando il Cattolico, con la presa di Granada, era riuscito a riconquistare l’intero territorio spagnolo, allontanando definitivamente i mori, presenti nella penisola iberica fin dal 711.
Nell’intento di rendere definitiva la vittoria, lo stesso sovrano emanò un editto che espelleva dai territori della Corona di Spagna anche gli ebrei, rei questi ultimi di aver aiutato i musulmani contro i cristiani. L’editto riguardò anche la Sardegna, dove però non tutti fecero fagotto, e molti, seppur bollati come traditori, rimasero nell’isola e abbracciarono, o finsero di farlo, il cattolicesimo.
Il tempio ebraico di Cagliari, sul quale il municipio cittadino esercitava il giuspatronato, venne affidato inizialmente ad una delle confraternite della città, quella del Santo Monte di Pietà, istituita con bolla pontificia nel 1530 da Clemente VII, e aggregata nel 1551 all’Arciconfraternita di San Giovanni Battista Decollato di Roma.
Al suo interno, padre Pietro Spiga, primo gesuita sardo ritornato nell’isola, ogni quindici giorni vi teneva una pratica di meditazione spirituale rivolta agli adepti della congrega.
Durante il 1565, per volere dell’arcivescovo Antonio Parragues de Castillejo e delle autorità cittadine, la stessa aula di culto venne invece messa a totale disposizione della Compagnia di Gesù, un organo religioso fondato nel 1534 da Sant’Ignazio di Loyola, che, nei successivi due secoli riuscì a segnare profondamente anche la vita della città.
La comunità dei padri gesuiti, impegnata nell’istruzione e nella ricerca scientifica, nelle opere di carità, nel servizio ai carcerati e ai malati negli ospedali, nella riconciliazione delle liti e nella direzione spirituale di personaggi di rango elevato, con l’apertura di una scuola a Caller, mise in piedi un centro culturale di primo piano che vantava un organico curriculum di studi frequentato da numerosi alunni, specie dei ceti più elevati, che sarebbero poi diventati i leader della società sarda.
Il collegio, poco alla volta, ebbe necessità di ampliamenti, e fu proprio lo sviluppo del complesso capitolare a far apparire piccola e modesta la primitiva chiesa di Santa Croce, che all’epoca si presentava ancora con un orientamento rivolto a Est-Ovest, e con un ingresso che avveniva dall’antica strada dei giudei, odierna via Corte d’Appello.
In un primo momento fu progettato un riattamento del tempio, ma le condizioni strutturali che gravavano sull’antica fabbrica ebraica costituivano un impedimento alla sua ristrutturazione. La chiesa non poteva nemmeno essere allungata perché già posta quasi in aderenza con la muraglia pisana, ed inoltre aveva una strada pubblica da un lato e un muro dall’altro. Alla fine dei lavori sarebbe rimasta poco capiente come auditorio pubblico e, soprattutto, avrebbe continuato a non avere spazi sufficienti per seppellire al suo interno i benefattori del collegio, se questi non fossero stati prelati insigni.
I padri gesuiti decidono allora di cercare un sito diverso sul quale costruire la nuova chiesa, ricevendo subito in donazione un’area di proprietà del conte di Quirra. Il donativo però non basta, e a causa dell’eccessivo impegno economico, i lavori vengono interrotti.
I religiosi ritornano dunque nel sito dell’antica sinagoga, il quale, alla fine del 1569, con l’erezione del poderoso bastione di San Giovanni (intitolato poco tempo dopo a Santa Croce), si era nel frattempo allargato, ricreando un’area piuttosto ampia anche in adiacenza del modesto tempio, offrendo in questo modo ai padri un’insperata possibilità di espansione della chiesa rispetto al suo nucleo iniziale.
È il mese di novembre del 1594 quando viene posata la prima pietra della nuova chiesa di Santa Croce.
Durante i lavori di costruzione emergono però tutta una serie di contrattempi e problemi monetari, nonostante il legato stabilito dal Parlamento sardo per la sua realizzazione. Si rende inoltre necessario abbattere anche il vecchio tempio, che viene inglobato nel nuovo e più spazioso edificio.
Di quell’operazione si troverà riscontro nel 2005, nel corso di una campagna di scavi archeologici resa possibile da un intervento di restauro. Sotto il pavimento ottocentesco, sono infatti rinvenuti i resti di due muri, che, per materiali e tecnica costruttiva, si sono rivelati pertinenti a un unico edificio che è stato identificato proprio nell’antica sinagoga ebrea.
Le difficoltà economiche vengono superate solo alcuni anni più tardi grazie alle cospicue donazioni effettuate a favore dei padri gesuiti dalle famiglie Rossellò e Brondo.
