Piazza Carlo Alberto e i luoghi delle esecuzioni pubbliche

Piazza Carlo Alberto: San Francesco, la cattedrale e l’Antico Palazzo di Città

Attestata fin dal 1217, l’antica plazuela porta oggi il nome di Carlo Alberto di Savoia Carignano (il re che aveva promulgato nel 1848 lo Statuto Costituzionale, l’unico che rimase in vigore anche dopo il fallimento della stagione rivoluzionaria Quarantottina), ed è stata per un lungo periodo l’unica vera piazza dell’antico borgo del Castellum Castri.

Di modeste dimensioni, la sua pianta quadrangolare è rimasta quasi inalterata nei secoli, benché differente da come si presenta nel nostro tempo, e risulta tuttora fusa con l’area che ancora oggi è antistante al duomo e all’Antico Palazzo di Città.

Il 4 ottobre del 1926, al centro della piazza, e al posto di una palma ultracentenaria, comparve d’improvviso la statua bronzea di San Francesco d’Assisi. Oggi i turisti ci passano davanti e tante volte lo immortalano nelle fotografie. C’è pure chi si siede nelle panchine ai suoi piedi. E lui, San Francesco, quieto, vede tutto, da ormai cento anni.
Sono in pochi però a sapere che la scultura venne sistemata proprio nello stesso punto in cui, fino a qualche anno fa, si svolgeva la vita dei cagliaritani aristocratici, e che era quindi un salotto di chiacchiere, un centro di aggregazione sociale, un luogo di corteggiamenti e accordi, di inganni e sotterfugi, nonché il simbolo del potere, poiché era il sito dove avvenivano anche le esecuzioni capitali dei nobili della città.

In epoca spagnola il rango elevato del condannato esigeva infatti la giusta macabra scenografia, la più idonea a trasmettere agli spettatori il significato dell’esecuzione dettata dal censo, e la piazza, cuore dell’antico borgo, ne rappresentava la quinta ideale.

San Francesco, l’Antico Palazzo di Città e Palazzo Mameli

Oggi, tramandata dalla voce popolare e nelle pagine di storia, tra le altre, si narra ancora la cronaca che riguarda l’attentato al viceré di Sardegna, il marchese di Camarassa.

Il 21 giugno del 1668, nella Cagliari spagnola in cui i malumori si agitavano come una bandiera esposta al maestrale, fu rinvenuto il cadavere di un uomo ferito a colpi di archibugio e finito con un coltello.
Non si trattava di una vittima qualsiasi, ma di don Augustìn de Castelvì, marchese di Laconi, personalità di grande prestigio politico e “capo” dello Stamento militare.
L’omicidio fu accolto con sgomento dall’opinione pubblica. Don Augustìn, in quella fase storica, godeva difatti di una grande popolarità in quanto simbolo della resistenza contro i soprusi del viceré, don Emanuele Gomez de Llos Cobos marchese di Camarassa, in carica da circa tre anni.
I due, fino a quel momento, erano stati protagonisti di un’aspra battaglia parlamentare, e l’intransigenza di entrambi aveva portato a un sostanziale fallimento di qualsiasi trattativa diplomatica.
Con l’uccisione del marchese di Laconi, il conflitto già radicale esplose dunque in modo irreparabile.
Dalla cerchia di don Augustìn si levarono, immediate, le accuse contro don Emanuele, indicato come mandante dell’omicidio, a cui si dava valore politico. Il viceré rispose con la rapida istituzione di un processo al fine di assicurare alla giustizia, in tempi brevi, i responsabili del crimine. Tutto ciò però non fu sufficiente per allontanare i sospetti dalla persona del sovrano, perché, nell’ombra, qualcuno stava già organizzando la vendetta, che si consumò appena un mese dopo, quando il marchese di Camarassa, mentre percorreva via dei Cavalieri (oggi via Canelles), al ritorno dalla festa della Novena del Carmine, cadde sotto le detonazioni di cinque carabine.