In particolar modo, fu con la morte della nobildonna Anna Brondo y Çervellon, dei marchesi di Villacidro, avvenuta il 12 novembre 1598, che le attività di costruzione subiscono un’accelerata, andando a conclusione in pochi anni, almeno nelle parti strutturali più importanti.
Anna Brondo, molto devota alla Compagnia di Gesù, aveva fatto un cospicuo lascito a favore della chiesa che i gesuiti stavano erigendo, nominandoli anche esecutori testamentari. Nelle sue ultime volontà aveva menzionato quali eredi dei suoi beni e curatori della sua anima i padri Giovanni Maria Paduano, rettore della Compagnia, e padre Giovanni Carrutza, rettore del Collegio di Stampace, che, una volta reso pubblico il testamento, provvedono anche a seppellire la benefattrice in Santa Croce.
Sessantadue anni più tardi, don Felice Brondo, terzo marchese di Villacidro, ricordava quella sua antenata, di cui si dichiarava pronipote, facendo scolpire sul frontone d’ingresso della chiesa di Santa Croce lo stemma dei Brondo, Gualbes, Ruecas e Zuniga, e la scritta in latino:
“D. Anna Brundo/fundatrici/III.M D. Felix Brundo/M. de Villacidro/pronepo/Anno MDCLXI”,
– per volontà del pronipote Felice Brondo, marchese di Villacidro, si ricorda la benefattrice Anna Brondo, a conclusione dei lavori nel 1661 -.
La chiesa fu completata con l’erezione di solenni altari baroccheggianti in marmi pregiati e con l’acquisto di preziosi dipinti, statue, pezzi d’argenteria e suppellettili di vario fasto.
La storia di Santa Croce rimane legata a quella del collegio gesuitico anche in epoca sabauda, e cioè fino a quando, con il breve apostolico Dominus ac Redemptor di papa Clemente XIV, la Compagnia di Gesù viene soppressa.
Nel 1773 la chiesa viene incamerata dallo Stato e conosce un periodo di decadenza. Poi, nel 1809, durante la permanenza a Cagliari di Vittorio Emanuele I, il sovrano la concede all’Ordine cavalleresco dei Santi Maurizio e Lazzaro, di cui era Gran Maestro.
Elevata quindi a basilica magistrale, l’Ordine vi riorganizzò, affidandola ad un cappellano, la vita liturgica per i suoi membri e per i fedeli del rione, e con appropriati restauri, ne rinnovò l’aspetto.
Si deve infatti a questo passaggio l’assetto attuale del tempio, con la realizzazione dell’abside e la decorazione con le pitture murali.
Danneggiata durante i bombardamenti del 1943, e più volte restaurata, la basilica di Santa Croce si presenta oggi con aula e ambienti laterali, tre per ognuno dei lati lunghi, coperti da volte a botte. I sottarchi e gli archi che scandiscono i due lati delle navate hanno profilo semicircolare, e assieme a paraste, capitelli e cornici aggettanti, concorrono a dare vita ad un insieme di gusto classicista.
Superata la grande bussola in legno intagliato, impreziosita da finissimi fregi dorati, e sormontata dallo stemma dell’Ordine mauriziano, ci si ritrova in un vasto ambiente dalle armoniose proporzioni.
Nella fresca penombra brillano gli ori degli arredi. Gli altri particolari emergono man mano che l’occhio si abitua alla luce tenue.
Il presbiterio seicentesco, a pianta quadrangolare, fu sostituito dall’attuale abside semicircolare, e oggi è un arco trionfale a reggerne la volta a botte, finemente decorata di cassettoni esagonali di tipo neoclassico dal pittore Ludovico Crespi; al più noto Antonio Caboni venne invece assegnata l’incombenza di dipingerne ai lati le figure dei due santi patroni.
Una ricca cornice modanata in forte aggetto, poggiante su alti pilastri marmorei scanalati, scorre lungo tutte le pareti.
Nell’altare maggiore, ricco di intagli marmorei policromi, spicca l’opera più notevole della chiesa: un grande crocifisso ligneo che presenta il Cristo nell’abbandono della morte.
Alla destra del presbiterio, si trova la tomba nella quale riposa il gesuita Giovanni Battista Vassallo, morto in odore di santità nel 1744.
Le cappelle, non comunicanti fra loro, sono chiuse da balaustre marmoree che si irradiano di luce per via di finestre lunettate. Risalgono ai secoli XVII e XVIII, e si trovano ad un livello di poco rialzato rispetto all’aula.