Stemma della città e l’iscrizione che ricorda la costruzione di una fontana

Il secondo delitto fu subito attribuito ad un gruppo di nobili vicini al marchese di Laconi. In Jaime Artal de Castelvì marchese di Cea, e cugino della prima vittima, si individuò il capo dei congiurati, tra i quali figuravano anche don Antonio Isidoro Brondo, don Francisco Cao, don Francisco Portugues, don Gavino Grixoni e don Silvestro Aymerich.
Il caso, all’apparenza piuttosto chiaro e lineare, si era però complicato per via di una seconda ipotesi che vedeva coinvolti nell’omicidio di don Augustìn la sua giovane moglie, Francesca Zatrillas marchesa di Siete Fuentes, e Silvestro Aymerich, amante della donna.
Lo scontro tra opposte fazioni si spostò quindi dal parlamento al tribunale.
In fase di processo, le famiglie delle vittime, entrambe influenti, cercarono di produrre prove al fine di ottenere ognuna il proprio verdetto, badando più all’apparenza politica che alla verità.
Grazie a una serie di testimonianze estorte con ricatti e violenze, Francesca Zatrillas e Silvestro Aymerich furono assolti, così come i presunti assassini del marchese di Camarassa. Tuttavia, il duca di San Germano, successore del viceré, fece annullare la sentenza e avviò un secondo processo, ritenendo le precedenti testimonianze inammissibili poiché ottenute con l’inganno.
Ulteriori deposizioni e prove, avute ancora una volta con metodi discutibili, portarono a un ribaltamento totale della situazione: per il delitto Castelvì furono giudicati colpevoli i due amanti, che nel frattempo, avallando i sospetti nei loro confronti, si erano sposati; per quello del marchese di Camarassa vennero invece giudicati responsabili lo stesso Aymerich, Jaime Artal de Castelvì, e tutti gli altri congiurati vicini al marchese, indicati fin dall’inizio come i cospiratori dell’assassinio di don Emanuele Gomez de Llos Cobos.

Palazzo Mameli

Tutte le condanne a morte furono lette in contumacia dal momento che donna Francesca e don Silvestro erano fuggiti a Nizza, mentre gli altri fuggiaschi avevano lasciato l’isola o si erano nascosti nelle montagne sarde con la protezione di alcuni banditi locali.
Iniziò così la caccia ai latitanti, sulle cui teste pendevano cospicue taglie. Chiunque li avesse consegnati alla “giustizia”, avrebbe ricevuto una lauta ricompensa, non solo in denaro. Ai briganti che avessero collaborato, per esempio, sarebbe stata garantita addirittura l’immunità.
In questo contesto, Giacomo Alivesi, un nobile che alle spalle aveva già alcuni reati, nel 1671 si mise a disposizione delle autorità ed entrato quindi in contatto con i fuggitivi, assicurò loro che a Cagliari si erano create le condizioni per una rivolta. I congiurati, a quel punto, vennero allo scoperto, certi di godere della protezione popolare, ma si trovarono nel cuore di un’imboscata. La reazione delle autorità fu immediata e fulminea, tutti i cospiratori furono rintracciati e poi trucidati sul campo. L’unico superstite all’azione fu il marchese di Laconi, anziano e stimato nobile cagliaritano, che venne condotto in città in catene, dove subì una condanna a morte per lesa maestà.
Venne ordinato che l’ingresso a Cagliari di Jaime Artal de Castelvì avvenisse con un grande spiegamento di forze. La cavalleria precedeva dunque il carnefice a cavallo con un tridente in cui erano infilzate le teste degli altri congiurati, seguiva poi il vecchio marchese avvilito e stanco, a piedi, e con gli abiti logori. Il prigioniero, accompagnato dal corteo, percorse le principali strade della città a suon di tamburi e faceva strada fino alla torre dell’Elefante, dove fu rinchiuso per sei giorni in attesa di essere giustiziato.

Palazzi Asquer e Prunas-Barrago

Il 15 giugno 1671, il rintocco sordo della lugubre campana, posizionata sopra la torre del Leone in maniera che il suo agghiacciante suono potesse essere udito fino al porto e facesse da monito anche a tutto il contado, accompagnava l’ultimo viaggio del marchese, che, condotto in catene fino alla plazuela, venne scortato lungo il percorso della via Dritta (l’attuale via La Marmora).
La mannaia del boia incappucciato calò così sul capo del congiurato, al cospetto della folla e di un nutrito spiegamento di forza pubblica.
Per rendere ancora più altisonante la vendetta governativa, la casa teatro dell’attentato fu rasa al suolo e l’area coperta di sale. Al suo posto fu poi posizionata una lapide con un’iscrizione infamante (tuttora leggibile invia Canelles 32).

Il corpo del marchese de Castelvì, lasciato sul palco, fu sepolto dai nobili confratelli del Monte di Pietà e tumulato nella loro chiesa di Santa Maria del Monte, mentre la testa, svuotata dagli organi e riempita di sale, venne infilzata e riposta all’interno di una gabbia di ferro pendente, per essere esposta sulla torre dell’Elefante, da dove però scomparve improvvisamente.

Da allora, secondo una leggenda popolare, durante le notti di luna piena che precedono e seguono la data della condanna a morte del marchese, una figura vestita riccamente si aggirerebbe per le vie del quartiere Castello trascinando un catenaccio. Il nobile spettro compirebbe sempre lo stesso tragitto, ripercorrendo la strada calpestata nel giorno dell’esecuzione. Dal luogo della carcerazione (la torre dell’Elefante), la figura si sposterebbe trascinando da sotto il braccio il proprio capo, fino a raggiungere la plazuela (il luogo della decapitazione). Poi con un urlo sordo, la visione sparirebbe inghiottita nelle viscere di una vicina grotta, lasciando nell’aria un profumo di violetta.

Scudo gentilizio dei Nin di San Tommaso

Si racconta inoltre che, in un particolare palazzo di via La Marmora, sia facile sentire ancora il ritmo del medaglione d’oro massiccio del marchese di Cea che batte sul ferro dell’armatura. E se la fortuna assiste gli avventori dell’edificio prescelto dalle anime in pena, questi preferiti, in silenzio, potranno udire anche la soave voce del fantasma di Clelia Adelaide, una fanciulla che, dopo aver raccontato la versione delle loro storie, chiede aiuto affinché si possa rendere giustizia alle loro figure, poiché solo allora potranno vivere nel concreto, il sonno della pace eterna.

A Cagliari le ultime esecuzioni pubbliche furono allestite fino alla seconda metà dell’800, e i nobili condannati a morte custoditi oltre che nelle torri dell’antico borgo del Castello, anche nelle prigioni ecclesiastiche di via Fossario. Ma funzionavano come luogo di detenzione anche la Torre Passarina e la vecchia armeria del Bastione della Concezione, le prigioni di Altamira, il carcere di Santa Barbara del Bastione del Dusay e il soprastante ospedale di San Pancrazio, il carcere dei minori di piazza Arsenale, le prigioni addossate alla grande torre nel suo antico cortile d’armi e la Porta Apremont.
Il giorno prima dell’esecuzione, i prigionieri di alto censo venivano trasferiti presso il “confortatorio” della chiesa di Santa Maria del Monte, dove ricevevano la consolazione religiosa ed un ultimo pasto.
Il mesto corteo partiva alle prime luci dell’alba e veniva  scandito dai rintocchi della lugubre campana: sa campana mala.
Il condannato, se nobile, era decapitato a colpi di scure in piazza Carlo Alberto, mentre il popolino doveva invece raggiungere uno dei punti esatti in cui le antiche mura del Castello incontravano i confini dei borghi di Lapola o di Stampace Alto.
Oggi quella strada sinistra, conosciuta con il nome di via delle forche, riposa nel sottosuolo, e per un breve tratto è stata riscoperta di recente nella pancia del Bastione di Saint Remy. Scrutandola, sembra ancora di sentirli i lamenti di quelle persone che, sovente, pronunciavano ingiurie o sputavano sulla folla, oramai in catene e rassegnate nel raggiungere quel tanto odiato patibolo, dove venivano torturate con le tenaglie, squartate, impiccate. Ma appunto non in Castello, bensì in altri punti della città dove si riteneva più confacente un simile spettacolo.