Il primo altare laterale, a destra dell’ingresso, oggi è dedicato a Sant’Antonio da Padova. La sua immagine si trova nella nicchia centrale tra colonne tortili in marmo nero, cornici modanate, ed eleganti fregi baroccheggianti sotto un ricco fastigio. Anticamente quest’altare era dedicato a San Stanislao di Polonia e potrebbe essere suo il grazioso simulacro, attribuibile allo scultore Giuseppe Antonio Lonis, esposto in una nicchietta laterale, anche se spesso lo si identifica come San Giovanni Nepomuceno.
Il secondo altare, di fattura simile al primo e agli altri che seguono, è dedicato a San Francesco Saverio, santo gesuita apostolo delle Indie. Sulla destra, in una mensola, la statua di Santa Barbara che potrebbe risalire ai primi decenni del XVII secolo.
Viene poi l’altare di San Vincenzo martire, il cui sacrificio è raffigurato in un dipinto.
A sinistra, la prima cappella accanto all’altare maggiore, presenta, nella nicchia centrale, una statua di Sant’Ignazio di Loyola vestita in preziosi paramenti settecenteschi.
Subito dopo, la cappella centrale intitolata ai santi martiri turritani, Gavino, Proto e Gianuario, ritratti in una preziosa tela. Purtroppo, la parte superiore è stata sacrificata in tempi successivi per inserirci un’altra immagine del tutto estranea al contesto: una copia dell’icona bizantina nota come Salus Populi Romani e venerata nella chiesa di Santa Maria Maggiore a Roma.
L’ultima cappella, di fattura meno accurata della altre, è dedicata invece al Sacro Cuore. Un’scrizione posta sulla cornice superiore ricorda che fu eretta, nel 1839, dal rettore della basilica Giacomo Pes.
Attraverso un’apertura a sinistra del presbiterio, un corridoio voltato a botte immette nell’antisacrestia voltata a crociera, che a sua volta consente di arrivare alla sacrestia: un’ambiente rettangolare che richiama lo schema ricorrente nelle tipologie gesuitiche, dove tre zone a funzioni differenti circondano il presbiterio, assicurando facile accessibilità alla chiesa da altri luoghi pertinenti. Il suo interno custodisce opere di notevole interesse, oltre a due casse che contengono numerose reliquie dei santi cagliaritani, o presunti tali, ritrovate durante gli scavi voluti dall’arcivescovo Francisco d’Esquivel nei primi decenni del Seicento; seguono poi un gran numero di dipinti con cornici originali in legno dorato con fini intagli.
La basilica si affaccia con il fronte principale nella breve piazzetta Santa Croce, ed è aperta verso i bastioni e i panorami del versante occidentale della città, gli stagni e i monti di Capoterra, caratterizzando il tratto del baluardo a cui dà il nome.
Vi si accede attraversando un portale preceduto da una scalinata in pietre lise e slabbrate. Il prospetto risulta particolarmente sviluppato in altezza, ed è suddiviso in due zone da una larga fascia orizzontale, entro cui, tra due oculi circolari, scolpito in pietra in altorilievo, è riprodotto lo stemma dell’Ordine religioso della Compagnia di Gesù, fondato da S. Ignazio di Loyola. L’emblema è rappresentato da un disco raggiante e fiammeggiante, al cui interno è riportato il monogramma di Cristo con le lettere IHS. In particolare, la lettera centrale – H – è sormontata dalla Croce, mentre alla base sono riportati tre chiodi, simbolo della passione di Cristo.
La parte inferiore, priva di membrature di irrobustimento, è caratterizzata da un timpano curvilineo a bracci spezzati che accolgono lo stemma marchionale della famiglia Brondo.
L’ordine superiore, inquadrato da due coppie di lesene doriche, si divide in cinque specchi. Nel fastigio è presente un’apertura rettangolare che mostra il cielo, particolare di forte valenza simbolica.
Il coronamento curvilineo è realizzato tramite due piatte volute affrontate che si ripiegano in graziosi girali. Le volute di raccordo sono invece meno elaborate, e si concludono con due elementi verticali a dado, sormontati da sfere a guglia, che richiamano l’ordine a fiamma, legato alla cultura anticonformista.
Per la costruzione della facciata furono utilizzati anche materiali di spoglio provenienti da una necropoli romana.
La basilica è dotata di due campanili. Il primo è semplice e a vela, mentre l’altro è a canna quadrata con monofore archiacute sormontate da una cupoletta realizzata con squame di maiolica di diversi colori. Al di sopra vi è poi un lanternino cieco, concluso da una calotta semisferica. Il campanile è situato in posizione arretrata rispetto alla facciata, ma rimane ben visibile dal cortile interno della comunità.