Palazzo Prunas-Barrago e la piccola edicola che custodisce la Vergine di Lourdes

Oggi, silenziosa e ricca di storia, piazza Carlo Alberto è circondata su tre lati da palazzi di un certo prestigio.
Osservando dalla scalinata, a destra della statua di San Francesco si erge il prospetto principale di Palazzo Prunas Barrago, che presenta i tipici elementi dello stile neoclassico: finestre sovrastate da timpani ciechi, cornici livellate, e l’ampio balcone che attraversa tutto il primo piano. Accanto al livello intermedio, all’angolo con via La Marmora, è collocata un’edicola di ridotte dimensioni contenente una Madonna di Lourdes in miniatura con la seguente epigrafe: “Alla S.S. Vergine di Lourdes, nel centenario delle sue apparizioni. Marianna e Oliviero Prunas, per riconoscenza eterna – MCMLVIII”.

A destra è individuabile Palazzo Mameli, mentre posto di fronte alla statua, e affacciato sulla piazza, si innalza Palazzo Asquer, il cui portale principale, inquadrato da pilastri dorici, è sovrastato da un timpano triangolare in cui è scolpito lo scudo gentilizio dei proprietari Nin di San Tommaso.

Il lato est della piazza è invece costituito dal muro su cui poggia una rampa di scale che collega l’area alla soprastante via Canelles, oltre la quale si possono scorgere i prospetti dell’Antico Palazzo di Città e della cattedrale. Alla base della scalinata è collocata una lastra marmorea decorata da uno stemma della città in stile manierista, opera dello scultore Scipione Aprile, con un’iscrizione, datata 1603, che ricorda la costruzione di una fontana pubblica, oggi scomparsa.

Sotterranei sotto Palazzo Reale

Le scalette della piazza ospitano un ambiente comunicante con un vano derivante da due preesistenti cisterne intercomunicanti, situate sotto la via Canelles.
Dalle pareti di fondo di uno di questi due serbatoi idrici parte un cunicolo alto 2 metri e largo 1.50 mt, ortogonale alla via Canelles e diretto verso il duomo. Dopo appena 10 metri, la galleria vira poi a sinistra verso nord, sviluppandosi nel ramo principale sotto piazza Palazzo e la via Martini, parallela ai prospetti della cattedrale, dell’episcopio e del Palazzo Reale, per una lunghezza di oltre 65 metri e con sezioni variabili.
A circa 35 metri nella parete est (a destra) della galleria si apre una bassa apertura, oggi chiusa da una grata metallica, che dà accesso ad un altro cunicolo di comunicazione con il palazzo arcivescovile, a cui si arriva mediante una moderna scalinata in cemento, lunga circa 20 metri, e sbarrata in fondo da un muro di mattoni.
Alla fine del ramo principale si intercettano poi altri due cunicoli a “T”, di cui, quello a sinistra, portava all’originario ingresso dalla via Canelles, attualmente tamponato con un muro di pietre e cemento. L’ambiente è voltato con un solaio in cemento armato di limitato spessore, costruito nel dopoguerra.
L’altro ramo, sviluppato in direzione opposta sotto il Palazzo Reale, e che ha una lunghezza complessiva di oltre 25 metri, dopo aver intercettato un pozzetto circolare, inizia un percorso articolato a “S” che si allunga fino a sbucare nella parete del costone orientale, sotto e tra due contrafforti dello stesso palazzo.
In questo punto è presente un’apertura rettangolare, chiusa però da un portoncino metallico, da cui, con una moderna rampa di scale in cemento, si arriva alla copertura del parcheggio di viale Regina Elena.

Sotterranei sotto Palazzo Reale

Risalendo invece il pozzetto per 3 metri, si giunge ad una botola che dà adito ad un altro cunicolo scavato nel tramezzario, che si estende per 27 metri sino al pertugio di accesso, situato all’interno dello stesso edificio storico.

Il complesso di gallerie, site a diverso livello, tra loro comunicanti, e integrate ad alcune cavità preesistenti, furono realizzate nel 1942, quando, data la mancanza di rifugi sicuri all’interno del quartiere Castello, il Comitato Provinciale dell’U.N.P.A. valutò la realizzazione di ricoveri antiaerei utilizzabili dal castellani, ma che, tramite alcuni sottopassaggi, potessero essere utili anche dalla cattedrale, dall’episcopio e dal Palazzo Reale, con accessi da via Canelles e dalla piazza Carlo Alberto.

La Congiura di Camarassa.